La lettera pirandelliana di “Sesso e carattere” di Otto Weininger e la sua influenza nell’elaborazione del “complesso di Parsifal”

A dire il vero, Weininger in un primo tempo divarica diametralmente il tipo della madre da quello della prostituta, ma finisce poi con ipotizzare che “nella maggior parte delle donne si trovano ambedue le possibilità: la prostituta e la madre e perciò è costretto a supporre che non esiste “una donna del tutto priva dell’istinto della prostituzione…d’altro canto non esiste neppure una donna priva di qualunque sentimento materno” (tutte le citazioni di Weininger sono tratte dall’edizione milanese di Sesso e   Carattere edita da Bocca nel 1942, con traduzione italiana di G. Fenoglio e saranno citate  d’ora in poi col solo numero di pagina, qui  p.224). Il mediterraneo retaggio culturale di Pirandello respingeva proprio quell’ultima supposizione weiningeriana e ondeggiava, come dimostrato dalla sua produzione drammaturgica, tra una sorta di santificazione dell’istinto materno, tra l’impossibilità, per la donna, di essere insieme madre e amante e una più complessa elaborazione di una sorta di complesso di Parsifal nel quale l’amor platonico per Beatrice-Marta poteva proporsi come il vero e unico omaggio all’erotismo trasformato in estetica della scena.

Sono questi i tre tempi del rapporto tra Sesso e carattere e il concreto lavoro di scrittura creativa di Pirandello.

Nella seconda citazione, apparentemente indiretta perché riportata in una intervista risalente al 1919 e siglata W.V., lo scrittore siciliano accenna a un cupo dramma come L’innesto definito “un dramma alla Weininger”  in cui avrebbe “tentato di trasfondere una brutalità dolorosa e selvaggia, elementare, quasi direi vegetale” e , anche in questo caso, l’argomentare di Pirandello non solo attesta una particolare lettura del libro di Weininger e una presenza di quella lettura nel profondo dei suoi meccanismi drammatici, ma anche una problematica che non definirei, come qualche critico ha fatto sbrigativamente, una ideologia sessista rafforzata da citazioni weiningeriane: parlerei, piuttosto, di un  percorso di maturazione, come ho prima detto, del concetto di “maternità” in Pirandello che condurrà, al di là della divaricazione tra madri e puttane, per un verso alle devastate psicologie delle madri cannibali di testi come La vita che ti diedi e per l’altro alla maternità da orda del mito La nuova colonia.

In tal modo, forse la mediazione operata dalla lettura di Sesso e carattere, avrebbe operato potentemente a trasformare una primitiva disposizione alla santificazione della maternità come rifiuto esplicito della sessualità e sua conseguente redenzione di tipo mariano, elemento presente in innumerevoli testi pirandelliani, in una più matura consapevolezza di una maternità da ricominciamento (il mito dell’isola sprofondata nel mare da cui solo emerge la prostituta “santa” col suo ”Signuruzzu” segna l’ipotesi di una inevitabile fine della società dei commerci e del denaro e forse anche della stessa monogamia), una maternità nella quale tutto è ancora in movimento e nulla è categorizzato in partenza, anche i ruoli sessuali.

Nella terza citazione, risalente al 1933, in una intervista rilasciata a Giovanni Cavicchioli  Pirandello esplicita distesamente la sua lettura di Weininger , una interpretazione “nel senso greco”[1], come dice lo stesso scrittore, della duplice contraddittoria necessità primordiale alla base di ogni manifestazione di vita, vale a dire il dissidio tragico tra vita che deve consistere e insieme fluire e la forma che rappresenterebbe la morte di quel fluire, dovendo imprigionare quel fluire togliendogli la vita. Sarebbero queste le parole di Pirandello riportate nell’intervista:

“La necessità è questa, per la vita: non restar vittima della forma. E’qui tutto il tragico dissidio della storia della libertà. Nietsche, Weininger, Michelstaedter vollero far coincidere assolutamente, a ogni istante, forma e sostanza, e furono spezzati e travolti”.

Una interpretazione che sembrava cogliere l’enigma weiningeriano tra Kultur e Zivilisation, ma finiva col perderne la tragica inattualità in un semplicismo filosofico che, navigando tra residui positivistici e cadute idealistiche, ignorava l’oscillazione tra parola e silenzio, tra tramonto di una ragione assoluta e caotica evidenza dei fantasmi di una ragione ormai pluralizzata. E tuttavia, noi riusciamo a comprendere forse, proprio da tale contraddittoria base interpretativa, quanto i fantasmi weiningeriani abbiano operato come oscuro limite, un inferno e una vertigine di senso, in cui, a ogni istante, rischiano di cadere tanti testi pirandelliani che corteggiano la morte e poi se ne tengono lontani scontando il riaffiorare di un disagio che non riusciva a esprimersi compiutamente, accettando il ricatto della scena o praticando suicidi reali o suicidi psicologici altrettanto micidiali.

