Nuovo Zibaldone Salentino IV

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La storia. A che serve lo studio della storia se non a farci vedere chiaro nel presente? Certo, come voleva Francesco Guicciardini, le vicende degli uomini non si ripetono mai allo stesso modo; ma è altrettanto certo, come voleva Niccolò Machiavelli, che la storia deve pur insegnare qualcosa, altrimenti, perché studiarla? Penso alle vicende dell’Ucraina, ai tre anni di guerra appena trascorsi e a quanto sta accadendo in questi giorni di marzo, e mi dico che è proprio vero quel detto, secondo il quale il lupo perde il pelo ma non il vizio. Le oligarchie europee, che dominano la scena politica e prendono le decisioni, premono per la guerra contro la Russia. Non è la prima volta che progettano di attaccare la Russia. Ci ha provato Napoleone, ci hanno provato le potenze occidentali al fianco dei bianchi contro i rossi dopo la Rivoluzione d’Ottobre e ci ha provato Hitler durante la seconda guerra mondiale. Risultato: ogni volta una disfatta per gli europei. Anche questa volta, dopo tre anni di guerra della NATO in Ucraina, gli europei (e gli americani) sono stati sconfitti dalla Russia, e dunque la loro attuale politica di riarmo ha tutto il sapore di un estremo tentativo di cercare la rivincita sul campo di battaglia. Questo sentimento di forte amarezza delle nostre oligarchie democratiche sarebbe comprensibile in condizioni normali, cioè se non fosse rivolto contro uno stato, la Federazione russa, che dispone di uno dei più grandi arsenali atomici del mondo; il che rende quel sentimento irragionevole e rivela una volta di più la boria del suprematismo europeo, di cui abbiamo avuto recentemente due esempi luminosissimi negli interventi dei due Roberti, Vecchioni e Benigni, massimi esempi di intellettualità italiana che ha smarrito del tutto il senso della realtà e va blaterando su un primato che non abbiamo mai avuto. Forse dovremmo fare tutti noi europei, ognuno secondo la propria irrinunciabile nazionalità, un passo indietro, una piccola e significativa professione di umiltà, e riconoscere che il mondo è grande, molto più grande di noi; e che se dunque noi ci disponiamo verso di esso nell’atteggiamento dei predatori, presto ne diventeremo delle prede, e della nostra cultura non rimarrà traccia. Parlare di pace, oggi, significa, abbandonare del tutto ogni indotto sentimento russofobico e riallacciare le relazioni diplomatiche con la Federazione russa, proprio come stanno facendo le oligarchie statunitensi dirette da Trump; il quale ha semplicemente capito che una guerra contro la Russia non può essere vinta – a meno che non si vuol mettere in conto la fine dell’umanità – e che dunque è meglio farci degli affari piuttosto che perdere soldi nella guerra. Ora mi chiedo: come mai le oligarchie europee non riescono a capire una verità così lapalissiana e a farsene una ragione?

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Vanitas. L’8 gennaio del 1953, Orio Vergani scrive nel suo Misure del tempo. Diario, a cura di Nico Naldini, Baldini & Castoldi, Milano 2003, p. 143: “Sono molto stanco. Ho trascinato l’inverno in una fatica da bracciante. Ho 143 scritto segretamente una vita di Gino Bartali: mi sono impegnato in una lunga prosa pubblicitaria per il Lanificio Rossi di Schio. Fra un mese, ho cinquantacinque anni. Il giornale vuole che mi occupi anche degli spettacoli scaligeri per quel che riguarda regia e scene. Ho calcolato che, da quando è finita la guerra, ho scritto una media di cinquecento “pezzi” all’anno: tremila cartelle; in sette anni, ventunmila cartelle. Vane e inutili biblioteche.” (Misure del tempo, cit. p. 143). La scrittura diaristica induce l’allora grande e famoso giornalista a riflettere sulla vanità della sua opera; egli sembra chiedere ad un anonimo interlocutore: che cosa rimarrà di tanta letteratura? Non oso pensare a che cosa avrebbe detto, se oggi avesse potuto leggere in Wikipedia la voce che lo riguarda: “Si calcola che abbia scritto più di 20.000 articoli.”.

