Classe 1924; il 28 del mese di settembre. (Ieri ha compiuto 100 anni). Una generazione che cominciava partendo da niente; a volte da meno di niente. Il successo viene da tanto sacrificio, da tanta ostinazione, da poca o molta fortuna. Un’infanzia povera, come povere erano a quel tempo tutte o quasi tutte le infanzie. Raccontava che si viveva ammassati come conigli, come profughi scampati al terremoto. Una vita durissima, al limite della fame. Come tutto quello che accade nell’infanzia, la fame gli restò dentro, stratificata. Fellini lo costringeva a dimagrire prima di ogni film.
Nel ’54 gira in coppia con Sophia Loren “Peccato che sia una canaglia”, con il quale vince una Grolla d’oro. Qualche giorno dopo va ad impegnarla al Monte di Pietà, accompagnato dalla mamma.
Vedendo il suo imbarazzo, l’impiegato gli dice: non si vergogni, non posso fare nomi, ma ce l’hanno portata tutti.
Una storia ordinaria, normale, come quella di tanti. Spesso i miti hanno una storia ordinaria, normale: come quella di tanti.
Amaramente ironico; amaramente, lucidamente ironico verso di sè. Una volta, a chi gli chiedeva conto della sua fama rispose: a 72 anni, io sono ancora il Latin Lover. Che cosa sono io? Un fenomeno da baraccone?
Preferiva l’affettuosa verità di quell’uomo che a Napoli gli diceva “Marcelli’, ce simm fatt vecchiariell”.
Ciascuno di noi ha nel pensiero un film di Mastroianni, una sua interpretazione. Se mi si chiedesse qual è il mio film, l’interpretazione che mi sbalordisce, risponderei: “Stanno tutti bene”. Un’odissea della modernità, un nostos, un viaggio nelle profondità dell’esistenza, il conflitto tra il desiderio e la realtà, la menzogna che un uomo rivolge a se stesso per potersi concedere ancora una dolcezza della memoria.
Con il tempo Marcello Mastroianni è diventato una figura mitica che come tutte le figure del mito a volte non si riesce a collocare; si rigenera, si proietta e si propaga per vie indirette, della quale si narra un episodio che rende quella figura unica, irripetibile.
Del mito Mastroianni si narra La dolce vita. Dino De Laurentiis, che era il produttore, avrebbe voluto come protagonista Paul Newman o Gérard Philipe. Fellini voleva Mastroianni, così si ritrovò a dover cercare un altro produttore. Trovò Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato.
La dolce vita fa parte dell’immaginario collettivo del Novecento, rientra nel lessico del costume di questo Paese che dal film ha ripreso immagini e parole come il maglione a collo alto chiamato dolcevita, come paparazzo. Come dolce vita e basta.
Il 5 febbraio del Sessanta, al cinema Capitol di Milano, il film venne sommerso dai fischi. Fellini fu accusato di essere denigratore della borghesia e dell’aristocrazia, traditore, ateo, comunista. Si disse che la pellicola fosse stata sequestrata per motivi di ordine pubblico.
Jean Toschi Marazzani Visconti, cugina di Luchino Visconti, presente all’anteprima milanese, disse che i fischi e gli insulti di quella sera fecero più notizia degli applausi. Nell’ipotesi del sequestro, già la mattina dopo, al Capitol, c’era la fila alla cassa. Era il fascino del proibito.
Il film scardinava i canoni del cinema, disarticolava le logiche della narrazione, utilizzava la frammentazione come struttura del racconto, adottava un linguaggio che era l’ integrazione di registri diversi, enfatizzava gli elementi di natura simbolica e allegorica, elaborava una rappresentazione intenzionalmente deformata di quegli anni, mostrava i segni di una decadenza che coinvolgeva non solo la Roma di quel tempo, non solo l’Italia, ma si potrebbe fondatamente sospettare che si spandesse per tutto l’Occidente. D’altra parte, Fellini aveva una straordinaria capacità di contaminazione di forme e di linguaggi, un’espressività portata fino ai limiti della sperimentazione. Ma soprattutto aveva una tensione verso la conformazione di un immaginario altro ed ulteriore, che sfugge alle categorie e alle classificazioni. E’ un immaginario che sembra non conoscere confini, che eccede, straripa, si gonfia, si dilata, si spande. Tutte le sue storie cominciano e finiscono in quell’immaginario; tutta l’esistenza dura il tempo di un film e si consuma nello spazio di un film. Fuori dal film non c’è niente, non ci può essere niente. In fondo la vita non è altro che un film: un susseguirsi di scene, che qualche volta hanno una logica, che spesso invece non ne hanno, generate e governate dal caso, dall’imprevisto, da una indecifrabile combinazione di elementi, condizioni, situazioni che sembrano assolutamente inconciliabili. Federico Fellini metteva in scena un mondo immaginato sognato inventato trasformato deformato. Trasfigurava il mondo. Trasfigurava: andava oltre la figura, oltrepassava i confini del modello, scomponeva i codici delle immagini, ne disfaceva la compattezza trasformando tutto in frammenti. Esaltava l’ambiguità, l’enigma, il nonsenso. Come un mago, un illusionista, un negromante, provocava la rivelazione di quello che è nascosto, o l’apparizione dell’inesistente, un ordine della confusione o la confusione delle cose ordinate.
Creava un universo di nulla e dal nulla, che poi all’improvviso si dissolveva.
Pochi giorni dopo l’uscita, sulle colonne del “Tempo” Gian Luigi Rondi scrisse che si trattava di uno dei film più terribili, più alti e a modo suo più tragici che ci sia accaduto di vedere su uno schermo. E’ la sagra di tutte le falsità, le mistificazioni, le corruzioni della nostra epoca, e il ritratto funebre di una società in apparenza ancora giovane e sana che, come nei dipinti medioevali, balla con la Morte e non la vede, è la commedia umana di una crisi che, come nei disegni di Goya o nei racconti di Kafka, sta mutando gli uomini in “mostri” senza che gli uomini facciano in tempo ad accorgersene.
Fellini raccontò che quando giravano la scena della
Fontana di Trevi c’era gente
dappertutto. Arrampicata sui tetti, affacciata ai balconi. Ferma sulla
scalinata. Faceva un freddo terribile e per convincere Marcello ad entrare
nell’acqua gelata lo dovettero vestire da sommozzatore. Però lui aveva ancora freddo e per resistere dovette bere un’intera bottiglia di vodka.
Recitò ubriaco.
Da quella scena, dalla Dolce vita, sono passati più di
sessant’anni. Ma quella scena e il film che la contiene restano per quello che sono nella forma e
nella sostanza: opere d’arte che non hanno tempo. Poi quelle tre parole simbolo
della irresistibile seduzione: “Marcello, come here”.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 29 settembre 2024]