Nel 1925 irrompono nella vita di Pirandello la dimensione materiale del teatro e la presenza folgorante dell’attrice che sembra dar corpo ai fantasmi scenici e al bisogno insieme di rêverie dell’autore, Marta Abba, scritturata come prima attrice per la stagione 1925-26 nella Compagnia del Teatro d’Arte. Rapidamente, nello spazio temporale concessomi, vorrei descrivere le ricadute teatrali di quella passione “platonica” sulle linee portanti della costruzione drammaturgica pirandelliana, che, da quell’anno in poi e fino alla morte, vede singolarmente arricchirsi la qualità cd il protagonismo del personaggio femminile. Ho parlato di “amor platonico” ricordando quanto Weininger scriveva, con tagliente perfidia, in Sesso e carattere: “L’amore ‘platonico’ esiste dunque a onta del parere contrario dei professori di psichiatria. Vorrei anzi dire: non vi è che amore platonico. Ché quello che si chiama amore altrimenti appartiene al regno dei suini. Non c’è che un amore: è quello per Beatrice, la venerazione della Madonna. Per il coito c’è la prostituta babilonica (p.222).

In quel libro, pubblicato nel 1903, Weininger, all’interno di un discorso complesso ed affascinante, disegnava il profilo di un mondo orfano dell’assoluto, in preda ormai ai fantasmi pluralizzati del negativo: tra questi, il più inquietante, risultava essere quello della maledizione femminile, presenza dell’immoralità nel regno etico dei fini. Il corpo della donna diventava così lo spazio tragico entro cui si consumava la scommessa perdente dell’assoluto e il coito celebrava, per Weininger, il momento principe dell’eteronomia, in cui la donna acquista esistenza solo facendosi oggetto sessuale per l’uomo o madre per i suoi figli, sempre lasciandosi rinviare ad altro, priva di nome, ignota, perché priva di anima e solo portatrice infetta di pluralità e contraddizione. Solo rifiutando il coito l’uomo può aspirare a redimere la donna, impedendole di realizzare la sua maledizione: paradossalmente, rispettandola come oggetto di casto culto e rifiutando il suo istintivo volgersi al piacere, l’uomo conferisce alla donna una ipotesi di riscatto metafisico, un’idea trascendentale, come dice Weininger, capace di procedere al di là della brutale eteronomia antitetica del coito. Il richiamo weiningeriano potrà risultare utile a definire i confini teatrali di praticabilità di quella “passione” pirandelliana, quando, dopo la dissociazione iniziale, largamente testimoniata dalle lettere scritte alla Abba, tra la tentazione “babilonica” e l’amore “angelicato”, interviene proprio il teatro ad incarnare, nel fantasma meno reale e più vero dell’attrice, la divina Marta (l’aggettivo è da prendersi nell’accezione “dusiana”) patrona dei teatranti.

Scrive Weininger: “…la donna vuol poter essere impudica e dall’uomo non pretende virtù, ma sensualità. Essa non ha alcuna ammirazione per i “ragazzi modello”. È invece noto che si butta nelle braccia di colui che è preceduto di lontano dalla fama di don Giovanni. La donna vuole che l’uomo sia sessuale, perché essa non acquista esistenza che per mezzo della di lui sessualità… Non trovano in fondo piacere neppure nell’amore platonico superiore dell’uomo; esso le lusinga, le accarezza, ma non dice loro nulla. Beatrice diverrebbe impaziente come Messalina, se la preghiera dinanzi alle sue ginocchia fosse troppo lunga (p.222). Il vero don Giovanni sarebbe allora, di contro alla donna, “missionaria dell’idea del coito (p.321), l’eroe casto della rinuncia all’accoppiamento, l’uomo che da don Giovanni, appunto, si muta in Parsifal, maschera teatrale di sicuro destino nell’orizzonte drammaturgico pirandelliano di cui qui ci occupiamo.

 Pirandello era già giunto, tra il 1917 ed il 1920, ad una provvisoria conclusione sull’inferno del sesso tra le pareti domestiche e gli “inconfessabili” segreti dell’alcova coniugale in una prospettiva che potrebbe richiamare in più punti le problematiche di Weininger, pur in una interpretazione particolare determinata dalla mediterraneità delle radici pirandelliane.

Vorrei solo accennare all’esempio del primo atto di Come prima, meglio di prima, opera composta, dopo alcune parziali anticipazioni narrative, in un periodo che d’Amico colloca tra il luglio 1917 ed il dicembre 1918.

Fin dalle prime autoriflessioni pirandelliane (l’autore stesso la definì commedia “spaventosa”, “lacerto vivo, sanguinante” l’accento batte sul carattere tormentoso del testo, sullo spasimo di carne viva che percorre il personaggio di Fulvia e lo rende una delle più crude testimonianze di quella guerra fra i sessi, che, numi Strindberg, Schopenauer e Weininger, affligge la sconvolta umanità primonovecentesca che affolla i testi pirandelliani.

Fulvia-Flora ha abbandonato il marito, subito dopo essere diventata madre, probabilmente per l’incapacità di tollerare quel gusto sfrenato della sessualità esibito dall’irreprensibile (in apparenza) dottor Silvio Gelli, infaticabile ed insaziabile iniziatore di Fulvia ai piaceri “proibiti” dell’alcova coniugale. E la circostanza per cui Fulvia abbandona il tetto coniugale non appena diventa madre, lascia forse pensare che Pirandello voglia sottolineare una irriducibile alterità tra moglie-amante e moglie- madre, secondo il suo consueto stacco tra tali diverse ed inconciliabili funzioni della donna. Eppure, quella misteriosa fuga (ma tutto il teatro di Pirandello è anche un noir, percorso da strane latitanze e inspiegabili, frigidi tradimenti) induce anche ad altre congetture, per esempio, si potrebbe maliziosamente pensare che Fulvia, alla rivelazione dell’inferno del sesso, mentore Silvio, reagisca come se quei “capricci” innominabili le avessero rivelato un aspetto ignoto di sé, fino ad allora coperto dalla verginità e dall’ignoranza, come se quelle pratiche sessuali l’avessero costretta a conoscersi di più ed a disprezzare, al tempo stesso, insieme al suo corpo capace di dare gioia, anche la sua stessa volontà di prendere piacere dal sesso.

Una simile rivelazione, come è noto, costituisce, per i personaggi femminili di Pirandello, qualcosa di analogo ad una condanna, può costringere a forme di autocensura non facilmente controllabili. Allora, in tal caso, non l’essere madre rappresenterebbe la causa prima della fuga di Fulvia-amante (incapace di convivere con Fulvia-madre), ma la consapevolezza di un ribrezzo e di una vergogna per il sesso che dà piacere e rivela quegli aspetti anche “bestiali” dell’accoppiamento che una tradizione ipocrita e sessuofobica considerava disdicevoli per la donna.

A mio parere, tutto il primo atto di Come prima, meglio di prima può considerarsi tra le pagine più crude scritte da Pirandello intorno alla terribile contraddizione, nel suo modo di vedere e di sentire, tra la visione della donna mediata dalle radici mediterranee e telluriche della propria tradizione culturale e le suggestioni negative (insieme, gravide, tuttavia, di futuro) che potevano derivargli dalla conoscenza di tutto un versante della cultura filosofica e teatrale dell’Europa di fine secolo diciannovesimo (Ibsen, Strindberg, Weininger) indirizzata verso una più attenta considerazione del desiderio sessuale, e, in esso, del ruolo e delle funzioni della donna.

Superando le facili accuse di misoginia, anche le posizioni di Weininger potevano essere lette da Pirandello (che conosceva quelle pagine) come drammatica conferma della scissione tra madre e prostituta, mentre una più cauta e meditata considerazione delle argomentazioni weiningeriane avrebbe forse aiutato lo scrittore siciliano a comprendere che quella lacerazione era più teorica che reale, dal momento che il filosofo lavorava proprio sulla commistione, nella realtà, di entrambi quegli aspetti.

In questo senso, Pirandello sembra quasi aver inverato, senza volerlo e forse anche senza rendersene pienamente conto, quanto affermava Weininger circa la necessità di non confondere la violenza fisica del contatto ( l’uomo) con l’ampiezza del desiderio sessuale (la donna), sicché è  la Fulvia-Flora di Come prima, meglio di prima a dimostrare, al di là del fastidioso processo di santificazione della moglie, quanto la donna desideri e quanto tenace e vincente risulti il suo progetto di libera vita dei sensi, di contro a maschi-fantocci, sostanzialmente intercambiabili, violenti forse, ma inevitabilmente perdenti di fronte alle strategie seduttive della donna, sempre. La sincerità di Fulvia è crudele e lacerante, è proprio quella “carne viva” di cui Pirandello discorreva presentando il suo testo.