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Se cinque anni di liceo son troppi. Discussione tra colleghi sulla necessità o meno che gli studenti completino il loro ciclo di studio delle medie superiori con il quinto anno. Alcuni sostengono che è tutto tempo sprecato, gli studenti del quinto anno si sentono già altrove, all’università o nel mondo del lavoro. Il liceo quadriennale ha un grande futuro perché riduce di un anno il corso di studi; e poi c’è l’Europa che ce lo chiede, l’Europa, dove tutti gli studenti finiscono a 18 anni, non a 19, come in Italia! Solo da noi lo Stato trattiene gli studenti a scuola fino a diciotto anni, e questo non è giusto. Un collega avanza l’idea che forse togliere un anno di scuola agli studenti non è proprio far loro un favore e che questo tornerebbe anche a danno dei professori perché diminuirebbe il numero delle cattedre disponibili. La sperimentazione del quadriennale non è forse un cavallo di Troia introdotto nella scuola per favorire una riforma che farebbe risparmiare molte risorse sul capitolo dell’istruzione pubblica? Meglio con questi soldi finanziare il riarmo, o no?

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Bellezza. Ecco cosa dice Fernando Pessoa sulla bellezza, per bocca del suo eteronimo Álvaro de Campo, in Una sola moltitudine I, p. 258: “Estetica, José Pacheco? Non c’è bellezza, come non c’è morale, come non ci sono formule se non per definire dei composti. Nella tragedia fisico-chimica che si chiama la Vita, queste cose sono come fiamme: semplici segni di combustione.

La bellezza ha cominciato con l’essere la spiegazione che la sessualità ha dato a se stessa di preferenza probabilmente di origine magnetica. Tutto è un gioco di forze, e nell’opera d’arte non dobbiamo cercare “bellezza” o cose che possano andare sotto questo nome. In ogni opera umana, o non umana, cerchiamo solo due cose: forza e equilibrio di forza, energia e armonia, se vuole. Davanti a qualsiasi opera di qualsiasi arte – dal custodire maiali al creare sinfonie – domando solo: quanta forza? Quanta altra forza? Quanta violenza di tensione? Quanta violenza di tensione riflessa? Violenza di tensione su se stessa, forza della forza di non allontanarsi dalla sua direzione, che è un elemento della sua forza?”

Pertanto, quando noi diciamo che una cosa è bella, vogliamo in realtà dire che quella cosa ha in sé “forza e equilibrio di forza, energia e armonia”. È questo che noi apprezziamo, e non solo in tutte le “opere umane”, ma anche nel corpo dell’uomo e della donna, la cui bellezza spiega l’attrazione sessuale che essi provano nel contemplarla.

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La nostra voce. Le persone che ci hanno istruito e educato, nelle quali abbiamo riposto la nostra fiducia, che abbiamo stimato e continuiamo a stimare, non cessano mai di far sentire la loro voce dentro di noi, anche quando da gran tempo sono scomparse. Noi abbiamo interiorizzato la loro voce e spesso pensiamo e parliamo attraverso di esse. Ma i casi della vita sono molto vari e richiedono a volte risposte diverse da quelle che ci suggeriscono le persone da noi stimate. Noi sentiamo, allora, che quelle voci sono dissonanti, discordanti da ciò che nel nostro intimo noi sentiamo. È in quel momento che si fa strada dentro di noi la nostra vera voce, inconfondibile come il volto di ciascuno di noi, la sola in grado di dire ciò che davvero sentiamo.

