L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo I. I quattro sensi della poesia

La Vita Nuova è opera “fervida e passionata”, mentre il Convivio è opera “temperata e virile”; l’una e l’altra segnano due momenti della vicenda autobiografica di Dante, raccontata da un autore che è anche protagonista delle proprie opere, scritte in due età differenti[1]. La Vita Nuova non è considerata come opera da rifiutare, bensì come opera che non si addice più all’età matura dello scrittore; e tuttavia non è in ciò il motivo primo che induce l’Alighieri a scrivere un’altra opera “più virilmente”. La ragione vera, per la quale l’Alighieri, “rinviandoci egli stesso dal Convivio alla Vita Nuova, (…) non solo ci autorizza a dedurre da un’opera all’altra, ci obbliga a farlo”[2], è che il lettore delle canzoni potrebbe non aver compreso “la vera intenzione mia”, soffermandosi a considerare solo il loro senso “litterale”, senza preoccuparsi di ricercare il senso “allegorico”. Si noti per intanto che il riferimento alle canzoni segue immediatamente quello alla Vita Nuova. Questa continuità testuale, di per sé molto significativa, induce ad estendere il senso di quanto l’Alighieri scrive a proposito delle canzoni,  alla vicenda “fervida e passionata” della Vita Nuova, cui l’autore intende “giovare” con un’opera “temperata e virile”; cui è assegnata la funzione di portare alla luce e di fissare la vera “intenzione” del poeta, evidentemente non compresa dal lettore “litterale” delle canzoni e, dunque, anche, del “libello” giovanile. Per questo l’Alighieri si presenta a noi in qualità di lettore di se stesso e commentatore delle sue canzoni (“per allegorica esposizione quelle intendo mostrare appresso la litterale istoria ragionata”), perché si comprenda la sua vera “intenzione”. Il senso “litterale” non è escluso, bensì non basta all’interpretazione della poesia, essendo di per sé fonte di incomprensione e fraintendimento. L’esposizione del senso “litterale” dovrà essere seguita dall’esposizione del senso “allegorico”, grazie alla quale il lettore apprenderà come si conviene, cioè nel suo vero significato, il dettato poetico. Stiamo adoperando concetti che saranno chiariti poco oltre, in Convivio, II, I. Qui il narratore espone la teoria dei quattro sensi d’ interpretazione della poesia. Un buon lettore terrà conto innanzitutto del senso “litterale” [3], e cioè di

          “quello che [non va oltre a ciò che suona la parola fittizia, sì come ne’ le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che [4]] si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo collo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’ arte; (…).” (Conv. II, I 3-4)

Ciò che distingue il senso “allegorico” dal “litterale” è dunque individuabile nel salto interpretativo cui è costretto il lettore che deve scorgere la “veritade ascosa sotto” la “bella menzogna” del senso “litterale”; sicché, per esempio, l’Orfeo del racconto ovidiano diviene, secondo l’interpretazione allegorica, il mitico fondatore della figura di intellettuale educatore e civilizzatore. Già conosciamo la ragione fondamentale che impone tanto sforzo al lettore: bisogna evitare qualsiasi fraintendimento dell’intenzione poetica, e ciò è possibile soltanto se si conduce il lettore a ricercare, oltre il senso “litterale”, l'”allegoria”, il cui statuto consiste nel rimandare il lettore ad “altro” rispetto al senso più immediato delle parole.  “L’allegoria non è altro, per chi non ne perda di vista la vera e semplice natura, se non una sorta di criptografia, e perciò un prodotto pratico, un atto di volontà, col quale si decreta che questo debba significare quello, e questo quell’altro.”[5]  “Un atto di volontà”, come avvertiva Croce, induce l’Alighieri a presentarsi al lettore in veste di poeta e di esegeta delle sue stesse poesie; e sarà bene, allora, chiarire in che modo egli farà uso dell’interpretazione secondo il senso “allegorico”, al fine di evitare ogni equivoco:

               “Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.” (Conv. II, I 4)

“Il ‘veramente’ (avversativo) con cui viene introdotta l’affermazione di una differenza fra l’allegorismo teologico e quello poetico, mostra come nel mito di Orfeo Dante riconosca una fenomenologia diversa rispetto alla tradizione biblica e alla esegesi allegorica che ne fa il suo oggetto”[6].

