“Chi si ammala di Gesù non può più guarire”: Quest’uomo straordinario, riservato, schivo, di rara sapienza e umiltà, è tuttavia capace di esplosioni di gioia, ridere e scherzare come un fanciullo, e di “strologate caddhipuline” da far epoca, da vero figlio di popolo. Lo ricordo, d’estate, al “Villaggio Robinson”, coi tedeschi che mescolavano schiuma di birra alle onde di risacca della riva di Ugento, o lungo i versanti di Castelforte, nella valle di Taviano, dove si ascoltavano le foglie vive, le vibrazioni e i timbri d’arpe in una remota purezza librata sulla vita del mondo, o nei bagliori serali delle “Quattro Colonne” che suggerivano un cielo diverso e univano anche il mare al “viso d’Iddio”. C’è sempre stata fra noi quella sintonia, quella consonanza, quell’intesa fluttuante di certi momenti di grazia che fa clic e scatta al momento giusto, quando ognuno si sente un po’ parte dell’altro, quando si è amici perché inscindibili da qualcosa di comune e immenso, e ci si chiede dove possa essere il collante, l’empatia, l’amore fraterno…e si guarda in alto. “Alla fine ci troveremo tutti in quella zona di confine che sarà difficile attraversare, in cui non sarà bastato neppure consumarsi, logorarsi in nome di una purezza centrale. E tutto sarà stato vano, senza la fede”. Dobbiamo continuare il cammino in questa eternità dell’ora?. Certo, non è facile essere un prete, i preti sono voragini di solitudini e dubbi, privi di carezze e del fuoco domestico ” . “Io non credo che un prete possa fermarsi a metà strada o alla superficie delle cose”, disse David Maria Turoldo, che don Pippi fece venire un giorno a Gallipoli (vi parlo di più di quarant’anni fa), al teatro Garibaldi, questo grande frate poeta, gigantesco, più alto di lui (che non scherza col suo metro e novanta), con della mani alla Carnera (anche lui friulano), e quando le apriva faceva vento sui palchi barocchi del piccolo “San Carlo”. In queste mani le cose o si sbriciolano o vanno in cenere, oppure si trasfigurano come l’ostia e diventano luminose, e tutta la terra si fa ostia. “Chi si ammala di Gesù non può guarire”, mi disse questo vecchio fanciullo gigante di settantaquattro anni sulle nude scogliere di Gallipoli, nel devastato giardino dei ricordi, con qualche gioia e tante rapine, con la paura che le ali dei gabbiani si frangano sugli abissi di Dio.
Un solo verso può fare più grande l’universo: Ma a che serve la poesia? Ecco le furiose e dolci ostinate fatiche dei poeti a inseguire ora il frinire d’un ala di cicala invisibile, ora gli scrosci di un uragano.Guardiamolo pure il mare, quel fantasma d’armonia che se ne va in fumo e nafta, ascoltiamo gli echi della sofferenza delle sue grida, le voci di specie per sempre estinte. Non esiste più “quel mare, né quella Gallipoli di quarant’anni fa, in cui don Pippi amava perdersi: “Andirivieni di angeli e gabbiani / tra Sant’Angelo e la Purità /. Bello è perdersi ogni tanto/ nel labirinto / dell’antica identità”. Anche nella “città bella”, scoglio di poeti, tutto è stato omologato Anche qui hanno assassinato la bellezza e a nulla servono cortei di protesta, sit-in, impetrazioni. Siamo all’approssimarsi della fine di tutti i poeti di Gallipoli, dagli antichi aedi al Sindaco poeta Luigi Sansò. Sollevando il calice al Signore, don Pippi fa risplendere il suo pianto nudo come ” mendicante di stelle”, e dice: “I poeti esisteranno sempre. Un solo verso fessura sull’infinito come il costato aperto di Cristo, un solo verso può fare più grande l’universo”.
Ricominciare:Rifiorisce la speranza, l’attesa dell’Altro. “Come potrei altrimenti al mondo che delira offrire il pane del Verbo che sublima?” Bisogna sempre ri-cominciare, porsi all’ascolto della voce, del respiro di Dio, che è ovunque, e s’ode come “Musica di roccia/ che al tramonto lieve s’effonde/ dalle rosee tastiere/ per le valli, nei boschi”. Ri-cominciare, dunque, con il “difficile spartito/ della musica di Dio/ che azzera montagne di ragionamenti/ affogando ragnatele / di nude parole d’uomo” .Ri-cominciare anche cinquant’anni dopo con la ” resa”, che è l’abbraccio della memoria, dei ricordi , del ritrovo del tempo, in cui passeggiavi sul lungomare Galilei, tra i vetri di mare, i licheni, i frammenti e le rovine, le brezze e gli angeli tristi. Facevi chilometri e chilometri, a piedi, e tornavi a casa come una conchiglia piena di fede. E poi le tue omelie, inconfondibili pagine di dottrina teologica, storia, filosofia e poesia, recitate sull’ambone dell’altare maggiore della cattedrale di Sant’Agata, nel recinto del coro di Aver, tra l’oro e la musica che fanno i colori delle grandi tele , vera e propria pinacoteca che racchiude tutta l’anima religiosa e barocca gallipolina. E mentre la tua anima lirica canta o prosegue il volo, il tuo piede destro ritma con discrezione il tempo.
E quante volte ci siamo detti: “Che peccato non registrarle quelle omelie dei vangeli della domenica, dalla speranza dell’Avvento alla festa del Cristo Re; che peccato che tutto questo patrimonio di intensità e tensione spirituale, queste splendide omelie che danno anche il senso del mutamento della storia, che ci arricchiscono e ci comunicano concetti importanti, essenziali, questa memoria di speranza, rimanga abbandonata, vada dispersa, duri solo quel breve tempo che dura una messa!”. Ma forse questo libro non scritto, – cinquant’anni di storia sacerdotale, questo libro chiaro, luminoso, forte, intenso, pieno di fatti e idee, questo libro che segue passo per passo il calendario della liturgia cattolica -, è il tuo vero capolavoro!. È un libro unico e originale, un libro fatto d’aria, in cui le note della tua voce, le tue parole si depositano lievemente, come seme, lungo l’invisibile esistenza dell’idealità e dello spirito. Sono gli “Echi e riverberi della Parola”.