Arte e carattere di Marzio Mori. Una sospensione tra attualità e moralità della storia

Questa trova subito nell’occasione discorsiva dell’autore la cifra esemplare diacronica nel dipinto anonimo della Città ideale per poi fornire lo spunto analitico sulla discussione che renderebbe ancora attuale, dice l’autore, oggi, quella non meno nota ‘sezione aurea’ che Fibonacci trovò alla base di ogni costruzione umana pur sempre derivata da Dio.

Riproponendo l’analogia strutturale del suo carattere naturale con la spirale del Nautilus, tale da rinominarla come «chiave di volta dell’universo», l’autore procede ad allargare il primo spazio di quella lunga digressione concettuale sulla moralità della storia che innerva tutta la tripartizione argomentativa del testo. Tre parti si sciolgono gerarchicamente senza alcun segno di discontinuità nel discorso di Mori, tutte e tre parimenti riferite a un assetto squisitamente personale che evita convenzioni orfane di carattere empirico, e che ricusano ogni elemento di astrattismo cerebrale, nel quale è facile incorrere nelle trattazioni storico-artisitiche come queste. A un occhio vergine che sfoglia queste pagine per la prima volta non sarà molto lontana l’impressione che si tratti di un grande compendio o sunto dell’intera storia dell’arte, che passerebbe velocemente da un esame all’altro senza troppo indugio esplicativo o illustrativo, se non fosse che le tre sezioni individuate condenserebbero la terna tematica soltanto dopo aver percorso bene le sinuosità curvilinee del corpo testuale. Mori accentra tutto il corollario aneddotico e letterario dell’elemento storiografico dentro il comparativo processo descrittivo non dell’opera, per ciascuna sezione, ma dell’idea.

Se la gerarchia tematica del libro, che a tal punto chiameremo come dossier, vede intrecciati dapprima il dibattito sulla “classicità etica dell’arte”, poi della “moralità classica della storia” e infine sulla “attualità morale dell’arte”, ci accorgiamo come dalla città ideale d’un Alberti si possa trovare il lettore trasportato, come da una corrente intertestuale non tanto deontologica, ma gnoseologica del senso della storia, un senso quasi sincretico ed eclettico alla Stendhal, costante compagno di viaggio simulatore del lettore, al cancello della Cappella Contarelli o davanti al Martirio caravaggesco di San Matteo a San Luigi dei Francesi.

Sebbene d’altronde a dispetto dell’asciutta dispositio periodale che riesce meglio a connettere le valenze sintagmatiche dell’enunciato teorico con quelle paradigmatiche, qui forse un po’ sfortunate di apparato illustrativo, del principio pratico, si possa ricercare una minore trasparenza concettuale ed evidenza logica in un volo quasi pindarico, è da ravvisare una lucida inventio di forme iconografiche non stereotipate dalla tradizione più comunemente manualistica.

Ce lo indicano sia la maniera con cui nella sezione centrale, ossia il secondo nucleo tematico, che va da pag. 32 fino a pag. 52, sono correlate le scelte esotiche e bibliche che oscillano tra la tragica e francescana fugacità dei fructus nella Canestra e il presago suono della melodia che in Il riposo durante la fuga in Egitto, attraverso una natura vaga attornia sommessa e caritatevole la coppia biblica della Vergine che «custodisce lui» e «lui che sostiene lei». L’autore intarsia la lettura già nota dell’opera caravaggesca con una approfondita lente quasi kantiana dell’estetica del Merisi, dei suoi patemi derivatigli dalla vista della pira che trasforma Giordano Bruno in nero fumo e del senso cosmologico dell’ombra come sigillo copernicano nella pittura.

Un libro che allora non mira ad essere un nuovo manuale di istruzione per lo studio dell’arte e le sue direzioni di ricerca nel mondo accademico, bensì un vademecum che rintracci nel lettore la pulsazione ancora umana del senso più intricato e difficile, non meccanico e automatico, ma enigmatico e vago della Bellezza. Una indagine inquisitoria su quale vogliamo che sia il nostro carattere per quel che pensiamo possa rappresentare ancora l’arte. Se anche è dovere di una macchina virtuale, dalla intelligenza non matematica, ma meccanicamente artificiale, renderla come materia perfetta o dell’uomo, una crisi reale che la sfiori come sfera imperfetta, ma dalla cui tensione la nostra ragione si faccia ancora perfettibile. È un quesito che non tocca allo storico dell’arte risolvere, ma porsi. Marzio Mori, l’autore di questo libro, se l’è proposto, e l’ha fatto per la prima volta negli studi post-moderni, attraverso una inedita iunctura quasi ossimorica, tra una città perfetta e una in rovina, tra un tempo ideale e uno spazio reale, appunto, Arte e Carattere.

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