In effetti, stante la vastità e la polivalenza del concetto di “allegoria”, l’Alighieri precisa in che modo intende assumere il senso “allegorico” medesimo per l’interpretazione della poesia. La differenza fondamentale tra l'”allegoria” dei poeti e quella dei teologi, per dirla col Grayson, è “che mentre i poeti partono da una verità letterale inventata, ossia immaginata (…), i teologi invece partono dal testo della scrittura che non è favola ma verità storica.”[7]  Il campo d’indagine dei teologi è diverso da quello dei poeti, e solo questo importa, perché l’Alighieri è qui poeta e commentatore delle proprie opere, non teologo. Fatto è che, per evitare ogni possibile fraintendimento delle poesie, l’autore deve illuminare ogni zona d’ombra, saturare di più significati ogni parola, ogni pensiero. Le canzoni sono sottoposte ad una esegesi minuziosa, finalizzata ad impedire una libera ed incondizionata lettura dell’opera poetica. Non bastano i due sensi su menzionati per l’interpretazione delle canzoni. Autorizzato da una tradizione plurisecolare, Dante aggiunge al “litterale” e all'”allegorico” altri due sensi: il “morale” e l'”anagogico”; per dirla questa volta con le parole di Maria Simonelli, il “morale” è quello “che insegna all’uomo la retta azione per una vita felice sulla terra; quello anagogico investe il rapporto dell’uomo con Dio, in vista della felicità ultraterrena.”[8] È facile comprendere quanta somiglianza vi sia tra il senso “allegorico” ed i sensi “morale” ed “anagogico”. Tutti e tre hanno in comune una condizione fondamentale: essi rimandano ad “altro” dal senso “litterale”. Le “digressioni”[9] di cui è fatto il Convivio, trovano nella teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, il loro fondamento e la loro giustificazione. Il voler dire troppo, per escludere la libera interpretazione del lettore, questa smania che non lascia spazio a chi potrebbe azzardare un commento diverso da quello dell’autore, tutto ciò è coerente con l’intenzione, col fine dichiarato della finzione dantesca: evitare l’errore del lettore ed il fraintendimento della poesia. Ed in ciò, per una sorta di contrappasso, è da rinvenire il “destino dell’incompiutezza”[10] dell’opera.

Il prosieguo di Convivio II, I mostra qual sia il rapporto che intercorre tra il senso “litterale” e gli “altri” sensi, “massimamente” tra il “litterale” e l'”allegorico”; dove è da notare che l’autore ripete per ben quattro volte l’avverbio “massimamente” in riferimento al senso “allegorico”[11], che è il termine privilegiato del rapporto col senso “litterale”, mentre il senso “morale” e l'”anagogico” sembrano passare in secondo piano e non importare granché all’autore: non sono infatti nominati espressamente, bensì l’autore ad essi fa riferimento, “incidentalmente”, con il pronome indefinito “altri”. Riportiamo solo la conclusione del capitolo in questione:

       “Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta delli altri sensi toccherò incidentalmente, come a luogo e a tempo si converrà.” (Conv. II, I 15)[12]

Nella teoria dei quattro sensi della poesia appena esposta c’è almeno una parte senza esito, ed è appunto quella che riguarda il senso “morale” e “anagogico”. Questi, negletti dall’autore già nel momento in cui li sta teorizzando, saranno dimenticati nel seguito della trattazione, o riassorbiti nel più vasto senso “allegorico”, la cui esposizione seguirà il chiarimento del senso “litterale”, dopo le canzoni premesse al II e III trattato del Convivio[13]. Non solo: a prescindere dalla incompiutezza dell’opera, il IV trattato sfugge allo schema del commento “litterale” ed “allegorico” perché l’oggetto della canzone è tale[14] che

” Non sarà dunque mestiere nella esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare.” (Conv. IV, I 11)

