Michele Gambino, La vita come un taccuino

Comincia così la sua carriera: ha lavorato al “Giornale del Sud”, ai “Siciliani”, al settimanale “Avvenimenti”; poi dalla Sicilia a Brescia per “Bresciaoggi” e ancora in altre testate, è stato autore di programmi Rai tra i quali “La vita in diretta”, ha vinto nel 1997 il premio “Ilaria Alpi”, ha raccontato i morti di Cosa Nostra, ha raccontato le guerre, Iraq, Afghanistan, Ex Jugoslavia, Colombia. È stato per due volte prigioniero, ha indagato le stragi di mafia e il traffico di smeraldi a Bogotà, i cadaveri squartati di Timisoara e i “taliban” di Kabul. Un pezzo alla volta è la “storia di un giornalista e del suo tempo”, la narrazione di una battaglia alla ricerca della verità, quella che secondo Sciascia va scovata sul fondo di “un pozzo nero e stagnante”. Gambino si cala – ogni volta, tutte le volte – in quel pozzo. La cerca, la insegue, la ghermisce. Sceglie un “giornalismo contro” – contro le guerre, contro le mafie, contro le ingiustizie – schierandosi in una trincea che non è dei vincitori ma, semplicemente, di coloro che fanno dei tentativi. Studia, osserva, attende. Poi si agita, si muove, attacca. È la doppia natura di chi ricerca e contempla, si muove e sta, corre e riprende fiato. Questo giornalismo è il solo modo che conosce per denunciare quelle brutture, combattere quelle ingiustizie, inoltrarsi in un sistema che vorrebbe inceppare.  Questo giornalismo è il senso, la passione, la sola ragione. Il solo strumento per far vedere realtà a volte palesi a volte nascoste, a volte tremende a volte meravigliose, che a volte atterriscono e a volte consolano.

Nel momento della vita in cui si sente troppo vecchio per i giovani e troppo giovane per i vecchi, Gambino decide che è proprio il momento giusto per ricostruire, ricucire, rivangare, ristabilire, ricomporre. Per se stesso. Per sua figlia, Francesca, ricordandole, tuttavia, di cercarlo non nei libri che ha scritto ma nelle sottolineature dei libri che ha letto. E sono tanti (Tolstoj, Terenzio, Márquez, Sciascia, Calvino, Simenon)  e magari anche tra le ombre dei film che ha visto, anche quelli sono tanti. Non è poco poter dire di aver vissuto – “Poco, mi serve. Una crosta di pane, un ditale di latte, e questo cielo e queste nuvole” scriveva Velimir Chlèbnikov, poeta russo – e di sicuro Michele Gambino ha vissuto tutto quanto c’è da vivere. Nel dolore o nella sconfitta o nella felicità o nell’entusiasmo o nella vittoria di essere, semplicemente, vivi.

Un piccolo spoiler. Il vecchio pastore aveva ragione a dire a Petrarca che su quel monte non avrebbe trovato nulla. “E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle”. O le strade della Sicilia, i volti delle madri a cui ammazzano i figli, le rughe degli anziani magistrati, i bombardamenti di Baghdad e le notti del Paraguay. Poi, però, scoprono che, alla fine, devono guardare dentro se stessi. Gambino, dopo aver raccontato la storia, ora si siede, racconta la sua “buona battaglia”. Il suo essere giornalista. Il suo essere uomo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 29 gennaio 2025]

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni e segnalazioni e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *