di Gianluca Virgilio
(Continuazione)
3 aprile 1998
Leggo in Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982, alcune frasi in cui l’autore discute il rapporto poesia-prosa. Ne riporto alcune. Per altre citazioni dallo stesso libro, vedi i files bibliaut.wps e critlep.wps.
A p. 93: “L’esperienza poetica e quella filosofica del linguaggio non sono, dunque, separate da un abisso, come un’antica tradizione ci ha abituato a pensare, ma riposano entrambe originalmente in una comune esperienza negativa dell’aver-luogo del linguaggio. Forse, anzi, solo a partire da questa comune esperienza negativa è possibile comprendere il senso di quella scissione dello statuto della parola che siamo abituati a chiamare poesia e pensiero; comprendere, cioè, quel che, separandoli, li tiene legati e sembra indicare al di là della loro frattura.
A p. 98: “Il “confronto” che è da sempre in corso fra poesia e filosofia è, dunque, ben altro che una semplice rivalità: entrambe cercano di afferrare quell’inaccesso luogo originale della parola rispetto al quale ne va, per l’uomo parlante, del proprio fondamento e della propria salvezza. Ma entrambe, fedeli in questo alla propria ispirazione “musicale”, mostrano alla fine questo luogo come introvabile. La filosofia, che nasce proprio come tentativo di liberare la poesia dalla sua “ispirazione”, riesce alla fine, a cogliere la Musa stessa, per farne, come “spirito”, il proprio soggetto; ma questo spirito (Geist) è, appunto, il negativo (das Negative) e la “voce più bella” (kallisthn fwnhn,Phr. 259d) che, secondo Platone, compete alla Musa dei filosofi, è una voce senza suono. (Per questo, forse, né la poesia né la filosofia, né il verso né la prosa potranno mai portare a compimento da sole la propria impresa millenaria. Forse solo una parola in cui la pura prosa della filosofia intervenisse a un certo punto a spezzare il verso della parola poetica, e il verso della poesia intervenisse a sua volta a piegare in anello la prosa della filosofia, sarebbe la vera parola umana)”.