
Di Lucio Romano – a cui Scorrano aveva anche dedicato un volume, Per Una vita in versi di Lucio Romano (Galatina, Edit Santoro, 2003) – l’autore intende presentare, come si legge a p. 131, «un aspetto particolare della [sua] produzione poetica: la rappresentazione di sé come poeta, o quella del poeta in generale, della sua situazione nella società». È questa la chiave di lettura che propone; e da qui appare l’immagine del poeta come «difensore della verità»; appare l’immagine del poeta ribelle, del poeta che dice no; appare l’immagine del poeta che confida nella propria opera; e che ricopre, per questo, un ruolo e una funzione precisi nella società, perché, come scrive Scorrano – chissà quanto riconoscendosi in questa frase – «Il poeta è, a suo modo, un uomo di fede. […] La parola è fatta per inquietare, per suscitare domande, per spingere all’azione».
Il saggio successivo, che poi è quello più corposo del novero, è dedicato a Salvatore Toma, «the great poet», come si autodefiniva ironicamente, e rappresenta tuttora uno degli studi più importanti e rigorosi, assieme a quelli di Nicola De Donno, e di Oreste Macrì, dedicati al poeta di Maglie, scomparso prematuramente nel 1987 a soli 36 anni.
Fra l’altro vorrei ricordare che le poesie di Toma si leggono oggi nella stessa collana, “Fogli di via”, da me diretta per l’editore Musicaos di Neviano, in cui nel 2022 è stata pubblicatal’Opera poetica di Scorrano, curata molto bene da Antonio Montefusco, con interventi dello stesso Montefusco e di Antonio Resta che ci accompagnavano alla (ri)scoperta della «difficile semplicità», così veniva definita con efficace ossimoro, della poesia di Gigi Scorrano. Un’iniziativa editoriale che mettendo in luce un aspetto forse meno noto della sua attività, permette di cogliere, ancora più in profondità, il senso complessivo del suo percorso letterario.
Tornando a Toma, quello che propone Scorrano è uno sguardo complessivo sulla sua poesia; l’occasione era la pubblicazione, nel 1999 del Canzoniere della morte a cura di Maria Corti nella collana Bianca di Einaudi, un fatto di per sé rilevante: per trovare un altro poeta salentino in quella prestigiosa collana bisognerà infatti attendere altri vent’anni, con la pubblicazione di Tutto è sempre ora di Antonio Prete. Ma Scorrano approfitta dei riflettori accesi a livello nazionale sulla poesia di Toma per allargare il discorso e per mettere a fuoco, con sensibilità e intelligenza, alcune caratteristiche essenziali della sua poesia, attraverso un’attenta lettura delle opere pubblicate in vita da Toma, da Poesie. Prime rondini del 1970 a Forse ci siamo del 1983. E a partire da questa ricognizione ad ampio spettro, Scorrano ci racconta una poesia che con grande spontaneità – è questo forse il suo dono maggiore – testimonia della distanza che negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta si era fatta sempre più incolmabile fra la tradizione del pieno Novecento e i nuovi modi espressivi che si andavano imponendo in quel periodo di forte cambiamento. Ecco, quella di Toma, come scrive Scorrano, è una poesia «tutta tesa ad un respiro naturale ma anche nervosa e corsa da una sorta di impazienza», una poesia ludica e giocosa ma anche selvatica, provocatoria, satirica, che propone dei temi destinati a diventare nel tempo fertili e sempre più attuali: il tema dell’ecologismo e dell’animalismo; una poesia intesa – e anche in questo caso è forse possibile riconoscere un orizzonte condiviso dallo stesso Scorrano – come «gioco a difesa del vivere, di cui appare sola ragione, ipotesi di salvezza e unica possibilità di scampo dall’appiattimento al quale costringerebbero le regole della società, di quella letteraria in particolare» (p. 150). E poi emerge, soprattutto, una chiave di lettura niente affatto scontata in quel periodo, ma che Gigi Scorrano sottolinea con forza ed efficacia: e cioè la proposta di considerare Toma come poeta della vita e non della morte, come è stato frettolosamente etichettato dopo l’operazione editoriale einaudiana; un poeta caratterizzato da una profonda «religiosità laica», come la definisce Scorrano. Ecco, Toma poeta della vita e anche dell’amore, che è un altro elemento decisivo per la comprensione della sua scrittura; Toma poeta «puro, e semplice e ribelle», come si autodefinisce in un suo componimento.
