Capita poi, camminando per i vicoli di Firenze
tra Ponte Vecchio e Piazza della Signoria, di rischiare d’essere investiti da
veri e propri trenini di giapponesi – forse cinesi, ahimè sembrano tutti uguali
– che si incrociano e corrono come convogli inarrestabili su inesistenti
rotaie: treni di turisti a piedi per la città. Treni di chi va si sfiorano con
quelli di chi viene; turisti asiatici sempre di corsa, tutti allineati e
disposti in fila indiana, di cuffie auricolari muniti, intenti ad ascoltare una
guida che, in testa alla carovana, come una locomotiva sbuffante li trascina
chissà dove, raccontando chissà cosa. Forse sta solo intimando al gruppo di
sbrigarsi, il mondo sta per finire. Sembrano personaggi disegnati dalla stessa
penna del Barone rampante e del Visconte dimezzato , usciti da un
cassetto di storie in cui il Marcovaldo d’occasione sei tu, ingenuo
sognatore che vorrebbe soltanto attraversare, guadare il fiume di turisti e
andare dall’altra parte della strada, senza essere fagocitato: non dalla città
che cambia ma da un mondo ormai irriconoscibile. Orde di nuovi barbari arrivati
da lontano, senza una meta precisa, pronti ad abbuffarsi di arte come termiti
che divorano l’ultima gamba di una sedia ormai zoppa. Quel che accade fuori è
l’immagine speculare di ciò che avviene dentro le mura dei musei, al di là dei
metal detector e dei controlli aeroportuali della Galleria degli Uffizi: sono giunti
tutti al capolinea, accalcati di fronte alla Venere e alla Primavera
di Sandro Botticelli, a Leonardo da Vinci – a quel poco di lui che in Italia
ancora ci resta – e al Tondo Doni realizzato per il ricco mercante
Agnolo Doni, l’unica tavola certa che conserviamo di Michelangelo, un grande scultore
imprestato alla grande pittura.
L’altro Michelangelo, il Merisi, quello sempre oggetto delle
attenzioni della critica che conta, si trova alla fine del percorso artistico
costruito, pensato per noi, dai dottori dei Beni Culturali: quasi a voler
descrivere un itinerario come fosse un’abbuffata, in cui Caravaggio e Gerrit
van Honthorst (o Gherardo delle Notti, per via dei «suoi notturni rischiarati
da candele e torce») sono la ciliegina a cui non dover rinunciare, la
conclusione inevitabile di un cammino che non si conclude con l’Otto-Novecento
– misteriosamente collocato alcune sale prima – ma con un incomprensibile
Cinque-Seicento .
Un’abbuffata conclusa con le portate principali, invece che con i
canonici caffè (XIX secolo) e ammazzacaffè (XX secolo); sembra non ci sia uno
studio filologico, o almeno così traspare scorrazzando tra i tanti capolavori,
che da un certo punto in poi escono fuori dall’iniziale sentiero della logica
evolutiva del processo culturale e immaginifico: sebbene appena entrati, i
marmi romani prima, i pregiotteschi e i giotteschi non lo lascino presagire.
No! Il consumismo, il turismo culturale di massa vengono prima di tutto il
resto.
Dunque, il main dish servito alla fine del
pasto serva da buon ricordo in questa sorta di “cucina da incubo”, e tutto
quello che c’è nel mezzo vada a farsi benedire. Anzi, vadano a farsi benedire
Andrea del Sarto e Rosso Fiorentino, Dosso Dossi e Pontormo; ma che ve ne frega
di Giulio Romano, se avete voglia andate a vederne gli esiti a Mantova; a chi
gli importa di Guido Reni e del Guercino? collocati qua e là come fossero
semplici “outsiders” della storia dell’arte che conta.
Andrea del Sarto, Madonna delle Arpie , (207×178 cm) e dettaglio, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Una folla di telefonini sollevati per
immortalare la Sacra Famiglia del Buonarroti. Invece, avanzando di poche
decine di metri, poco più in là, la Madonna delle Arpie di Andrea del
Sarto è un capolavoro nel deserto, nessuno sguardo, nessuna attenzione, nessun
telefonino per imprimere un ricordo da portarsi a casa: il «pittore senza
difetti», così lo definì Giorgio Vasari, difetta nel richiamare a sé folle di
visitatori. Il maestro del Pontormo, che a sua volta ebbe per allievo il
Bronzino – a cui si accennava in apertura – non attira l’attenzione delle
masse. La storia dell’arte in quanto tale non attira turismo culturale, ma la
storia dei personaggi divenuti famosi grazie alla TV, ai mass media , che
ne fa delle star, si. Ne fa degli influencer alla lettera e ante lettera:
come fossero Tiktoker sotto la galleria Vittorio Emanuele II a Milano,
circondati da folle di scolari in gita, richiamati dalla nuova vanitas
dei brevi filmati postati sui social, che come nuove “sirene di Ulisse” conducono
al naufragio culturale della società contemporanea e in divenire.
Deposizione di Cristo , 1545-1564 c., Cappella di Eleonora, Palazzo Vecchio, Firenze.
Per queste e per altre ragioni la Deposizione di Cristo del “Bronzino” nella Cappella di Eleonora (1540-1545) a Palazzo Vecchio è quasi ignota alla maggior parte dei turisti. Eppure la qualità è altissima: la tavolozza di colori, la morbidezza dei panneggi, il corpo di Cristo morto tra le braccia della Madonna è perfettamente risolto, tra echi michelangioleschi (Pietà Vaticana ) e pontormiani (Trasporto di Cristo ): la mollezza delle carni, il senso dello spirito che ha abbandonato il corpo rendendolo inanimato e floscio.
Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia , dettaglio, Cappella di Eleonora, Palazzo Vecchio, Firenze.
Ma l’opera che più di tutte emerge è una delle scene bibliche presenti nello spazio esiguo, entrando, a sinistra della cappella: Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia è un capolavoro che supera per capacità espressive dei soggetti, trasparenze dell’acqua che fuoriesce della montagna e impostazione della scena, ogni altro capolavoro dello stesso genere. Il bambino che piange tra le braccia della madre, evidentemente assetato e rosso in viso per lo sforzo del pianto, supera per resa stilistica e rotondità del cranio lo stesso effetto scultoreo ottenuto da Michelangelo con la testa calva del San Giuseppe del Tondo Doni , sembra che sbuchi dalla superficie piana su cui è dipinto.
Pietro Perugino, Ritratto di Francesco delle Opere , 1495, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Il Ritratto di Francesco delle Opere
(1494-1495 c.) di Pietro Vannucci, meglio noto come il “Perugino”, perché
proveniente da Perugia e a cui la città ha dedicato il corso principale (corso
Vannucci), non ha nulla da invidiare alla Gioconda di Leonardo al
Louvre: anzi, della Monna Lisa (1503-1506 c.) è un anticipatore, come
del resto emerge dalla ricerca di profondità prospettica per mezzo del
paesaggio leonardesco alla sue spalle, rinforzata dall’effetto di trompe-l’œil ,
risolto, come in molti ritratti del tempo, ricorrendo ad un davanzale su cui il
soggetto si appoggia con le mani, e che grazie alle diagonali tracciate dalle
dita, acquisisce una condizione di tridimensionalità sbalorditiva. Un dipinto
che meriterebbe una sala tutta per sé, buia, con una luce a rischiararlo e
renderlo l’attore principale, non una semplice comparsa tra tanti dipinti
intorno. Un po’ come la storia della stessa Monna Lisa , che se non fosse
stato per il furto ad opera di Vincenzo Peruggia del 1911, forse godrebbe
ancora oggi della condizione di cui godeva nei primi del Novecento, un dipinto
disperso tra i tanti: che fortuna essere l’oggetto di un furto ben architettato
e passato alla storia. Quante opere meriterebbero maggiore notorietà e un’attenzione
universale? Potenza dei social media e della massificazione del pensiero
critico.
Quanti musei si potrebbero allestire ancora distribuendo
meglio e in modo più organico la più corposa raccolta di opere di Raffaello? E
quelle di Tiziano, Guido Reni e Guercino? Come superare il limite della «fruizione compulsiva»[1] di un modello museale obsoleto che non può
più funzionare? Che si tratti dell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera o del
Museo degli Uffizi di Firenze la questione non cambia: musei gestiti come fossero
ottocentesche quadrerie.
In fin dei conti, in questa società opulenta, sono i grandi nomi a dettare le scelte degli allestimenti e dei percorsi di fruizione, e agli Uffizi il paradosso è particolarmente evidente. Sono quei soliti nomi noti, sempre quei pochi nomi presi in prestito negli anni Ottanta dalle “tartarughe ninja” – Leonardo, Donatello, Raffaello e Michelangelo – o poco più. Tutto il resto merita poca o nessuna attenzione, in fondo, come del resto avviene per tutto, anche l’arte e la cultura, ormai, sono solo beni di consumo di massa, e che altro sennò! E allora ben vengano i cartoons di supereroi dai nomi e dalle identità improbabili, a patto che i loro nemici si chiamino Perugino, Pontormo, Bronzino e Guercino: se alla cultura globale serve questo, se servono le americanate, beh, allora, «avvicinatevi pure signori, avvicinatevi!», l’overtourism [2] è servito.
[1]
«La
gente di solito va nei musei e guarda quattrocento quadri in un’ora e mezza.
Torna con dei piedi gonfi e va alla ricerca di una coca cola fresca per
dimenticare l’esperimento. I luoghi dove stanno i quadri si chiamano
pinacoteche, come esistono i luoghi dove stanno i libri che si chiamano biblioteche.
Nessuno va in biblioteca e legge tutti i libri.
Uno che va in una
pinacoteca, in un museo, dovrebbe andare a vedere due quadri. All’inizio, a mio
parere, addirittura uno solo. Quello che l’ha fatto il quadro spesso ci ha
messo due anni o anche due mesi a farlo. Cosa mi dà il diritto di guardarlo in
venticinque secondi? Quando erano messi in una Chiesa, la gente li osservava da
quando nasceva a quando moriva: tutta la vita. Non è possibile vederli in un
minuto, mentre stai correndo al quadro prossimo» (Cit. Philippe Daverio).
[2]
Overtourism (iperturismo o sovraturismo ) è la misura
dell’impatto esercitato sulle destinazioni turistiche, sulla popolazione, sui
monumenti e sull’economia locale, dall’eccessivo numero di presenze turistiche
in un’area geografica determinata e delimitata. Presenze che diminuiscono la
permanenza nei centri turistici d’interesse internazionale e aumentano
l’impatto nefasto e distruttivo esercitato dal fenomeno degli arrivi sovrabbondanti.
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