C’è dunque un luogo del Convivio (il IV trattato) in cui la teoria dei quattro sensi di interpretazione della poesia viene meno, e la ragione, come dimostreremo, è semplice: essa non serve più alla finzione dantesca. Intanto vogliamo ricordare, a conclusione di questo capitolo, che la finzione narrativa del Convivio, secondo la quale Dante si presenta a noi in qualità di poeta delle canzoni d’esordio d’ogni trattato, e di commentatore delle sue stesse canzoni (secondo i quattro sensi d’interpretazione della poesia), attinge le sue ragioni ed ha la sua genesi in un’altra opera, la Vita Nuova. Noi indagheremo in che modo il Convivio sia legato all’opera giovanile, e perché esso ne risulti il logico e necessario proseguimento sul piano della finzione narrativa. E se è vero, come scrive Dante, che il Convivio porterà luce alla Vita Nuova, noi dal Convivio dobbiamo ancora prendere l’avvio per capire il senso della finzione dell’una e dell’altra opera.

Note


[1] La stesura della Vita Nuova è collocabile negli anni 1294-1295, mentre quella del Convivio tra il 1304 e il 1307. Dante, dunque, essendo nato nel 1265, doveva avere all’incirca trent’anni quando scriveva la Vita Nuova, e non meno di trentanove quando iniziò a scrivere il Convivio. Appare quindi giustificata la duplice definizione dantesca di Conv. I, I 16.

[2] E. Gilson, Dante e la filosofia, [1939] Milano 1987, p. 87.

[3] “(…) sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico.” (Conv. II, i, 8); ed ancora: “(…) con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l’ altre, massimamente de l’ allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l’ altre che a la sua.” (ibidem, 11).

[4] Essendo lacunoso l’archetipo, accogliamo l’ integrazione di M. Simonelli, che a sua volta riprendeva la soluzione del Casella. Si rimanda per ulteriore informazione bibliografica all’ edizione del Convivio a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, nella nota ad locum.

[5] B. Croce, La poesia di Dante, cit., p. 13. Cfr. anche A. Pagliaro, Ulisse. II, cit., p. 691; il critico ci ricorda che “il carattere tipico dell’ allegoria è l’ arbitrio fra la figura e il figuratum, fra il significante e il significato (…)”.

[6] A. Pagliaro, Ulisse, II, cit., p. 470.

[7] C. Grayson, Poetica e poesia di Dante, in Cinque saggi su Dante, Bologna 1972, p. 70. Cfr. anche D. Consoli, Il  II libro del “Convivio”, in AA.VV. Nuove letture dantesche, VIII, Firenze 1976, p.130.

[8] Maria Simonelli, Allegoria e simbolo dal “Convivio” alla “Commedia” sullo sfondo della cultura bolognese, in AA.VV., Dante e Bologna nei tempi di Dante, Bologna 1967, pp. 220-221.

[9] Prendiamo in prestito a Dante il termine “digressione” usato spesso nel Convivio: cfr. Conv. I, VI 4; I, X 4; II, VIII 7, passim. A proposito delle “digressioni” del Convivio, K. Vossler, La Divina Commedia, I, La genesi religiosa e filosofica, Roma-Bari 1983, p. 184, scrive: “Dante vuol mostrare quanto ha imparato, accumula distinzioni a distinzioni, definizioni a definizioni, e infila erudite digressioni una dopo l’ altra.

Non può mettere in carta la parola filosofia, senza attaccarvi subito uno schema della storia di tal disciplina; né può nominare il cielo senza far pompa di tutta la sua astronomia, né l’ imperatore senza svolgere il suo sistema di politica.