Un altro poeta colpevolmente – e mi verrebbe da dire: inspiegabilmente – trascurato dalla critica nazionale, e opportunamente indagato invece da Scorrano, è Raffaele Carrieri. Scorrano si sofferma in particolare sulla raccolta che ritiene più «compiuta e suggestiva» fra le tante del poeta tarantino, autore di ben dieci ‘Specchi’ Mondadori. La raccolta è Il Trovatore, e Scorrano isola anche in questo caso quegli elementi che servono a dare un’idea compiuta della sua poetica. Emerge allora una poesia en plein air, fragrante di luce e d’aria, che raffigura un paesaggio – il nostro – estraneo al descrittivismo ma di natura più mentale; una poesia caratterizzata da un’«ilare immaginazione» venata però da sottili inquietudini, una poesia la cui cifra consiste in una «sentenziosità d’antica fattura adeguata ad un presente guardato con scetticismo» (p. 169).
E poi ancora Scorrano si occupa di un altro importante poeta appartato del nostro territorio Ercole Ugo D’Andrea, la cui poesia è caratterizzata, come mette bene in luce, da un «andirivieni (apparente) tra “fuori” e “dentro” tra mondo, o “universo” e “piccola patria”, luoghi familiari» (p. 170); una poesia «in “interni” o poesia “d’interno”, vissuta attraverso una quotidianità quasi schiacciata dalla riproposizione degli accadimenti e dalla ripetitività dei gesti e delle parole consuete» (p. 170).
Introducendo lo scrittore successivo, Antonio Verri, Scorrano parla poi di «candore» e di «entusiasmo», sostantivi adeguati a descrivere il percorso dello scrittore di Caprarica di Lecce e le sue tante iniziative editoriali, dall’ancora acerba esperienza di “Caffè Greco” fino al “Pensionante de’ Saraceni” e oltre. Approfondendo, quasi in presa diretta, la prima raccolta poetica di Verri, Il pane sotto la neve, Scorrano riconosce fin da allora una poesia che, come scrive efficacemente, «nasce dal suono più che dal senso delle parole; il suono acquista valenze magiche, apre porte misteriose che immettono in paesaggi irriconoscibili e sconosciuti al tempo stesso. Non le parole, ma semplicemente il loro suono, si caricano di storia» (179). E così avverrà, in maniera ancora più estrema ed azzardata anche nelle altre opere di Verri passate in rassegna, I trofei della città di Guisnes, e Il naviglio innocente, opere sperimentali, caratterizzate da una «scrittura umorosa, piena di estri» in cui, come scrive Scorrano (e anche questo è un passaggio affascinante, da sottolineare), «La ricerca della forma […]non si conclude nella realizzazione della forma ma semplicemente nel cammino della ricerca» (p. 183). Ecco, la lezione che se ne trae: chi scrive non arriva quasi mai in un porto sicuro: attraversa la tempesta, come l’innocente naviglio di Antonio Verri.
