La sua voce roca, tipicamente africana, è rimasta nella mia memoria. Mai mia madre e nessuna delle vicine acquistava i suoi articoli, ma lui, imperterrito, continuava a fare il giro del paese trascinando un grosso carrello di ferro semi-arrugginito su cui era stesa la sua mercanzia. Proprio dal suo grido di battaglia, tutti noi lo chiamavamo anche “tappetì”. E dal “tappetì” ai piazzisti delle televendite televisive il passo è breve. Ricordate la televisione privata Telemarket? Vendevano tappeti persiani a tutte le ore del giorno e della notte: quei tappeti persiani che mio padre portò un giorno a casa al ritorno da un viaggio in Oriente. Erano favolosi, mi richiamavano alla mente le magiche atmosfere da “Mille e una notte”. In effetti, in quel periodo trasmettevano un cartone animato dal titolo Simbad il marinaio, tratto dall’antichissima favola persiana, e dunque a me erano famigliari quegli ambienti da mirabilia orientali e tanto più ero contento di ritrovarmi simili tappeti in casa. Nuovi nuovi, scintillanti nei colori, facevano parte di uno stock che mio padre, da buon commerciante, aveva acquistato a bassissimo prezzo, facendo un affare, e che andarono ad impreziosire la mia casa natale. Rispetto a quegli antichi tappeti, i tappeti moderni sono tutta un’altra cosa. Di tanti design diversi, di pelo o di materiali sintetici, sono certamente più pratici e igienici, ma i loro patchwork in nessun modo equiparabili agli intricati orditi dei persiani. A pelo lungo o a pelo corto, di svariate grandezze e dalle innumerevoli fogge (quadrati, rotondi, rettangolari, triangolari), i tappeti dell’Ikea riscuotono grande successo grazie alla loro tessitura piatta ed ai simpatici colori, ma non sono così preziosi come quelli che si vedono da Mollaian, il più accreditato rivenditore di tappeti orientali d’Italia. Insomma, “tappeti”, alla greca, stromata, sono anche i miei scritti, data la loro varietà e la difformità di stile e ispirazione; per questo mi è piaciuto applicare ad essi la definizione coniata da Clemente Alessandrino. Insieme ai brani più recenti, ho recuperato nel libro alcuni articoli apparsi molti anni fa che per continuità di temi o di ispirazione, sebbene con una veste rinnovata (cioè piccoli aggiustamenti, tagli o integrazioni, aggiunta di apparato bibliografico), ho ritenuto gradevole ripresentare in questa sede. Ad articoli più lunghi e densi se ne aggiungono altri più brevi e leggeri.
Non vale per questo libro, come per tutti gli altri miei, quanto diceva Catullo, Nonam edere post hiemen e multum vigilare lucernis, nel carme 95, ossia “pubblicare dopo nove anni” per eccessiva cura e per il lavoro di cesello cui egli sottoponeva i suoi testi; vale invece, senz’altro, il suo detto Per iocum atque vinum (nel carme 50) perché questi pezzi sono quasi tutti figli di momenti alati di brio e ilarità. I vari articoli sono nati in momenti diversi, mattina o pomeriggio, se di domenica, notte, se di giorni feriali, ma notturna è stata la composizione del libro, ossia il lavoro di correzione, assemblaggio, impaginazione, l’editing necessario per la pubblicazione. Ecco spiegato anche il titolo di questa introduzione: “il cappello sulle ventitré”, come quella famosa trasmissione televisiva degli anni Ottanta che davano a tarda notte su Rai 2 e che scatenava i primi pruriti erotici di noi adolescenti dell’epoca, con le donnine che si esibivano, in un’atmosfera da night club, in spogliarelli integrali. Un livre de chevet, insomma; così mi piace immaginare che anche i miei lettori possano sfogliare a tarda sera questo lepidus libellus.
[Introduzione a Gran Varietà, Agave Edizioni 2025]