L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo II. Le due “macule”

Come la Vita Nuova, così il Convivio è scritto in prima persona. Vi si racconta una vicenda (vedremo quale) in una forma particolare ed inconsueta (il commento chiarirà i sensi delle canzoni), in cui il protagonista è l’autore medesimo che parla di sé. Prima di ogni altra cosa, è allora necessario giustificare il narrare in prima persona che potrebbe apparire gratuito ed immotivato, e le ragioni che presiedono a questa particolare forma narrativa. Rimane implicito nella riflessione dell’Alighieri, indirizzata dalla necessità di assimilare all’opera presente la Vita Nuova, il suo duplice oggetto di riferimento, che è non solo l’attuale parlare di sé, ma anche il parlare di sé giovanile.

In Conv. I, ii, 1, il narratore avverte subito il lettore di voler “da due macule mondare (…) primieramente questa esposizione”. La prima “è che parlare alcuno di sé medesimo pare non licito” (Conv. I, ii, 2). Vediamo allora come Dante argomenta questa affermazione:

             “Non si concede per li rettorici alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l’uomo rimosso, perché parlare d’alcuno non si può che ‘l parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla: le quali due cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sé nella bocca di ciascuno. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta biasimare che lodare, avvegna che l’uno e l’altro non sia da fare. La ragione è che qualunque cosa è per sé da biasimare, è più laida che quella che è per accidente. Dispregiar se medesimo è per sé biasimevole, però che a l’amico dee l’uomo lo suo difetto contare secretamente, e nullo è più amico che l’uomo a sé: onde ne la camera de’ li suoi pensieri se medesimo riprendere dee e piangere li suoi difetti, e non palese. Ancora: del non potere e del non sapere bene sé menare le più volte non è l’uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi biasima se medesimo appruova sé conoscere lo suo difetto, appruova sé non essere buono: per che, per sé, è da lasciare di parlare sé biasimando. Lodare sé è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda nella punta de le parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: ché le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sé mostra che non creda essere buono tenuto: che non li incontra sanza maliziata conscienza, la quale, sé lodando, discuopre e, discoprendo, si biasima.

             E ancora la propria loda e lo proprio biasimo è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa testimonianza fare: però che non è uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria caritade ne ‘nganna (…) “. (Conv. I, ii, 3-8)

Sono elencate qui le ragioni che impediscono (“per li rettorici”) di parlare di sé, e che un lettore malevolo potrebbe far valere contro l’opera presente e contro l’opera passata, entrambe scritte in prima persona. Parlare di sé non è conveniente, che ci si lodi o biasimi, non importa. Il parlare di sé è fonte d’errore e causa d’un giudizio falso su se medesimi. Eppure due motivi consentono di eludere la legge retorica su menzionata, e quindi legittimano il parlare di sé. Eccoli:

“Veramente, al principale intendimento tornando, dico, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: ed in tra l’altre necessarie cagioni due sono più manifeste. L’una è quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava. L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo de la sua vita, lo quale fu di [non] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si potea (…) “. (Conv. I, ii, 12-14)

Due “necessarie cagioni” e due auctores[3], veri e propri “esempli eroici”[4], legittimano il parlare di sé. “La perpetuale infamia del suo essilio”[5] spinse Boezio a scrivere la Consolazione, giustificazione necessaria alla sua difesa, “poi che altro escusatore non si levava”. Egli potè parlare di sé perché soltanto in questo modo poteva eliminare la “grande infamia o pericolo” cui era incorso. La vicenda autobiografica di Boezio è qui assimilata da Dante alla propria vicenda. L’autore non ha ancora parlato dell'”infamia” del suo esilio, bensì solo di quella che gli deriva dal fraintendimento e dall’incomprensione delle canzoni (e dell’opera giovanile a cui col Convivio dovrà “giovare”). Solo lato sensu (la generica “infamia”), almemo per ora, interpretiamo il riferimento a Boezio, riservandoci di illuminarlo appena Dante ce ne darà l’occasione.

La seconda auctoritas medievale citata è Sant’Agostino. Questi ebbe un’altra “necessaria cagione” per parlare di sé, che Dante fa subito propria. Sant’Agostino parlò di sé nelle Confessiones per essere di “grandissima utilitade” all’uomo “per via di dottrina”. La sua opera difatti descrive il progresso di un’esperienza umana, ancora una volta autobiografica, “di [non] buono in buono, di buono in migliore, e di migliore in ottimo”. E non si può fare a meno di pensare che proprio questa era l'”intenzione” dell’autore della Vita Nuova e poi delle canzoni allegoriche, quell'”intenzione” che non fu compresa dal lettore “litterale”, e che ora occorre chiarire con l’interpretazione allegorica teorizzata in Conv. II, i. Le due ragioni e le due auctoritates giustificano appieno, dunque, il parlare di sé, e convincono il narratore a proseguire in maniera decisa e motivata:

“Movemi timore d’infamia, e movemi deisiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata: la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s’io non la conto, perché è nascosa sotto figura d’allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l’altrui scritture.” (Conv. I, ii, 15-17)

Coerentemente col resto del dettato dantesco, la conclusione di Conv. I, II, ribadisce i motivi fondamentali che regolano la finzione dell’opera. L’Alighieri a questo punto ha dotato il narratore di sufficienti motivi per parlare di sé, che legittimano e rendono necessario il discorso autobiografico. La lettura “litterale” delle canzoni ha arrecato “infamia” al narratore del Convivio (“Temo l’infamia di tanta passione avere seguita, quanta…”), il quale, pertanto, dovrà mostrare che “non passione ma vertù” mosse sempre la penna del poeta.

Si badi: questo è un fatto di capitale importanza per capire l’evolvere della finzione autobiografica dantesca del Convivio in cui l’Alighieri, all’inizio del II trattato, come già abbiamo anticipato nel precedente capitolo, si avvarrà della teoria dei quattro sensi di interpretazione della poesia col fine dichiarato di impedire il fraintendimento della poesia giovanile. Egli fin qui ha soltanto accennato alla necessità di mostrare il senso allegorico delle canzoni; ma si tratta di accenni tanto più significativi, perché sono connessi in maniera inequivocabile alla vicenda narrata nell’opera precedente, che evidentemente era stata letta (male!) come la descrizione della vicenda terrena dell’autore, la sua passione amorosa.

Ma è tempo di fermarci a questo stadio della finzione del Convivio. Prima di procedere oltre, una seconda ” macula” deve essere “purgata”.

La seconda “macula” di cui il narratore intende “purgare” l’ esposizione del Convivio  è “che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole” (Conv. I, ii, 2). Leggiamo:

“E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l’altra, per fuggire questa riprensione; ché lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levare lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggire maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’ essilio e di povertade. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’ animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’ aveano immaginato: nel cospetto de’  quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.” (Conv. I, iii, 2-5)

