Poi mi torna Alda Merini quando diceva che la follia è una delle cose più sacre che esistano sulla terra. E’ un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica. Diceva che la follia deve esistere per se stessa, perché i folli vogliono che esista. Poi penso a quel ragazzo di Marradi, internato nel manicomio di Imola a ventun anni, che aveva scritto I Canti Orfici, e alle parole di Frank Drummer, lo scemo di Spoon River, magistralmente tradotte da Fernanda Pivano: “ Da una cella a questo luogo oscuro / la morte a venticinque anni!/ la mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro,/ e il villaggio mi prese per scemo”. Poi ai girasoli di Vincent van Gogh, malato di confusione, depressione mentale, allucinazioni, che un giorno, dopo un litigio con il suo amico Gauguin, si tagliò l’orecchio sinistro e lo regalò a una puttana.
Poi a Ligabue, al suo smarrimento sconfinato, alla sua inquietudine primordiale e abissale.
Trovo una frase di Franco Basaglia che dice: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere.”
La seconda foto è di Paolo Pellegrin. Tra le migliaia di persone che il 2 aprile 2005 si ritrovano in piazza S. Pietro per rendere omaggio a Papa Wojtyła, Pellegrin scorge un volto di donna. Gli occhi neri. Lo sguardo profondo, affondato nella lontananza del pensiero. La testa inclinata. Una Madonna da dipinto del Rinascimento. E’ istintivo domandarsi a cosa stia pensando quella donna, a quali tenerezze, quali misteri. A che distanza si trovi dalla salma di Wojtyła, se l’abbia conosciuto quando viveva. Su quel volto si celano interrogativi su sentimenti indecifrati, che appartengono esclusivamente alla solitudine di quella creatura in quell’istante.
Poi l’immagine famosissima del Miliziano colpito a morte di Robert Capa. Foto famosissima e molto discussa. Si disse che si trattava di uno scatto programmato, realizzato a cinquanta chilometri di distanza dal luogo della battaglia. Qualcuno ipotizzò che, sì, il soldato fu veramente ucciso ma le circostanze non erano quelle riferite da Capa. Altri dissero che la foto fu scattata da Gerda Taro, la sua compagna. Però, alla fine, quale che sia la verità, quella foto è diventata un’icona della guerra.
Ecco. Le foto di questo libro sono frammenti della Storia del mondo. Perché, in fondo, la Storia si costruisce cercando di comporre i frammenti, tentando di dare un significato a ciascuno di essi, provando a mettere insieme i frammenti e i loro significati con l’intenzione – o l’illusione- di attribuire all’insieme un senso compiuto e complessivo. Però, poi, rimane sempre quella verità di Eugenio Montale, secondo la quale “La storia non si snoda/come una catena/di anelli ininterrotta./In ogni caso/molti anelli non tengono./La storia non contiene/ il prima e il dopo”. Allora, forse le foto di questo libro dicono che la Storia è un rovistare tra macerie di frammenti che non hanno un prima e un dopo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 29 giugno 2025]