L’ultimo scrittore approfondito nel volume è Antonio Errico, al quale Scorrano dedica due schede relative a altrettanti suoi libri pubblicati da Manni. Il primo è Favolerie (1996) cheè per Scorrano «un libro di fantasmi poetici, di immagini e ombre trattate ora come cosa salda, ora dispiegate nella loro qualità di evanescenti presenze» (p. 195). E individua poi con precisione, Scorrano, le caratteristiche della scrittura di Errico, che si risolve in una prosa che corteggia la poesia; una prosa ritmica che, come scrive, «sembra creare una sorta di effetto ipnotico, un canto che torna, suadente ed insistente, su se stesso» (p. 195); l’altro libro è Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini (2008) da cui emerge ancora una volta, come direbbe Vittorio Lingiardi non un landscape ma un mindscape, un paesaggio mentale, interiore del territorio salentino.
L’ultimo saggio confluito nel libro è dedicato, come anticipato, al «Salento degli “altri” che», come scrive Scorrano, «spesso non coincide col nostro, ma che è ugualmente interessante esplorare per vedere come gli “altri” hanno visto e considerato o percepito il Salento» (p. 203). Chi sono questi «altri»? Si parte da Walpole e dal suo Castello di Otranto, dove Otranto come è noto non è che un nome che non coincide con l’effettiva realtà del luogo, ma è interessante notare come nell’immaginario del racconto gotico la città sia associata a un luogo di passioni e di sacrificio. A Otranto sono dedicati libri molto celebri come L’ora di tutti (1962)della ‘quasi salentina’ Maria Corti e più recentemente Otranto di Roberto Cotroneo, in cui però, come sottolinea Scorrano «la preoccupazione non è quella di esplorare una realtà socio-economica e di darle, eventualmente rappresentazione, ma di coinvolgere il lettore in una storia misteriosa, in un’atmosfera di magia e di mito» (p. 206). Scorrano ricorda poi un romanzo di Vera Dragoni, Fortunata nel Sud (Mursia, 1972), due articoli di Bonaventura Tecchi apparsi sul “Corriere della Sera” negli anni Cinquanta, e alcune pagine di Gadda, di D’Annunzio, Pirandello (che accenna a Otranto nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore), alcune pagine di L’afrodite. Un romanzo d’amore di Riccardo Bacchelli ambientate tra Gallipoli e Otranto; e ancora, ovviamente, il Viaggio in Italia di Piovene (1957), da cui «emerge un’immagine del Salento prestigiosa e tutta particolare, quasi il segno di un’identità inconfondibile e non accostabile ad altre» (p. 213). Poi Scorrano accenna ad alcune opere più recenti, Casa rossa di Francesca Marciano (Longanesi, 2003), già sceneggiatrice di un film di Salvatores, Io non ho paura, che ambienta il suo romanzo in diversi luoghi salentini: Cutrofiano, Parabita, Ruffano, Lecce, Otranto ecc. Da qui appare un territorio descritto, scrive Scorrano, come «nido di umana simpatia. C’è l’incanto fisico di questa terra (i suoi profumi, la sua luce) e il riconoscimento di una disposizione umana capace di vincere i pregiudizi o di liberarsene in allegria… Salento dunque non solo come luogo per ambientarvi una storia, ma come universo morale» (p. 215).
Il saggio (e il libro) si conclude poi – e concludo anch’io, ringraziandovi per l’attenzione – con la citazione di un brano di Vanni Scheiwiller tratto da un suo intervento per una commemorazione civile dei Martiri d’Otranto, nel 1990, che testimonia come gli scrittori che sono passati da qui e hanno rappresentato il nostro territorio non siano stati attratti solo dalla sua bellezza ma siano stati anche attenti ai problemi dei luoghi in cui hanno soggiornato.
Di questi osservatori «altri», conclude Scorrano, «andremo sempre alla ricerca».
[Testo della presentazione del libro di Luigi Scorrano, Lettere salentine. Poeti e narratori del Novecento, a cura di Antonio Montefusco e Antonio Resta (Pisa, ETS, 2024) tenuta a Tuglie il 20 febbraio 2025. Leggi Su Lettere salentine. Poeti e narratori del Novecento di Luigi Scorrano (prima parte) di Antonio Lucio Giannone]