Passiamo sotto silenzio le dotte e scolastiche argomentazioni, accompagnate dalla citazione di Virgilio e Sant’Agostino, che il narratore adduce per comprovare le sue affermazioni. Ricordiamo che qui l’intento è di “purgare” l’esposizione del Convivio dall’apparente difetto di eccessiva “durezza” che potrebbe mettere in difficoltà il pubblico non letterato dell’opera (“(…) principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati” (Convivio, I, ix, 5)). Ebbene, per dimostrare che la “durezza” del commento è tuttavia necessaria, l’Alighieri prende le mosse dalla vicenda autobiografica, intorno alla quale gravita ogni argomentazione. La vita d'”essilio e di povertade” che lo costringe ad andare “peregrino”, “mendicando”, è la ragione fondamentale, prima d’ogni altra, per cui le canzoni devono essere commentate in maniera dotta e profonda. Un motivo autobiografico determina, dunque, la particolare organizzazione della finzione dantesca e lo stile della sua opera. La fama acquistata con le opere precedenti è compromessa da una vita raminga, tanto che “mia persona invilio”; non solo, la vicenda autobiografica ha reso anche “di minor pregio (…) ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare”. Questa vicenda – che pure gli ha dettato “la più bella pagina autobiografica della nostra letteratura” –[6] ha condizionato negativamente l’opera dell’Alighieri, non solo quella compiuta e che il pubblico ha frainteso, ma anche la possibile sebbene ancora incerta opera futura. Si deve porre rimedio ad un pubblico giudizio di condanna dell’autore, fondato sulla vicenda autobiografica, che nega valore alle opere. Il solo rimedio consiste ancora una volta nel commento che, mostrando chiaramente i sensi riposti della poesia, la motiva, e rifonda in essa la finzione autobiografica. Gli auctores citati sono considerati pertanto non solo come modelli di riferimento culturale e filosofico, ma come exempla vitae che legittimano l’autobiografia di Dante. Si è scusati dal lettore, a questo punto, se il “comento”, e dunque lo stile, sarà “duro” e irto di difficoltà:

“Onde, con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti l’ Italici appresentato, per che fatto mi sono più vile forse che ‘l vero non vuole non solamente a quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più alto stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza per la quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti alla fortezza del mio comento.” (Conv, I, iv, 13)

Il Convivio è dunque “purgato” dalla seconda “macula”. L’autore ha giustificato la necessità di scrivere un “comento” con “durezza” e “gravezza”; e se pertanto sembrerà oscuro al lettore, la “scusa” è chiara: esso ha bisogno “di maggiore autoritade” per compensare il cattivo giudizio a cui lo espone l’opera mal compresa e la tormentata vicenda autobiografica. E s’illumina di luce nuova il riferimento a Boezio incontrato nelle pagine precedenti. Quanto è detto in Conv. I, ii, 12-14 ancora non ci autorizzava ad accostare la vicenda del filosofo a quella del narratore del Convivio, se non per la generica comunanza dell'”infamia” che entrambi cercano di eliminare con le opere. Ora comprendiamo che un più intrinseco motivo è nel paragone tra la vicenda autobiografica dantesca e l’autobiografia di Boezio: l'”essilio”, termine che deve essere inteso nel senso ampio di allontanamento in primo luogo dalla propria casa e patria, ed in secondo luogo dall’esercizio di governo e dalla consuetudine di vita civile e politica[7].  In questo modo nel Convivio il tema dell’ “essilio” si aggiunge, come nuova ragione del parlare di sé, alla vicenda del fraintendimento dell’opera poetica. Autore e opera, le motivazioni dell’uno e dell’altra sono unite in una sola complessa trama di rapporti che l’Alighieri ha intessuto con una coerenza così stringente ed incalzante da indurlo al doloroso grido – che è al contempo “una patetica preghiera”  all’ingiusta Firenze, ricordata “con la più affezionata tenerezza”, come ben sentì il Foscolo[8] – malcelante la disperazione dell’esule: “Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata!”

Possiamo ben dire, a questo punto, che il poeta e il commentatore delle canzoni, colui che adopera i quattro sensi d’interpretazione della poesia per indirizzare a suo modo la lettura delle canzoni, l’uomo mandato in esilio dalla sua patria che qui rivendica la propria innocenza, l’autore incerto sulla validità dell’opera passata e presente e sulle possibilità dell’opera futura, colui che si deve difendere, parlando di sé, da ogni accusa che potrebbe infamarlo, il personaggio autobiografico dantesco, insomma, possiamo ben dire che ormai ha una sua consistenza, un suo spessore, una sua autonomia di finzione, nella quale è da rinvenire la mano sapiente dell’artefice, di colui che ha dato vita, parlando di sé, alla finzione dell’opera, che solo su se stessa si regge.  Intanto, il personaggio autobiografico, scrittore che con “durezza” e “gravezza” commenterà la sua opera, l’attuale autore del I trattato del Convivio, volge la nostra attenzione su altri argomenti, che continuano la “scusa” sino alla fine di questo trattato: la scelta del volgare.

