di Antonio Errico
Quando morì Marcello Mastroianni, il 18 dicembre del Novantasei , dall’alto della Fontana di Trevi furono calati tre lunghi drappi di seta nera, mentre nell’aria si diffondevano le immagini della Dolce vita. Dalle acque della Fontana Anita Ekberg lo richiamava ancora: “Marcello! Come here!”.
Il film uscì nel 1960. Marcello era il simbolo della bellezza. Era un mito.
Poi passarono gli anni. Perché gli anni passano. Anche per i miti.
Una mattina, mentre attraversava una via di Napoli, un uomo sulla soglia di un bar gli disse così: “Marcelli’, ce simm fatt vecchiariell eh? ‘O vulit nu cafè?”. In quella frase c’era tutto l’affetto per l’uomo, per la sua storia. Non per il divo di Hollywood, per l’attore bellissimo, per il seduttore affascinante. C’era l’affetto per l’uomo con i capelli grigi grigi, il viso incavato e scavato dalle rughe, con le mani che tremavano. Anche più bello di com’era stato. Anche più affascinante. Con tutta la bellezza e il fascino che ha un tramonto. Più si allontanava nel tempo lo splendore dell’attore, più la sua bellezza diventava assoluta.
Nel tempo la sua immagine è diventata un’icona, un simbolo, una rappresentazione immaginaria dell’attore; è come il personaggio di una fiaba: tutti conoscono il suo nome anche se non tutti hanno letto la storia.