Così le sue glorificazioni poetiche della scienza gli servono d’occasione e di pretesto a sfoderare tutto il tesoro delle sue cognizioni (…)”. Per quanto giuste siano queste osservazioni, sappiamo che altro è il fine dichiarato della finzione dantesca: evitare il fraintendimento del lettore e ripristinare la verità. La fabula, cioè, legittima e rende necessaria l’ erudizione, o meglio, la scienza. Vedi in proposito quanto scriveva, cogliendo il fine di tanta erudizione, G. Gentile già nel 1905 in Dante nella storia del pensiero italiano, in Studi su Dante, cit., pp. 9-10. Il critico, dopo aver citato molti autori menzionati da Dante nel Convivio, esclama: “E Cicerone e Boezio, e attraverso questi e gli altri scrittori predetti, quanti nomi di antichi filosofi da Talete ad Epicuro non si compiace qui Dante di menzionare! E come studiosamente coglie nel commento delle canzoni ogni occasione per esporre e discutere le più recondite dottrine! Ma non di queste ora giova occuparci. Basta aver rilevato il fine per cui Dante scrisse il Convivio, e l’indirizzo mentale di cui il libro ci rende testimonianza. Dante dalla pura poesia intende volgersi alla scienza, alla filosofia. La poesia d’amore, quell’arte sovrana, delle nuove rime, per cui pure gli piacerà di ricordare a Bonagiunta (Purg. XXIV, 52-54) d’essere egli uno che nota quando amore spira, e va significando “a quel modo che ditta dentro”, gli par ora disdicevole alla sua età, al suo sapere, alla sua fama. Egli ambisce salire più alto”.

[10] Cfr. M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, Vallardi, Milano 19532 (1951), p. 475: “Il discorso [del Convivo] sfiora temi assai ricchi: ha davvero fin dalle prime pagine segnato il destino dell’incompiutezza, se così trascorrendo non s’appaga: molto propone, più tralascia”.

[11] Dobbiamo questa osservazione a Maria Simonelli, Allegoria e simbolo dal “Convivio” alla “Commedia” sullo sfondo della cultura bolognese, in AA.VV., Dante e Bologna nei tempi di Dante, cit., p. 217, dove il passo in questione è messo in relazione con l’Epistola XIII, 7 a Cangrande. Qui Dante afferma che i sensi “morale” ed “anagogico” rientrano nel vasto dominio del senso “allegorico”: “Et quamquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi.” Concordiamo con Maria Simonelli che vede nell’ Epistola XIII, 7 “una variante espositiva, ma non un intrinseco mutamento concettuale rispetto a Conv. II, I. Per l’autenticità dell’Epistola XIII cfr. G. Padoan, La “mirabile visione” di Dante e l’ Epistola a Cangrande, in “Atti del convegno di studi su Dante e Roma” (Roma 8-9-10 aprile 1965), Firenze 1965, pp. 238-314, che dissente da B. Nardi, Il punto sull’ Epistola a Cangrande, Firenze 1959.

[12] Il corsivo è nostro.

[13] Degna di nota l’osservazione di D. Consoli, Il II libro del “Convivio”, in AA.VV. Nuove letture dantesche, VIII, cit. p. 131, che a proposito del libro preso in esame, rinviene “nell’interpretazione allegorica (limitata a quattro capitoli su quindici e, in questi stessi, di carattere più dottrinale che allegorico in senso stretto) (…) una certa aria sbrigativa (non dirò posticcia) (…) “. Allo stesso modo, per il III libro, R. Lo Cascio, Il III libro del “Convivio”, in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit., p. 184, avverte che “l’allegorica esposizione (…) si presenta a ben due terzi compiuti del trattato”. Poco oltre (pp. 186-187) nota che il “commento allegorico (…) è (…) sbrigativo nell’ appoggiarsi ai luoghi del dettato del componimento. Del resto lo stesso autore (…) riconosce (…) la stretta vicinanza fra lettera e allegoria (…)”. R. Lo Cascio, a riprova di quanto afferma, cita Conv. III, XII 5. Del resto già A. Pagliaro, Ulisse, II, cit., pp. 474 e segg. notava che “a considerare attentamente l’interpretazione di cui Dante fa oggetto le tre canzoni filosofiche del Convivio, risulta che, nonostante il fine dichiarato, essa gravita assai più sulla lettera che non sull’allegoria”.

[14] Nel IV trattato si discute  la questione ” della verace nobilitade” (Conv. IV, I 9). Cfr. il IX cap. di questo studio.

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