Note


[1] In Conv. II, xi, 4 leggiamo la definizione di “bontade” e di “bellezza”: ” E però dico al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è nella sentenza, e la bellezza è nell’ornamento delle parole; e l’una e l’altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa “.

[2] G. Gentile, Dante nella storia del pensiero italiano, in Studi su Dante, cit., p. 8, coglie bene questa interna motivazione del Convivio, quando afferma (nel 1905) che “(…) bisognava mostrare che egli [Dante] non era stato un vano cantore di poetici amori; ma un dotto, un uomo di pensiero, uno spirito serio. Le sue cose senza dubbio s’erano alleviate, apparse cioè molto più leggiere (…)”.

[3] Cfr. G. Fallani, Introduzione al “Convivio”, in AA.VV., Nuove letture dantesche, VIII, cit. pp.106-108. I rapporti tra Dante e i due modelli autobiografici costituiti dalle Confessiones di Agostino e dalla Consolatio philosophiae di Boezio sono analizzati da M. Guglielminetti, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini, Torino 1977, p. 73 e sgg..

[4] M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., p. 466.

[5] Che il termine “infamia” debba essere inteso nel senso di “cattiva fama” a noi non pare dubbio, e perciò non ci sembra accettabile l’interpretazione moralistica dell’Apollonio, Dante, Storia della “Commedia”, cit., p. 468 secondo cui il termine “(…) infamia, non ha nessun valore positivo di vergogna e di bassezza, ma sta a indicare il mancato acquisto della fama, l’assenza di una virtù e di un dono”.

[6] S. Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli 1966, p. 104. Cfr. anche il commento di A. Vallone, Dante, cit., p. 508: “Non v’è rabbia o furore e nemmeno indignazione (come parve a Mazzini sulle orme di Perticari); ma solo umbratile malinconia (…)”. E più avanti, nella stessa pagina: “E’ la pagina autobiografica più netta e completa che vi sia in Dante (…)”.

[7] Si tenga presente l’annotazione di G. Fallani, Introduzione al “Convivio“, in op. cit., p. 108, secondo cui “la sventura politica del senatore Boezio non è sullo stesso piano della sventura di Dante priore fiorentino, ma il poeta si riconobbe in quella caduta del sapiente per uno stato d’animo bisognoso di conforto, fece suo il linguaggio dell’uomo vinto, e non domato, per la sicura coscienza delle sue azioni”. Sul rapporto Boezio-Alighieri si legga quanto scrive M. Apollonio, Dante. Storia della “Commedia”, cit., pp. 216-223, che insiste sulla “convertibilità della poetica di Boezio e della poetica di Dante”; e osserva acutamente che “il rapporto fra Dante poeta e Dante trattatista capovolge questo di Boezio: il metro è anteriore alla prosa, e questa è commento di quello, ne è la prosecuzione, la giustificazione storica e razionale: disposta dunque in senso contrario al primo.” (p. 221).

[8] U. Foscolo, Secondo articolo della Edimburgh review (settembre 1818), in Studi su Dante, a cura di G. Da Pozzo, Edizione  Nazionale delle Opere, vol. IX, parte I, Firenze, 1979, p. 99. Nell’originale, riportato a p. 98 dell’op. cit. si legge: “(…) and, in his prose work, Il Convito, he remembers Florence with the most affectionate tenderness (…). (…) and offers up a pathetic prayer (…)”. Il passo in questione parve al Foscolo “fenomeno nuvoloso” (p. 347) avente “faccia d’intarsiatura” (p. 350), cioè di aggiunta posticcia. In questo modo il critico perdeva di vista la motivazione autobiografica che fonda la struttura dell’opera. Cfr. il celebre Discorso sul testo della Divina Commedia, in Studi su Dante, cit., pp. 345-350.

Questa voce è stata pubblicata in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *