di Ettore Catalano

In un saggio pubblicato nel 1949 su “L’Albero”, Mario Marti coglieva, con una lucidità e con una acutezza critica che sarebbero rimaste costanti per tutto il suo lungo magistero novecentesco) le linee di una critica letteraria che, partendo dal doveroso accertamento filologico, mirasse poi ad una ricostruzione integrale dell’opera del poeta, prendendo accortamente le distanze dal distinzionismo dei “medaglioni” dei nipotini di Croce e contemporaneamente proponendo l’interessante recupero dell’esigenza desanctisiana di guardare alla personalità integrale del poeta e di cogliere, nella sua voce, anche l’eco dei grandi ideali civili. Già dai primi anni di quel secondo dopoguerra in cui si affacciavano, nel campo della metodologia letteraria, le istanze di un marxismo variamente declinato, in cui convivevano esigenze di un più consapevole e pieno senso della storia rispetto alle chiusure intransigenti dell’idealismo crociano accanto a più rozzi tentativi di un sociologismo meramente classificatorio, la prospettiva critica perseguita da Marti si mostrava animata dalla tensione verso la ricerca della realtà storico-poetica. Tale indicazione perorava la necessità di affondare l’analisi proprio nell’articolata specificità del linguaggio letterario, cercando in esso e il poeta come interprete del proprio mondo interiore, ma anche l’artista come voce di una determinata civiltà che ha contribuito a farlo nascere e a stimolare l’intenzionalità formante della sua opera.
Contro la narrazione antistorica per frammenti o isolate monografie, contro il carattere “arcano” e “misterioso” del processo creativo, Marti faceva valere l’articolata ricchezza della storia, il ventaglio storicizzante di una critica attenta alla specificità del suo oggetto ma capace di immergere quella specificità formale nel vorticoso e non eludibile fiume della storia della civiltà.