E nelle profonde viscere dell’istinto sessuale femminile si cala l’altra maschera femminile che Pirandello crea per Marta, Abba, lo stupendo personaggio dell’Ignota nel Come tu mi vuoi scritto tra il 1929 ed il 1930. Perfino nel nome che non ha l’Ignota richiama il giudizio weiningeriano sulla donna priva di anima, corpo muto destinato al piacere, estranea alla lingua dei nomi in quanto pluralità contraddittoria, sempre costretta a rinviare ad altro da sé, sempre destinata ad appartenere a qualcuno (ad un uomo) per partecipare, sia pure in modo subalterno, al mondo dei nomi da cui è esclusa. Ma è anche vero che questa creatura “ignota”, questo corpo cieco ed imperfetto sembra richiamare ad altri segnali teatrali: ad esempio, la temibile Lulù di Wedekind, orribilmente violentata nella sua latente volontà di innocenza, stupratrice lei di uomini e infine fatta a pezzi da un serial killer. Per dirla con le splendide parole di Karl Kraus, Lulù è il labirinto della femminilità, “giardino nei cui sentieri intricati più di un uomo ha perso le tracce del proprio intelletto”: cosa di carne, dunque, che potrebbe riconoscere le origini della propria guerra di liberazione in Ibsen.

O, per meglio dire, nell’ossessione antimatrimoniale dei grandi personaggi femminili ibseniani, donne che intuiscono d’essere solo merce sulla scena della cerimonia borghese, donne “comprate” da uomini ricchi, talvolta depravati o soltanto vecchi (la signora Alving o Ellida): o anche personaggi che vivono, come le figurine schnitzleriane di Reigen, una certa nostalgia della virtù come malinconico congedo dalla purezza, per debito di cinismo col mondo dello scambio e del denaro. E ciò si dice per l’ansia di riscatto di cui freme l’Ignota, vittima di uno stupro di massa e pronta ad accettare il nome arabo di Elma per la liquida carica di innocenza che lo percorre tutto. La “colpa” dell’ignota è, in realtà, una violenza subita, non una scelta “viziosa”, ma un massacro compiuto sulla sua carne da soldati infoiati, “maschi” di una virilità postribolare che ha offeso e lacerato la purezza dell’istinto sessuale, degradandola a pratica “suina”, per dirla con Weininger.

 Eppure, dentro la molteplicità caotica degli accoppiamenti dell’Ignota vive l’unicità monogamica perduta della donna che si dà al solo suo uomo, la malinconica virtù negata alla vita dissociata e dilaniata della donna. Consapevole di quel che può la bestialità dell’istinto non raffrenato e dominato, l’Ignota introietta la crudeltà e la violenza esercitate su di lei e le proietta vendicativamente sul mondo dei maschi, che gode a eccitare e soddisfare, nel gusto dolciastro della sottomissione erotica.  Dietro la strategia d’attacco, si cela una trasparente e sconvolgente volontà di purezza, un sogno mediterraneo di non promiscuità e di toccante nostalgia monogamica, che spinge l’Ignota a cercare un nome al proprio corpo nell’uomo che dice di essere suo marito, convinta come è che “essere è niente! Essere è farsi!”. Vuota di tutto e soprattutto dei ricordi di una vita che l’hanno insudiciata e sconciata, l’Ignota vive per un attimo il sogno dolce e tempestoso d’essere come un uomo vuole che sia, ma pronta, insieme, a rinascere pura, al di là delle infamie e degli insulti della vita: ma la vera violenza che la sconvolge è la forza dell’interesse, del denaro, della roba e sarà la consapevolezza d’essere solo un elemento di questo gioco a convincere la donna a ritornare allo strazio berlinese, accettato e vissuto col ribrezzo e col raccapriccio di un tormento oramai inevitabile. E dunque la maschera dell’Ignota, come dice Pirandello, sembra addirittura creata da Marta prima “in me stesso e poi per gli altri, sulla scena”, come evidente proiezione di un sequestro “artistico” operato sulla vita di una donna che si può avere ormai soltanto nella sua finzione vera di creatura d’arte. Violentata dalla brutalità dei maschi, l’Ignota-Marta non può che rientrare nei confini dell’artisticità. E non può che far ritorno a Berlino, da uno “scrittore” che per lei ha tentato il suicidio (e il tema del suicidio, problematica di tutta evidenza weiningeriana, scandisce ossessivamente l’epistolario pirandelliano negli anni della passione per Marta ) e che forse ora potrà imparare che la letteratura è “cuore, sangue … fremito di nervi – di sensi”, qualcosa che nasce “da un tormento vero, da una disperazione vera, il bisogno di vendicarsi della vita com’è – come gli altri, i casi gliel’hanno fatta – creandone un’altra magari, più bella, come avrebbe dovuto essere, come avrebbe voluto averla”.

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