Disse che avrebbe scritto soltanto libri. Perché se un giorno si comincia ad impastare parole, si spera che sempre impastando parole si possa finire.
Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, Roberto Vecchioni (anche altri, certo, ma loro tanto più degli altri), hanno disegnato il ritratto interiore delle generazioni che hanno cantato Marinella e l’Avvelenata e Samarcanda tutte le volte che nella compagnia si trovava qualcuno con la chitarra fra le braccia, di quelli che forse sono riusciti nel lavoro e nella vita, ma che certe mattine mentre in macchina vanno verso il lavoro si ripetono quelle canzoni dandosi il tempo con le dita sul cruscotto. Così. Tanto per tornare indietro una mezz’ora.
Durante un’intervista con Vincenzo Mollica, Guccini disse che una volta con De André avevano anche pensato ad un concerto assieme. Poi non se ne fece niente. Per vari motivi, fra cui quello che, come diceva De André, Guccini parlasse tanto mentre lui non diceva mai niente e aveva paura di fare brutta figura.
Fabrizio De André ha superato la soglia del tempo. Non ha più generazioni. Non si identifica più con una stagione culturale. I suoi testi sprigionano un’energia metaforica che li decontestualizza e li ricolloca in universi di significato diversi da quelli originari. E’ una figura che quanto più sfuma e si allontana dai territori del reale, tanto più si carica di una valenza simbolica che coinvolge le tensioni alla libertà di pensiero, l’aspirazione ad una poeticità dell’esistenza, la passione senza compassione nei confronti delle fragili condizione dell’umano.
Una sera, a Gallipoli, dopo un concerto della sua ultima tournée, chiesi di intervistarlo. Rispose che era stanco, che era molto stanco, e non finiva più di chiedere scusa. Ma era stanco, era molto stanco.
Se avessi potuto intervistarlo gli avrei chiesto dei fantasmi: del mantello che indossano i fantasmi. Lui sapeva perfettamente che i fantasmi sono esseri buoni, che molto spesso rassomigliano straordinariamente ad esistenze che ci sono care. Per questo ha cantato i suoi cari fantasmi. I nostri cari fantasmi. Ha raccontato i naufragi del suo secolo, e del nostro, i disorientamenti del tempo, i disperati, i marginali, i diversi, i vinti, i dispersi, i rifiutati. Gli Altri.
Disse una volta: scrivo perché ho paura che si perda il ricordo delle persone di cui scrivo, per paura che si perda il ricordo di me.
Aveva terribilmente ragione, Fabrizio De André. Forse, in fondo e in fondo, si scrive, si racconta qualcosa a qualcuno, perché si ha paura: forse dell’oblio, forse della scomparsa di ogni traccia, forse dell’insignificanza del proprio passaggio da queste parti. Fabrizio De André ha raccontato questa paura. In ogni canzone. Non ce n’è neppure una in cui sia riuscito a liberarsi da questa paura. Ma non ha voluto esorcizzare la paura; non ha voluto nemmeno consolarla. Ha cercato di tradurla con le parole. Ma è difficile tradurre con le parole una paura così grande, così incombente, così profonda. De Andrè ci è riuscito.
Roberto Vecchioni, invece, forse scrive soltanto per tornare, e poi, dopo il ritorno, per ripartire, per ricominciare, con il desiderio di ritornare ancora e ripartire ancora. Finchè c’è il tempo per partire, finchè c’è il tempo per tornare. Le sue canzoni, i suoi romanzi, sono storie di ritorni. Storie di una lucida e cercata nostalgia. Nòstos e àlgos: ritorno e dolore.
Allora ritornano gli amici, gli amori perduti, i compagni di strada. Ritornano come ombre sul cuore silenziose e leggere, come visioni del sogno, figurazioni del tempo; si riprendono i giorni perduti, disorientano il caso, richiamano, illudono, strabiliano, seducono. Raccontano verità irrilevanti e inutili, fantastiche finzioni e indispensabili menzogne; verità che non mutano i destini, finzioni e menzogne che forse aiutano a salvarsi la vita.
Oppure si estraniano, si separano dal mondo; si fanno attrarre dai labirinti della vita, dai grovigli delle passioni, dalle maree della memoria, dai movimenti di concentrazione e dilatazione della luce, dai profumi, dalle voci, dalle storie fantastiche e dalla Storia vera.
Ogni canzone è uno sprofondamento, un corpo a corpo con la propria esperienza di essere nel tempo, fino a diventare, qualche volta, pacata ma inclemente confessione.
Allora ci si chiede come si fa, com’è che una canzone riesca a scavare tanto in fondo, com’è che si riesce a trovare le parole per dire quello che per natura sarebbe indicibile, senza nemmeno far ricorso alla metafora, ma tirandosi le parole dalle viscere, rinunciando a qualsiasi forma di finzione, di mediazione, affidandosi esclusivamente all’armonia del verso, al suo equilibrio, ad una aderenza perfetta di significante e di significato. Scrive Vecchioni in una pagina di “Scacco a Dio”: “Ecco, Signore, cos’è una canzone. Cosa vi avevo detto? Gli uomini cantano quando le parole non bastano, quando non riescono a dirle, forse perché da sole sarebbero persino ridicole”.
Forse non basta soltanto il mestiere per tutto questo; forse non basta saper mischiare bene le parole dentro un cappello, né basta adorarle; probabilmente ci vuole l’azzardo di metterci il cuore dentro le parole, di metterci tutti i ricordi e tutto il sentimento del destino. Non basta il mestiere del cantare, per tutto questo, il mestiere di scrivere, non basta. C’è bisogno di aver imparato bene, ma proprio bene, il mestiere di vivere.
(Ho l’onore e l’orgoglio di essere amico di Roberto. Quando volle presentare il mio “Stralune”, il 21 di marzo del Duemilanove, a Milano, pensavo che si sarebbe limitato ad una presenza, come dire?, rappresentativa. Per quasi due ore scandagliò il romanzo cercando nei suoi fondali il mestiere di vivere.)
Una sera, in uno dei paesi di Grecìa, descrisse la perfezione della luna del Salento. Disse delle sue forme, della sua splendenza, della relazione con i campanili; disse che i campanili sembravano innalzati apposta per indicare agli uomini la posizione della luna. Il miracolo della luna.
Con le canzoni di Francesco Guccini, di Fabrizio De Andrè, di Roberto Vecchioni, abbiamo attraversato l’adolescenza e la giovinezza; adesso attraversiamo la maturità. Perché raccontano chi siamo stati e chi siamo ora, quello che avremmo voluto avere e non abbiamo avuto, quello che avemmo voluto fare e non abbiamo saputo o voluto fare. Quello che abbiamo fatto, che abbiamo avuto. Che abbiamo sognato ad occhi aperti e chiusi. Raccontano che, poi, siamo chi siamo, siamo arrivati qui come eravamo. Abbiamo parcheggiato fuorimano. (Ma questo è un altro. Questo è Ligabue).
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 24 novembre 2024]