Intervista a Raffaele Nigro

Forse esiste un modo perché giornalismo e scrittura narrativa si incontrino.

Questo è sempre stato per me un vero dilemma. Quando ero in Rai dovevo scrivere in modo tale che gli spettatori capissero ciò che raccontavo, ma in narrativa emergeva chiaramente un’idea di mondo che io mi facevo. Il giornalista deve raccontare ciò che avviene, farsi cronista degli eventi. Allora la scrittura giornalistica e narrativa erano pressoché l’una l’opposto dell’altra. Poi, con il tempo, uno si crea una propria scrittura. In realtà ho proprio provato a far confluire la scrittura giornalistica in quella narrativa attraverso una scrittura di tipo antropologico, ho intrapreso una ricerca stilistica che mi permettesse di crearmi una sorta di scrittura parlata.

Questa volta per il suo romanzo ha scelto come protagonista Marsilio Da Ponte, un pittore. Una scelta diversa dalle sue scelte precedenti.

Negli ultimi venti o trent’anni anni a me è sembrato che in ambito artistico e letterario ci sia stata una lotta degli autori per farsi accettare dal mondo. Il mondo utilizza e pratica i linguaggi della poesia, della pittura, della narrativa ma non vuole consumarli. In tv non appare mai un pittore o un poeta. Tutti i TG hanno in chiusura il lancio di un disco, o gli appuntamenti culturali sul territorio, ma raramente in tv, ad esempio a un talk show, si invita uno scrittore o un pittore o un artista. Sa quando ho visto i primi libri in tv? Durante il covid, perché specialisti e professori invitati a parlare avevano dietro di sé scaffali carichi di libri. Prima del covid non si vedevano più libri in tv, la gente si era scordata che forma avessero. E poi ne “Il dono dell’amore” c’è un altro evento epocale: l’arrivo dei migranti nel Mediterraneo che ha cambiato la nostra realtà. I giovani africani arrivano alle nostre coste e i nostri giovani fuggono verso il nord. E questo non può che provocare un cambiamento epocale.

In questo romanzo sembra sia stata disegnata una carta, geografica e sentimentale, del Mediterraneo, fino a sconfinare nell’India. Sembra che questi luoghi abbiano qualcosa in comune e allo stesso tempo siano tra loro profondamente diversi.

In un Occidente in cui l’arte perde l’interesse degli uomini, questi intellettuali che si chiedono “Ma di noi, che sarà?” vanno a cercare un mondo altrove. Così pensano alla fuga. Ad aiutarli ci sarà un armatore greco, una sorta di imprenditore illuminato che li rassicura: esisterà un altro luogo in cui i pittori possono ancora essere amati. Si mettono tutti in viaggio su una nave e giungono in India, dove poter creare un museo enorme per chi voglia godere di quell’arte. Cosi prende forma il progetto di Michele Damiani che cerca Samarcanda o quello di Beppe Labianca che cerca l’infinito altrove. Tra le tappe di questo viaggio, gli artisti giungono in Marocco dove le opere d’arte vengono distrutte. Ma cosa è peggio? Il fondamentalismo che distrugge l’arte o l’eccessiva libertà di chi l’arte l’ha abbandonata? Il risultato di quella resa, di quell’abbandono è la morte della finezza in una ricerca del materiale, la perdita di profondità in un inseguimento dell’apparire.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 27 giugno 2025]

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