Per documentare tuttavia l’esistenza certa del casale di Taurisano bisogna spostarsi almeno all’inizio del XV secolo. Solo allora è possibile recuperare attraverso i periodici censimenti fiscali (prima aragonesi e poi spagnoli) qualche dato di sicura attendibilità per ricostruire le vicende comunitarie. Questo non esclude che alcuni decenni prima (ultimo trentennio del Trecento e primo quarantennio del Quattrocento) non esista un agglomerato rurale che possa anticipare e sostenere l’insediamento abitativo definitivo registrato a metà Quattrocento, ma non potendo corroborare questa ipotesi con indicazioni numeriche precise, resta, allo stato attuale della ricerca, non documentabile. Per non smarrirsi nell’inseguire supposizioni aleatorie e prive di fondamento, il punto di partenza deve essere fissato a metà del XV secolo e precisamente al 1447, anno della prima rilevazione fiscale aragonese[4]. In quella data Taurisano viene mandato in tassa per 28 fuochi ovvero per una popolazione presunta di 130-150 abitanti complessivi[5]. Pur dando per scontato che la cifra riportata non contempla i fuochi esenti da tassazione, riconducibili agli ecclesiastici residenti, agli anziani, alle vedove e vergini in capillis e, non per ultimi, ai nuclei poveri e poverissimi non censiti per capacità fiscale nulla, non si può azzardare una popolazione superiore alle 200 unità. Pur tenendo il conteggio su un moltiplicatore medio (quello di 5 per il numero dei fuochi fiscali censiti) si tratta di un casale che non può vantare una vita troppo remota. La sua formazione appare di recente data e ancora precaria se per i decenni successivi, fino almeno all’inizio del Cinquecento, la consistenza abitativa resta invariata, ancorata per lungo tempo sugli stessi numeri del censimento di metà Quattrocento. Solo con l’inizio del nuovo secolo si registra una significativa svolta con l’impennata del 1508 con 64 fuochi censiti, più del doppio di sessant’anni prima, che dopo meno di vent’anni, nel 1522, passano addirittura a 100 per poi attestarsi su 91 nel 1540[6]. Bisogna tuttavia aspettare gli ultimi anni del secolo, precisamente il 1595, per toccare la massima espansione con 140 fuochi (poco più di 700 abitanti complessivi), valori che. grosso modo, resteranno inalterati fino a metà del XVII secolo[7].
A considerare questi dati nella loro presunta proiezione Taurisano va senza dubbio accorpato a quei centri, e non sono pochi, che nel Salento risultano di recente impianto, il cui agglomerato abitativo emerge in maniera lineare e duratura tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’epoca moderna. Soprattutto nel lungo Cinquecento la crescita demografica si rivela sostenuta e tale da segnare prospetticamente la fisionomia identitaria del piccolo centro del basso Salento. All’interno delle dinamiche storiche di questo secolo si possono analizzare non solo il precoce slancio insediativo, ma anche la struttura della popolazione residente con i suoi travasi in entrata ed uscita, alimentati dal richiamo ciclico di forza-lavoro e, con esso, dai flussi migratori (interni ed esterni) che lo sorreggono al fine anche di individuare i caratteri originari della nuova comunità salentina.
2. Per spiegare le cause alla base del positivo trend demografico cinquecentesco bisogna prima di tutto guardare al ruolo strategico acquisito tra Medioevo ed Età moderna dalla penisola salentina (che proprio con la dominazione spagnola assume il nome di Terra d’Otranto[8]). L’olio lampante si rivela il prodotto più ricercato dalla manifattura europea. E non solo. La crescente domanda olearia spinge l’estrema provincia pugliese ad assumere una centralità inaspettata negli scambi commerciali, contesa dalle maggiori etnie mercantili estere, in primo luogo da quella veneziana e genovese. La Serenissima difende con la forza militare il predominio conquistato nel tardo Medioevo, non rinunciando a mirate azioni belliche, come quella consumata nel 1484 con il sacco di Gallipoli, il cui porto è considerato il più attrezzato per l’esportazione dell’olio lampante salentino[9]. Su questo versante si registra una progressiva colonizzazione da parte delle potenze mercantili italiche ed europee con ricadute economiche tuttavia positive per la popolazione autoctona se una provincia periferica come Terra d’Otranto entra, senza mai uscirne nei due secoli successivi, nei circuiti del grande commercio internazionale. L’accresciuta produzione olearia registrata nel corso del XVI secolo, pur arricchendo oltre il dovuto l’intermediazione estera, procura anche qualche beneficio alle aziende agrarie di Terra d’Otranto (in mano pressoché esclusiva alla feudalità)[10] e, in misura minore, alla manovalanza contadina coinvolta, che può godere di più accettabili condizioni di vita. Il sostenuto rilancio commerciale dell’olio lampante, accompagnato dall’attenuazione dei cicli negativi carestia-epidemia, spinge l’intera provincia salentina a segnare ritmi di sviluppo economico di non trascurabile interesse, favorendo per un verso un accrescimento dei pregressi livelli di ricchezza e nello stesso tempo un allargamento dei vecchi e nuovi insediamenti abitativi per il richiamo di forza-lavoro necessaria allo scopo[11].
Taurisano è un casale situato nel circondario di Gallipoli, territorio considerato il più propulsivo della provincia per la produzione e il commercio dell’olio lampante. Per questa ragione si posiziona al meglio per intercettare, come altri paesi limitrofi, la congiuntura positiva e con essa consolidare in maniera sostenuta la crescita demografica. Nel corso del Cinquecento la comunità passa da circa 200 abitanti a poco meno di 700 con un ritmo evolutivo che supera il 300%. Un valore di non poco conto che va ben oltre le condizioni favorevoli innescate dai livelli produttivi e dalla stessa composizione della struttura familiare, che resta sostanzialmente nucleare, pur con poche ma non incidenti presenze di famiglie allargate. Ѐ evidente che la crescita demografica esponenziale non va indagata nelle ristrette potenzialità riproduttive delle originarie famiglie autoctone, ma negli apporti esterni legati a precise dinamiche migratorie. La prima ragione che emerge storicamente riguarda l’intero Salento come terra di frontiera tra Occidente e Oriente e, con esso, una moltitudine di comunità del tacco della provincia, tra cui Taurisano. Essa va individuata nei legami profondi che unisce questa realtà territoriale con Bisanzio, un punto di riferimento ineludibile sul piano culturale e religioso-istituzionale, che dura oltre la presa ottomana del 1453. La caduta in mano turca dell’impero orientale riapre una nuova fase migratoria per molte popolazioni slave, di religione cristiano-ortodossa, le quali, pur di non sottomettersi al dominio della Sublime Porta, preferiscono attraversare l’Adriatico per cercare riparo in una terra considerata ospitale come la Puglia e il Salento in particolare. Soprattutto dopo l’occupazione albanese da parte dei Turchi (1478) il fenomeno migratorio acquista rilevanza epocale, alimentando un esodo dalle dimensioni numeriche mai conosciute, con gran parte della popolazione che abbandona la propria terra per rifugiarsi in un territorio ritenuto più sicuro[12]. Nella prima ondata di questo processo migratorio vengono, dove più dove meno, coinvolte numerose comunità salentine aperte all’accoglienza dei rifugiati, ai quali il governo aragonese prima e poi quello spagnolo concede la piena esenzione fiscale[13]. Solo a Cinquecento inoltrato, in particolare nella seconda metà del secolo, si decide di convogliare e accentrare questo esodo in una zona estesa a sud di Taranto, dando vita ad una decina di casali di esclusiva etnia albanese[14]. Una scelta dettata non dalla volontà di rinchiudere forzatamente in un ghetto territoriale una popolazione di forestieri, ma dalla necessità di recuperare forza-lavoro da destinare alla trasformazione colturale in un’area pressoché desertica infestata dalla malaria. Non è irrilevante che una siffatta scelta sia stata sollecitata e sostenuta dalla feudalità della zona, i cui forti interessi a favorire il ripopolamento si accompagnano al rilancio produttivo nel settore agricolo soprattutto in un periodo in cui la domanda di olio lampante cresce in maniera esponenziale sul mercato internazionale[15].
A questa eccezionale ondata migratoria, le cui proporzioni attendono di essere ancora definite nella loro interezza, se ne aggiunge un’altra, di dimensioni certamente minori ma non per questo trascurabili, legata al sacco turco di Otranto del 1480. Ѐ noto che dopo la riconquista aragonese della città nel settembre del 1481 non tutti gli occupanti scelgono di tornare a Valona, da dove erano partiti. Un buon numero di essi, valutato tra le 2000 e le 3000 unità, decidono di restare, chiedendo di essere integrati nell’esercito regio e/o destinati ad altre mansioni lavorative[16]. Si tratta in massima parte di guerrieri denominati “giannizzeri”, una formazione militare al servizio esclusivo del Sultano, la cui collaudata perizia nelle armi viene riconosciuta e apprezzata anche dalle altre potenze europee[17]. I giannizzeri sono reclutati all’interno dei territori sottomessi al dominio ottomano, prima nel perimetro dell’impero orientale di Bisanzio. Sono di religione cristiana, di rito ortodosso, e questo è un tratto distintivo che non perdono mai, neppure quando il processo di islamizzazione perseguito in quell’area diventa totalizzante. Il Sultano continua a fidarsi di loro, considerando quell’appartenenza confessionale non ostativa alla difesa prima e all’espansione poi di un impero nato con il vessillo del Corano. La vicenda di Otranto per alcuni di essi diventa un’opportunità per cambiare destino. Una minoranza, anche se non proprio striminzita, delle 15000 unità utilizzate nel 1480 per il sacco della città, si rifiuta un anno dopo di tornare indietro, offrendosi di mettersi al servizio della monarchia aragonese[18]. Il sovrano Ferdinando non si fa affatto pregare, accettando di accogliere nelle sue fila questo rinforzo militare, già operativo nei primi scontri bellici affrontati. In realtà solo una parte (700-800 giannizzeri) vengono inquadrati nell’esercito aragonese, tutti gli altri si disperdono nel territorio salentino, andando ad ingrossare, dove più dove meno, le comunità deficitarie di forza-lavoro. Quando poi la monarchia aragonese, con l’inizio delle guerre d’Italia, va progressivamente sfaldandosi, anche i superstiti giannizzeri impiegati nel servizio militare scelgono di fare altro, di occuparsi di lavori diversi o di “vendersi” a caro prezzo sul mercato bellico come “soldati di ventura”. Non si conosce ancora molto del destino di questi slavi cristiano-ortodossi rifugiati nel Salento dopo il sacco d’Otranto del 1480, perché non vengono intercettati dai censimenti fiscali e per lungo tempo oscurati dalla volgarizzazione delle loro originarie identità anagrafiche. Nel loro insieme contribuiscono a sostenere gli alti tassi demografici registrati nel primo Cinquecento in alcuni casali, senza però poter escludere altri che ne beneficiano in misura minore. Si possono individuare come unità domestiche solo attraverso una mirata ricognizione documentaria negli anni successivi all’evento otrantino, isolando i cognomi nuovi che appaiono nelle carte archivistiche. Una ricerca di non facile e sicuro approdo, che dovrebbe puntare in prima battuta sui fascicoli delle Percettorie Provinciali, poi sui periodici censimenti fiscali e, non per ultimo, sui registri anagrafici delle chiese curate in cui tardano ad estinguersi i riti ortodossi[19]. Laddove alla guida delle parrocchie si ritrovano ancora preti ammogliati che, pur pronti formalmente a seguire l’obbedienza romana e ad adeguarsi alle norme della chiesa d’Occidente, non rinunciano a cancellare ex abrupto le vecchie liturgie bizantine, tenendole attive finché non censurate dall’autorità ecclesiastica come, per fare solo un esempio, l’amministrazione del battesimo per immersione, rito esplicitamente richiesto dalle famiglie slave, greche e albanesi di religione cristiano-ortodossa. Un’etnia quella ellenofona certamente non nuova nella struttura demografica salentina, destinata però a sbiadirsi senza l’apporto fornito dalle migrazioni di fine Medioevo ed inizio dell’Età moderna quando anche il mare Egeo, con Grecia ed isole comprese, cade sotto il dominio ottomano. Il trasferimento di popolazione dall’altra parte dell’Adriatico verso la costa pugliese e, in primo luogo salentina, ritorna a rafforzare i ritmi di crescita di non poche comunità, ormai destinate a diventare precocemente multietniche[20].
La commistione di etnie è un dato riconducibile in via generale agli avvicendamenti delle dinastie dominanti sul Mezzogiorno. Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e poi Spagnoli lasciano durature tracce di contaminazioni genetiche nella popolazione autoctona. A queste tuttavia vanno aggiunte le altre rivenienti dalle cicliche migrazioni (di albanesi, slavi, ragusei, greci, ecc.), di cui si è fatto cenno. In controtendenza sembra attestarsi, invece, l’etnia ebraica ben radicata in alcuni centri del Salento (Lecce, Otranto, Gallipoli, Copertino, ecc.) nel periodo medioevale[21]. L’assalto incendiario alle sinagoghe di fine Quattrocento e le successive leggi di espulsione dal regno delle comunità ebraiche decise dall’imperatore Carlo V finiscono per impoverire l’intera provincia di Terra d’Otranto di un importante apporto in particolari settori economici, come quelli del credito e dell’artigianato specializzato. Non si conosce nei numeri l’incidenza della diaspora, ma secondo ricerche recenti non sembra affatto trascurabile, a considerare il flusso migratorio prima verso l’isola di Corfù e poi nella più sicura città di Salonicco[22]. Non tutti gli ebrei salentini decidono però di lasciare la terra in cui avevano trovato una larga accoglienza e gratificanti opportunità di lavoro. Non pochi di essi accettano di diventare forzatamente “cristiani nuovi” e di restare integrati nelle comunità di riferimento, di città per conservare un’identità ben riconoscibile. La loro scelta va a sommarsi a quelle delle altre etnie marginali che cominciano a connotare il Salento moderno attraverso il mercato degli schiavi e la stanzialità degli zingari, ma anche di altre di maggiore peso nel settore mercantile, con la predominanza di veneziani e genovesi, e in misura minore di bergamaschi, fiorentini, napoletani, catalani, spagnoli, ecc[23]. Non pochi mercanti veneziani e genovesi investono le loro fortune in rendita parassitaria per andare ad ingrossare le fila degli aristocratici locali e della feudalità regnicola. Sul piano dell’evoluzione demografica il settore mercantile estero non si rivela particolarmente incidente, esprimendo tassi di crescita cristallizzati per lungo tempo, ma con ricadute strutturali non insignificanti sulla fisionomia identitaria della provincia salentina.
Nuovi e, per certi versi, inaspettati si rivelano gli apporti demografici forniti da alcune etnie marginali, tra cui quelle riconducibili alla circolazione degli schiavi e alla stanzialità degli zingari. Il mercato degli schiavi torna fiorente in seguito all’espansionismo turco nel Mediterraneo, con l’attivazione di centri di smistamento del bottino bellico concentrato soprattutto nell’Africa settentrionale. Anche il Salento viene risucchiato in queste dinamiche di scambio in quanto terra depredata dalle ripetute incursioni corsare[24]. Uomini e donne, soprattutto giovani, vengono trasferiti altrove e liberati solo con un riscatto concordato e/o attraverso la vendita all’incanto al maggiore offerente. Sugli ostaggi autorevoli si avvia un procedimento centralizzato in mano ad istituzioni nate allo scopo, che gestiscono la delicata materia in via diretta, di cui rimane traccia nella documentazione vaticana Hortatoria pro Captivis (relative alla compartecipazione del mondo cattolico per la raccolta di somme fissate dalle taglie); per quelli invece che non godono di alcuna protezione il loro destino è deciso dalla libera contrattazione che avviene in forme diverse e spesso attraverso la mediazione di personaggi poco noti, ma molto attivi sui mercati internazionali. Di quest’ultimo fenomeno si possono misurare le ricadute nel Salento, dove a partire dal primo Cinquecento e per i due secoli successivi la migrazione di schiavi viene alimentata dai ceti nobiliari e dagli ecclesiastici di rango per la necessità di avvalersi dei loro servizi nella cura delle residenze signorili[25]. Studi recenti e meno recenti hanno documentato questo significativo apporto fornito da un’etnia eterogenea di soggetti, in maggioranza di origine africana, che hanno arricchito la variabile genetica della popolazione salentina, spingendola verso una forma ibrida, meticciata, che va progressivamente contaminando lo scenario demografico provinciale. Di molti di questi schiavi si sono perse le originarie identità in quanto, dopo aver dato prova di generoso servizio domestico, vengono de facto integrati nelle nuove famiglie, fino ad assumere lo stesso cognome del loro proprietario. La casistica, al riguardo, torna utile perché chiarisce il fenomeno con alcuni esempi significativi, come quello riconducibile ai Gallone, feudatari di Tricase, nella cui residenza signorile risultano in servizio 6 unità di schiavi, che perdono questa condizione di subalternità una volta acquisito il cognome Gallone, consentendo ai loro figli di accedere agli studi e di conseguire titoli accademici per esercitare professioni di prestigio nel settore forense e in quello ecclesiastico[26].
Un contributo non irrilevante alla composizione multietnica e meticciata della popolazione salentina viene anche fornito dai rom, ovvero dagli zingari che decidono di fissare dimore stanziali senza rinunciare a frequentare le fiere locali per vendere i loro prodotti in metallo e in particolare gli animali da trasporto come i cavalli. Un’etnia che anche nel Salento attraversa periodi in cui il dualismo inclusione-esclusione non sembra pienamente risolto con declinazioni lineari, lasciando ai margini molte famiglie di zingari costrette per lungo tempo a girovagare all’interno del territorio provinciale. Prevale in alcuni centri l’accoglienza e l’integrazione, seppure segnata da riserve mentali e da una sorta di apartheid imposta soprattutto per il loro rifiuto di seguire i riti comunitari ufficiali, quelli scanditi dalla religione cattolico-romana[27]. Ciò li rende diversi e distinti dal resto della popolazione autoctona, che tuttavia non si mostra dovunque rigida e arroccata, aprendosi progressivamente alla contaminazione e alla mescolanza genetica. Questo avviene in modo particolare in alcune comunità salentine dove la componente rom cresce sensibilmente, divenendo una minoranza non trascurabile numericamente. I maggiori centri in cui questa minoranza risulta particolarmente integrata sono Cavallino, Veglie, Acquarica del Capo, Tricase, Galatone, Casarano e Taurisano[28]. In questi casali più che in altri è possibile seguire e ricostruire processi di inclusione molto avanzati, che, pur non cancellando in via definitiva i segni somatici e le inclinazioni professionali predominanti (ancora oggi diverse macellerie equine sono gestite da antiche famiglie rom), tendono ad accelerare il superamento delle originarie diversità e distinzioni, finendo ad omologare l’intera popolazione residente, connotandola in maniera estensiva come meticciata.
3. I dati raccolti dai censimenti fiscali del Cinquecento ci forniscono puntuali indicazioni sui caratteri meticciati di Taurisano all’inizio dell’età moderna. Il certosino lavoro di De Paola, che con metodo e acribia ha ricostruito la struttura demografica per gli anni 1522, 1532, 1561 e 1586 (gli anni che interessano alla nostra ricerca), riportando i valori assoluti per sesso, età e stato civile, aiuta ad isolare alcuni elementi che tornano utili per chiarire i livelli di contaminazione etnica in fieri nella comunità salentina[29]. Le fonti esplorate evidenziano numeri inediti, che non corrispondono a quelli segnalati nel Dizionario Geografico da Lorenzo Giustiniani. Non si tratta invero di piccole e trascurabili varianti, ma di cifre che, analizzate adeguatamente, rivestono un peso notevole, che danno al casale di Taurisano una dimensione demografica più corposa di quella che traspare dalla contraddittoria lettura delle serie finora conosciute e richiamate in apposite tabelle anche da Maria Antonietta Visceglia[30]. I ritmi di crescita della popolazione residente negli anni centrali del primo Cinquecento appaiono sostenuti e tali da oscillare intorno ai 130 nuclei fiscali. Fuochi fiscali e fuochi reali non sembrano però coincidere se accanto alla numerazione ufficiale vengono segnalati alcuni nuclei domestici esclusi per ragioni diverse. Nel 1522 mancano all’appello 18 fuochi ritenuti estinti dalla peste e altri 21 non registrati in quanto assenti dal casale. Il numero complessivo dei fuochi reali è, quindi, certamente superiore (almeno di una ventina di unità) a quello trascritto negli atti della Percettoria provinciale, salvo ulteriori integrazioni legate alla mancata segnalazione dei fuochi esenti per incapienza fiscale, la cui dimensione non dovrebbe essere poco incidente se si arriva a presumere 185 fuochi complessivi. Quello che non torna da queste cifre resta il numero reale degli abitanti, la cui somma (407 in tutto) viene fuori dalla numerazione dei soli nuclei domestici residenti, trascurando i nuovi apporti esterni[31]. Rilievi analoghi si possono avanzare per il censimento del 1532 in cui i fuochi fiscali crescono di poche unità (11 in tutto) rispetto a quello dei dieci anni prima, ma che, a conti fatti, per via delle vistose perdite la popolazione totale si riduce sensibilmente in relazione a quella registrata nel 1522 (toccando appena 278 unità). A considerare i dettagli forniti nel commento esplicativo del censimento si tratta di un vero e proprio tracollo demografico dovuto essenzialmente alla perdita secca di 76 fuochi decimati dai Turchi (parte dei quali trasferiti altrove come bottino di guerra), a cui bisogna aggiungere 27 fuochi estinti dalla peste ed altri 19 assenti dal casale. Una decimazione che porta il numero dei fuochi complessivi tassabili ad appena 8, una cifra davvero risibile, del tutto inconsistente, che anticiperebbe prospetticamente il declino irreversibile del casale.
La peste, come epidemia endemica, e le frequenti scorrerie turche, quale fattore esogeno pur temporalmente circoscritto, risultano le variabili che regolano l’evoluzione demografica di Taurisano. Alti e bassi che incidono negativamente soprattutto nei primi decenni del Cinquecento, quando gli strascichi epidemici si rivelano permanenti e gli assalti turchi alla costa salentina, ancora indifesa, espongono le diverse comunità al saccheggio e alla decimazione degli abitanti. Alla fine degli anni trenta del secolo si fa fatica a costruire, nonostante l’impegno profuso in questa direzione da papa Paolo III, una Lega Santa contra il Turco per la divisione degli Stati cattolici e di dare rapido corso nel Salento alla installazione decisa da Carlo V delle torri costiere di avvistamento per la difesa del territorio. Bisogna attendere i decenni successivi (quelli a cavallo tra gli anni ’50 e ’70) per registrare un cambio demografico sia per l’attenuazione del contagio epidemico (solo una tregua prolungata ma temporanea) sia anche per la messa in opera delle nuove strutture di difesa che accompagnano e sostengono la controffensiva cattolica che porta alla vittoriosa battaglia di Lepanto del 1571[32]. Taurisano in concomitanza con questi eventi segna un sostanziale recupero demografico, aprendosi all’accoglienza con il dare ospitalità ad un numero non trascurabile di famiglie forestiere. Indizi che si possono raccogliere anche nei censimenti fiscali del periodo. Nel censimento del 1561 i fuochi fiscali risalgono a 82 (erano 8 nel 1532), aumento dovuto essenzialmente all’apporto di 30 nuovi nuclei familiari arrivati da fuori. Pur perdendo 15 vecchi fuochi il casale registra una non trascurabile mobilità demografica, che lo rende ancora vivo, superando in via definitiva la crisi dei decenni precedenti. Una tendenza confermata anche dal censimento del 1586 con un leggero aumento del numero dei fuochi fiscali (110) e un sostanziale equilibrio tra fuochi assenti dal casale che vanno ad ingrossare altre comunità (30) e quelli, invece, di immigrati che compensano questo esodo (24)[33].
Se si ferma l’attenzione sul fenomeno della mobilità la differenza tra il primo e il secondo Cinquecento appare oltre modo evidente. Nei censimenti del 1522 e 1532 si registra un abbandono di dimensioni non trascurabili da parte di nuclei residenti, che scelgono per ragioni diverse (opportunità di lavoro, mercato matrimoniale, sicurezza e altre) di stabilirsi in altri centri limitrofi (Ugento, Gallipoli, Casarano, Ruffano, Salve, Parabita, Acquarica, Presicce, ecc.). Taurisano sembra in questo periodo una comunità poco attrattiva perché esposta più di altre al pericolo piratesco se viene depredata in più occasioni dai turchi, che riescono ad impoverirla, come anticipato, con un bottino umano di ben 76 fuochi. La situazione si rovescia nella seconda parte del secolo quando tende a scomparire la minaccia militare turca e si assiste ad una prolungata tregua epidemica di natura pestifera. Nel censimento del 1561 risulta in mano turca solo un fuoco (tale Chicco Pinto) e nessun morto per peste, mentre in quello del 1586 non vengono segnalate perdite tra la popolazione locale riconducibili alla moria di peste e ai saccheggi corsari. Una situazione che favorisce un recupero demografico sostanziale, rovesciando il trend negativo precedente: nel 1561 le famiglie forestiere che si insediano a Taurisano risultano 30, praticamente il doppio di quelle che decidono di abbandonarlo, mentre nel 1586 si registra un equilibrio quasi fisiologico con 24 nuovi nuclei domestici a fronte di 30 fuochi vecchi che rinunciano a risiedervi. In buona sostanza la curva demografica tende a risalire rapidamente, godendo di un apporto migratorio mai prima conosciuto. In massima parte si tratta di uno scambio demografico (al netto delle entrate ed uscite) con le comunità limitrofe (Casarano, Ugento, Gallipoli, Presicce, Acquarica, Ruffano, Specchia e altre dell’immediato circondario con poche eccezioni riferibili a Lecce, Brindisi, Ragusa, ecc.), che va ad accrescere sensibilmente i tassi di crescita, divenuti sostenuti anche per il balzo in avanti del saldo positivo nati-morti per quasi un quarantennio. A fine Cinquecento Taurisano raggiunge il più alto livello demografico della sua storia recente con poco più di 700 anime, lo zoccolo duro su cui costruirà la sua robusta impalcatura abitativa, il sostrato insediativo più autenticamente autoctono. Proprio su questo terreno è possibile desumere dai censimenti fiscali qualche ulteriore indizio sulla struttura demografica, quella che segnerà i caratteri originari della comunità.