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Come cambia la scuola. Quando ho iniziato ad insegnare, trentacinque anni fa, ricordo che mi furono assegnate due classi del triennio, una terza e una quinta del liceo scientifico, per un totale di circa cinquanta alunni, o poco più. Insegnavo loro Italiano e Latino per sedici ore settimanali. Nelle restanti due (l’orario di cattedra è di diciotto ore), andavo a supplire qualche collega assente. L’aziendalismo scolastico, da qualche anno a questa parte, ha disposto che ogni docente di lettere debba insegnare “in verticale”, cioè in tutte le classi del liceo, dalla prima alla quinta, per un totale di diciotto ore. Risultato: ora ho cinque classi, per un totale di circa centocinquanta alunni. Le supplenze sono demandate al cosiddetto docente di potenziamento. Credete che siano migliorate le mie condizioni di lavoro? Credete che i miei alunni abbiano tratto vantaggio da questo cambiamento?

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La critica. Che cosa avrà voluto dire Orio Vergani, in Misure del tempo. Diario, a cura di Nico Naldini, Baldini & Castoldi, Milano 2003, p. 285, quando scrive: “Silvio D’Amico crede che io scherzi quando gli dico: “Come critico non ho opinioni, ma amicizie”. Pensa a una dichiarazione frivola, cinica.”? Silvio D’Amico è stato un critico drammatico (Roma 1887 – ivi 1955), a suo tempo molto influente. Vergani pensa che D’Amico non abbia compreso la sua battuta, che l’abbia fraintesa; ma lui l’ha detta proprio seriamente e la intende nel senso letterale del termine. Un critico teatrale (ma non solo) non esprime le sue opinioni, che sarebbero ininfluenti come tutte le opinioni, ma guarda all’opera con lo spirito di chi accompagna l’azione di un’altra persona, verso la quale siamo disposti secondo diversi gradi di amicizia. Il critico accompagna l’opera come un amico accompagna un amico; il che non toglie che, e contrario, il critico potrebbe accompagnare l’opera verso la quale non nutre alcun sentimento di amicizia: è il caso della stroncatura. In tutto questo non c’è nulla di frivolo e di cinico, ma solo la consapevolezza che, a dispetto di tutte le griglie critiche scientificamente approvate, il critico si accosta all’opera sempre con una disposizione amicale.

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Libertà. Con questo nome noi in realtà definiamo la nostra volontà, cioè quel che vogliamo che si realizzi nella vita che ci è data in sorte. Ma come la volontà si muove tra il caso e la necessità, così anche la libertà si realizza tra il caso e la necessità. Gli uomini, dunque, vivono in regime di libertà condizionata dal caso e dalla necessità.

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Bellezza. Un altro eteronimo di Pessoa, Alberto Caeiro, Il guardiano di greggi XXVI, in Una sola moltitudine II, Adelphi, Milano 1984, 13ª, pp. 109 e 111, dice sulla bellezza: “A volte, in giorni di luce perfetta ed esatta, / quando le cose hanno tutta la realtà che possono avere, / chiedo lentamente a me stesso / perché mai attribuisco / bellezza alle cose. / Un fiore ha forse bellezza? / Ha forse bellezza un frutto? / No: essi hanno colore e forma / ed esistenza soltanto. / La bellezza è il nome di qualcosa che non esiste, / che io do alle cose in cambio del piacere che mi danno. / Non significa nulla. / Allora, perché dico delle cose: sono belle? // Sì, perfino a me che vivo soltanto di vivere, / invisibili, giungono le menzogne degli uomini / intorno alle cose, / intorno alle cose che semplicemente esistono. // Quanto è difficile essere se stesso e non vedere se non il visibile!”

La bellezza come menzogna degli uomini che non vedono il visibile, e speculano su ciò che non esiste invece di godere semplicemente dell’esistente. Perché l’uomo si comporta così? Qual è il suo fine? Non è forse proprio la bellezza che ci vieta di godere delle cose? La sua astrattezza ce ne allontana, facendocele perdere di vista nella loro materialità e attirandoci in un non-luogo dove la bellezza è sovrana nel suo essere nulla. Vedi quanto pensa in proposito Giorgio Manganelli: che la bellezza è il nulla!

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