Camus scriveva, in polemica con Sartre (e aveva ragione Camus, questa volta, non il grande filosofo):
“Sembra che oggi scrivere una poesia sulla primavera equivalga a servire il capitalismo. Io non sono un poeta, ma se fosse bella saprei godere di un’opera simile senza riserve. Si serve l’uomo nella sua totalità o non lo si serve per nulla. E se l’uomo ha bisogno di pane e di giustizia e se si deve fare quanto occorre per soddisfare questo bisogno, egli ha anche bisogno della bellezza pura che è il pane del suo cuore. Il resto non è serio”.
Forse occorre davvero pensare agli intellettuali un po’ come a mine vaganti, naturalmente senza esplosivo. Nella loro coscienza ci sono la nobiltà dello sradicamento e talvolta dell’esilio, le istanze dei propri popoli, le sfortune e i sogni delle proprie terre, la memoria dei fatti umani impressi nelle pietre, insomma un sentire comune che cerchi di integrare e di mettere insieme (sfruttandole come risorse) circostanze che potrebbero anche condurre a conflitti armati dalla intolleranza e dalla mancanza di dialogo. La dignità dell’essere poveri (penso a gran parte dei paesi musulmani e non solo a quelli, si capisce) non deve essere mai offesa e noi italiani, che stiamo vivendo la più travolgente crisi della nostra giovane nazione, sappiamo bene che cosa significa, oggi, essere onesti e impoverirsi, di fronte alle clamorose incapacità di gestione della politica che di tutto si occupa tranne di ciò che davvero interessa agli italiani, e ai giovani in particolare, segnati da un destino di precarietà e di forte disagio (donde la fuga all’estero, per chi può, e il fallimento di un paese che forma, con grandi costi, eccellenze e le regala agli altri).
Vorrei ancora ricorrere ancora alle parole di Albert Camus:
“Se almeno si potesse vivere secondo l’onore, questa virtù degli ingiusti! Ma il nostro mondo considera oscena quella parola: aristocratico fa parte delle ingiurie letterarie e filosofiche. Io non sono aristocratico: la mia risposta sta in questo libro: qui sono i miei maestri, il mio linguaggio; ecco per mezzo loro quel che mi unisce a tutti. Eppure sì, ho bisogno di onore, perché non sono tanto grande da farne a meno!”.
Se gettiamo uno sguardo alla regione da cui provengo e in cui lavoro, credo si possa affermare che l’immagine della cultura letteraria in Puglia, tradizionalmente affidata alla solida impalcatura etica e civile del Mediterraneo dei Salvemini e dei Fiore, legata al racconto di un Mezzogiorno contadino ed arretrato(l’inferno in terra per i “cafoni” di Tommaso Fiore) e dei bagliori poetici di alcune voci disperse sul suo vasto territorio destinate a rapprendersi nel nome, sussurrato con timidezza di uno strepitoso poeta come Vittorio Bodini (proponeva Madrid come capitale del Sud) sembra destinata oggi ad una rivisitazione critica sotto l’incalzare di una riarticolazione della sua storia e della sua identità: la Puglia mette oggi in campo una dimensione di scrittura (narrativa, poetica, teatrale) legata più alle procedure artistiche del suo farsi, al suo consumo ed alla sua distribuzione sul territorio nazionale, in sintonia con gli eventi politico-sociali che la hanno resa un laboratorio Mediterraneo, superando le caratteristiche antropologiche-contadine degli anni ‘50 e ‘60. I testi letterari della nostra recente letteratura ( da Nigro a Carofiglio, da Desiati a De Cataldo, da Argentina a Di Monopoli)ci sembrano testimoniare, al di là di una semplificazione critica che vuole accreditare, nei nostri paesaggi socialmente devastati, una sorta di western all’italiana, anzi alla pugliese, in cui il pensiero meridiano rivelerebbe il suo lato oscuro, una realtà più complessa, incomprensibile senza la connessione tra pensiero meridiano e alternativa mediterranea. In realtà, come tenteremo di spiegare analizzando le questioni, il problema appare più complesso e più contraddittorio.
Del resto gli studi sull’alternativa mediterranea in campo socio
antropologico sono ricchi di suggestioni anche nel nostro più ristretto
campo di osservazione.
Per la scuola “catalana”, quiete, armonia, sensualità sono le caratteristiche del paesaggio mediterraneo che si riverberano sull’antropologia dei suoi abitanti e si oppongono all’industrialismo e al modernismo tecnologico dei barbari del Nord. Il Mediterraneo viene dunque assunto come riserva morale dell’Occidente, bacino ecologico del suo umanesimo.
Lo stereotipo di un Oriente sognatore e di un Occidente realista viene smantellato invece dal grande lavoro di Fernand Braudel, il quale valorizza il pluralismo delle fonti culturali che danno vita alla civiltà mediterranea e ne fanno una entità storica globale, caratterizzata da una struttura omogenea, coerente, originale nella quale le particolarità orografiche del clima hanno favorito la formazione di culture e sistemi commerciali in relazione tra loro. Dobbiamo anche sottolineare come il mare tra le terre (il Mediterraneo) costituisca la più grande concentrazione di beni artistici del mondo, al punto che, come sostiene Braudel, la grandezza del Mediterraneo resiste nel lungo periodo anche alla sfida dei grandi spazi oceanici. Di recente Tahar Ben Jelloun, il grande scrittore maghrebino, insignito del premio Bari 2008 per la carriera, ha dichiarato che il Mediterraneo, oltre ogni altra definizione, è soprattutto un modo di essere e di pensarsi al mondo in relazione con gli altri, circostanza che fa si che Tangeri e Bari e Brindisi presentino impressionanti analogie nel modo di vivere. Per citare un intellettuale e uno studioso tunisino, Majid El Houssi, questi affermava che c’è un Mediterraneo degli Stati e uno dei popoli: a me piace pensare che la cultura possa evitare che questa separazione diventi una frattura, una irreversibile lacerazione.
Dobbiamo imparare non solo a essere solidali (già lo siamo e tutta la nostra migliore tradizione parla di ospitalità e di rispetto verso l’altro), ma anche a usare almeno parte delle migrazioni come una utile risorsa per quei lavori che i nostri connazionali non vogliono più fare. Il settore dell’artigianato, ad esempio, potrebbe ricavare molto da una simile prospettiva. Ma, soprattutto, dobbiamo saper sfruttare quel patrimonio di cultura che ci viene dal mondo arabo-musulmano che molti studiosi considerano un pensatore mediterraneo (il senso della misura, dell’equilibrio, della prudenza, la saggezza del ragionevole contrapposta ad una visione puramente strumentale della razionalità). In questo anche una Europa capace di riprendere in mano la sua identità e una idea più equa di cittadinanza e di modernità liberandosi da quella americanizzazione che le ha impedito, finora, di guardare alle sue parentele col sud e con l’est, per la costruzione di una visione mediterranea come via europea originale verso un futuro sostenibile.
[Intervento all’incontro “Mediterraneo: opportunità o minaccia”, in occasione della VI edizione del Premio “Vincenzo Padula”, Acri, 8 novembre 2013]