La prima e senza dubbio la più importante indicazione fornita dalla documentazione superstite interessa la duratura stanzialità di alcune famiglie rispetto ad altre. Un elemento questo di radicamento comunitario che viene declinato nel primo Cinquecento soprattutto dai Crudo, Orlando, Mangasio, Pino, Rimpia, Pansa, Crapa, Caputo, Cicchi, Giannotta, Arciero, Spano, ed altri. Nel 1522 si trova sindaco Paolo Pino e uditori Francesco Crudo e Vincenzo Rimpia alias Cairo; dieci anni dopo, nel 1532, ancora Paolo Pino risulta saldamente alla guida dell’università locale, tal Arciero (non è indicato il nome) e il maestro Gabriele Orlando sono auditori; l’Orlando è incaricato anche del censimento fiscale. Nella seconda metà del secolo ai primi già segnalati si aggiungono tra i nuclei domestici predominanti quelli degli Alfarano, Valente, Pinto, Spiri, Saracino, Caloro, Martella, Simone, Santoro, Valente, Greco, Albanese ed altri. Sindaco nel 1574 è tal Francesco Simone e uditore Lattanzio Marbali. L’analisi sulla originaria provenienza delle più antiche famiglie locali incontra indizi troppo approssimativi per poter trovare soluzioni certe e rigorosamente documentate. Molti nomi slavi, greci, albanesi, e persino giannizzeri vengono volgarizzati, perdendo la loro primitiva identità. Se per un verso appare facile seguire il cognome Greco/Greca e Turco/Turca spesso associati a quello di Albanese con la congiunzione seu, per tanti altri si possono solo seminare ipotesi, come nei casi dei cognomi Moro, Pinto, Bruno, Saracino, ecc. i cui riferimenti anagrafici dovuti al colore della pelle spingono a cercare la loro provenienza sui mercati di schiavi dell’Africa settentrionale e/o di altri centri gestiti dagli islamici. Quello che appare più certo viene dai riti liturgici. Nella chiesa di Taurisano nel primo Cinquecento operano due preti di rito latino, Ludovico Sombrino e Francesco Mangasio, ma risultano ancora numericamente minoritari se la maggioranza è rappresentata da preti di rito ortodosso, con la famiglia Parsiano (Parsiale) egemone. Sia Marco Antonio e Giovanni Parsiano nel 1522, sia Antonio nel 1532, sia Paolo nel 1561 si qualificano come presbiteri greci, regolarmente ammogliati e disponibili a tenere in piedi entrambi i riti religiosi, quello bizantino e quello romano nell’amministrazione di alcuni sacramenti[34]. Questo induce a sostenere che la transizione verso la forzata romanizzazione dura più a lungo del previsto, collocandosi nei decenni successivi a Trento. Nei censimenti del primo Seicento (1632 e 1643) sono registrati solo presbiteri latini, segno chiaro dell’avvenuto controllo romano sulla parrocchia, ma la tradizione bizantina sopravvive negli ordini minori e maggiori con un numero consistente di chierici e diaconi uxorati (in cui spiccano cognomi come Alfarano, Santoro, Caputo, Manco, Margiotta, Pennetta, Parziale, Samali, ecc. riconducibili a famiglie dalle originarie connotazioni orientali). Una serie di cognomi rintracciabile anche tra i preti latini (Samali, Caputo, Alfarano, Crudo, Coranisi, ecc.)[35] che finisce per coprire le primitive identità etniche, ma che non cancella il sostrato genetico riconducibile ai caratteri originari della comunità.
Nel secondo
Cinquecento tuttavia il fenomeno migratorio interno, quello che interessa in
modo particolare lo scambio con altre comunità limitrofe, risulta predominante
e tale da rimescolare e arricchire sensibilmente il quadro demografico
precedente. Si insediano e si radicano nuove famiglie, alcune delle quali
(Margiotta, Metafune, Valente, Coranisi, Vincenti, Urso, Grande e altre) in
due-tre decenni diventano punti di riferimento insostituibili nel panorama
comunitario. Nell’ultimo scorcio del secolo si registrano altre aggiunte non
meno significative, che vanno a competere con le prime in settori chiave delle
istituzioni locali, come gli Occhiazzo, Benegiamo, Priore, Manco, Stabile,
Marrella, Panico, Pacella, Scarlino, Telora, e poi anche i Vanini, ecc. Nel
primo Seicento Vincenzo Benegiamo è più volte sindaco con Costanzo Pennetta e
Francesco Priore auditori, mentre Giovanni Battista Vanini e Giovanni Margiotta
risultano deputati al censimento e Stefano Alfarano resta saldamente per più
anni alla guida della chiesa parrocchiale. La via della piena civilizzazione anche
a Taurisano viene perseguita con l’ascesa al sacerdozio, percorso conteso dalle
famiglie più in vista, dove primeggiano gli Alfarano, affiancati dai vecchi
nuclei dei Crudo, Spiri, Caputo e dai più recenti degli Scarcella, Metafune,
Urso, Pacella, Benegiamo, Coranisi ed altri. Un panorama che rimane a lungo fluido,
ma che va ad acquisire una più chiara connotazione e una maggiore stabilità a conclusione
della crisi del Seicento, quando la comunità per conservare gli standard
demografici pregressi dovrà riaprirsi all’accoglienza e all’integrazione di
altri apporti migratori, tra cui l’etnia degli zingari, la cui stanzialità nei
vicini centri di Casarano e Galatone consente uno scambio anche con Taurisano,
aumentando il tasso di meticciato della popolazione residente.
Note
[1] Si veda F. De Paola, L’Università di Taurisano negli archivi dell’antica Terra d’Otranto (sec. XIII-XVI), Casarano, Carra Editrice, 2006 e Idem, La civica Università di Taurisano nei Registri del ’600 dell’antica Terra d’Otranto, Casarano, Carra Editrice, 2005.
[2] Su questo tema si cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli, Guida editori, 1988, pp. 45 sg.
[3] F. De Paola, L’Università di Taurisano negli archivi dell’antica Terra d’Otranto, cit. pp. 39-46.
[4] Si cfr., al riguardo, G. Da Molin, La popolazione del Regno di Napoli a metà Quattrocento. Studio di un focolario aragonese, Bari, Adriatica editrice, 1979.
[5] Ivi. Sull’affidabilità demografica dei censimenti fiscali è necessario avanzare alcune riserve in quanto numerazioni legate ad indagini grossolane e incomplete. Solo quando i censimenti di questa natura saranno preceduti dagli stati delle anime con rilevazioni ostiatim, casa per casa, i dati acquistano una maggiore attendibilità. Nel loro insieme tuttavia i fuochi fiscali possono essere utilizzati come ordini di grandezza per fornire la dimensione abitativa di un agglomerato urbano o rurale. Su altri terreni di indagine, come quello sulle condizioni economico-sociali delle donne in antico regime, è possibile ricavare interessanti valutazioni: in merito si rinvia a F. De Paola, “Assegnare in dote et dotis nomine…”. La condizione femminile in Terra d’Otranto in antico regime, in L’Idomeneo”, 7, 2005, Storie di donne, pp. 73-102.
[6] Per i censimenti fiscali nell’arco di tempo considerato si rinvia a L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, Napoli 1797-1805, ad nomen. Non abbiamo segnalato il censimento del 1532, tratto da una diversa fonte, quella dei Percettori Provinciali, perché ritenuto troppo parziale e quello del 1561 fornito da S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, ristampa anastatica dell’edizione del 1601, Bologna, Forni editore, 1970 per gli stessi motivi.
[7] Ivi. Maria Antonietta Visceglia nei quadri riassuntivi pubblicati nel suo lavoro Territorio Feudo e Potere locale cit., segnala anche i dati dei Percettori Provinciali e quelli forniti dal Mazzella senza tuttavia commentarli (pp. 84-85)
[8] Cfr. M. Spedicato, Un problema identitario. Le ragioni storiche della denominazione della provincia salentina, in Aa.Vv., A new world Emperor Charles V and the beginnings of globalization, Atti del Convegno Internazionale di Studio, a cura di Anna Trono, Paul Arthur, Alain Servantie & Encarnaciòn Sanchez Garcia, Terni, Tab Publisher, 2021, pp. 114-31.
[9] Si rinvia, in merito, a M. Spedicato, Gallipoli e l’oro salentino. Un porto strategico per l’economia-mondo (secc. XV-XVIII), in P. Pascali – D. Capone, Nei luoghi della Sirena. Dal mare di Gallipoli alle Serre salentine, Castiglione di Lecce, Giorgiani editore, 2022, pp. 311-30.
[10] Si cfr. M.A. Visceglia, Rendita feudale e agricoltura in Puglia nell’età moderna (XVI-XVIII sec.), in “Società e Storia”, 9, 1980, pp. 527-60; Eadem, L’azienda signorile in Terra d’Otranto nell’età moderna (secoli XVI-XVIII), in Aa.Vv., Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di Angelo Massafra, Bari Dedalo, 1981, pp. 48 sg.
[11] M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale, cit.
[12] Ivi e per uno sguardo d’insieme cfr. M. Trapuzzano, Gli albanesi in Italia meridionale, in “Studi Meridionali”, VI, 1971, pp. 253-60; D.A.R- Fiorella, L’Albania d’Italia. Comunità Albanesi nel Mezzogiorno tra !5 e !6 secolo, Vasto, Cannarsa, 1998.
[13] Su questo aspetto si veda C. Colafemmina, I contributi fiscali ordinari di Terra d’Otranto nel registro del Percettore provinciale Gerolamo de Gennaro (1512-1513), in “Cenacolo”, II, 1990, pp. 123 sg.
[14] Per qualche puntuale indicazione si rinvia a E. Tomai-Pitinca, Istituzioni ecclesiastiche dell’Albania tarantina, Galatina, Congedo editore, 1984
[15] M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale, cit., pp. 115 sg. ed anche M. Spedicato, Gallipoli e l’oro salentino, cit.
[16] D. e G. Palma, El Turcho in Terra d’Otranto. Lo sciame bellico dal 1480 al 1818, Calimera, Kurumuny, 2018, pp. 104 sg.
[17] Ivi ed anche D. Palma, L’autentica storia di Otranto nella guerra contro i Turchi. Nuova luce sugli eventi del 1480-81 dalle lettere cifrate tra Ercole d’Este e i suoi diplomatici, Calimera, Kurumuny, 2013.
[18] Ivi.
[19] Sul tramonto del rito greco si veda il n. 36 della Rivista “L’Idomeneo”, periodico dell’Università del Salento ed in particolare i contributi di P. Palma, I caratteri originari della popolazione di etnia grecanica e la fine del rito bizantino nella Grecia salentina (pp.225-50), M. Spedicato, Controllo romano e disciplinamento post-tridentino: resistenze liturgiche e pletora clericale nella Grecia salentina tra XVI e XVIII secolo (pp. 251-66), A. Rescio, Clero greco, società e flussi migratori nella Grecia salentina del XVI secolo: i casi di Martano e Calimera (267-90).
[20] Ivi. Si veda anche V. Zacchino, Trasferimenti di albanesi, greci, ebrei nel Salento della prima età moderna. Notizie di immigrati famosi e di loro discendenti, in Aa.Vv., Tierra de mezcla. Accoglienza ed integrazione nel Salento dal Medioevo all’Età contemporanea, a cura di Mario Spedicato, Galatina, EdiPan, 2010, pp. 89-99.
[23] Ivi, sul sovrapporsi delle etnie si cfr. M.A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale, cit.
[21] Si cfr. Aa.Vv., Gli ebrei nel Salento (IX-XVI secolo), a cura di Fabrizio Lelli, Galatina, Congedo editore, 2013; utili integrazioni anche nel contributo di R. Schirone, Gli ebrei nel Salento nel Medioevo e nell’età moderna, in Aa.Vv., Tierra de mezcla, cit., pp. 33-46.
[22] Ivi.
[24] Cfr. S. Panareo, Turchi e Barbareschi ai danni di Terra d’Otranto, in “Rinascenza Salentina”, I, 1933, pp. 2-13 e soprattutto D. Stefanizzi, “Per servizio della sua casa…”. Schiavi musulmani a Lecce e nel Salento in Età moderna (secc. XVI-XVIII), Galatina, EdiPan, 2010.
[25] Ivi.
[26] Ivi. Sui Gallone si veda M. Spedicato, La feudalità salentina nella crisi del Seicento, Galatina, EdiPan, 2010, pp. 57-96.
[27] A.R. Petrelli, Da girovaghi a stanziali: le comunità Rom nel Salento del XVI-XVIII secolo tra inclusione ed esclusione, in Aa.Vv., Tierra de mezcla, cit., pp. 115-26.
[28] Ivi.
[29] Cfr. F. De Paola, L’Università di Taurisano negli archivi di Terra d’Otranto, cit., pp.77 sg.
[30] M.A. Visceglia, Territori, feudo e potere locale, cit., pp. 84-85.
[31] F. De Paola, L’Università di Taurisano negli archivi di Terra d’Otranto, cit., p. 80.
[32] Si veda, al riguardo, M. Spedicato, Da Otranto a Lepanto. Carlo V e la lotta contra il Turco nel basso Adriatico, in Aa.Vv., Non omnis moriar. Studi in memoria di Filippo Giacomo Cerfeda, a cura di Mario Spedicato, Castiglione di Lecce, Giorgiani editore, 2024, pp. 93-104.
[33] F. De Paola, L’università di Taurisano negli archivi di Terra d’Otranto, cit., pp. 95 sg.
[34] Ivi. Nel 1522 vengono censiti anche in presbitero greco, tal Nicola Pinto di anni 34, ammogliato con Angelica di anni 25 e due diaconi greci, tal Lupo Pucello di 28 anni ammogliato con Angelica di 20 anni e Nicola Crudo di anni 20 celibe. Dieci anni dopo nel 1532, anno della decimazione turca della popolazione locale, vengono registrati tre presbiteri greci, tali Costantino Rimpia di anni 25 ammogliato a Nitta di anni 26 e Angelo Ferrante di anni 70, vedovo, che vive con il figlio Colella e Giovanni Paolo Parsiano; a questi si aggiungono due diaconi greci, uno Lupo Pucello, già segnalato nel 1522 e Antonio Mangasio di anni 25 ammogliato con Antonella di anni 25.
[35] F. De Paola, La civica Università di Taurisano nei Registri del ’600, cit., pp. 33-74.