Dei due distinti significati che il termine «humanitas» ha avuto nell’uso, quello del linguaggio colto di «educazione letteraria, filosofica ed artistica» quale prerogativa che distingue l’uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi, e l’altro più comunemente divulgato di «benevolenza» corrispondente a «philantropia» dei greci, Ottorino Specchia, pur tenendo presente il primo, ha privilegiato il secondo con i suoi valori di cortesia, gentilezza, mitezza d’animo e comprensione umana, vale a dire una realtà ideale che ha il suo retroterra culturale nella lingua e nella civiltà greca in cui egli si è immerso e riconosciuto, sicché Greco e Latino stanno alle radici della cultura europea.
E dai canti di Omero, cioè dalla sola poesia e dalla sola storia che hanno educato la gioventù greca, la cultura classica di Ottorino Specchia ha tratto principio, alimento e vigore, in particolare dall’«Odissea» che, tra i due poemi, presenta una più ricca invenzione ed un più largo dominio del fantastico e rispecchia con le doti di pazienza e di tenacia l’ideale jonico di umanità di Odisseo che false etimologie popolari spiegano come derivato da «odussomai» nel senso di odiato e perseguitato dagli dei e perciò paziente.
Ed il grecista si è fatto interprete della parola poetica di Omero come valore autonomo ed assoluto tale da far divenire la letteratura memoria del passato ed elemento primo dell’esperienza artistica, col sobrio commento del settimo libro dell’Odissea il quale, pubblicato da Vallecchi nel 1954, prolunga l’incontro di Ulisse con Nausica e narra l’arrivo dell’eroe alla reggia di Alcinoo. In diversi luoghi del libro si rinvengono rinvii ed approcci, come per esempio dai vv. 112-132 ad Orazio di «Odi». II, 6, 17 sgg. ed anche alla «Gerusalemme Liberata» del Tasso C. XVI, 10-11 per il giardino di Armida a proposito del giardino di Alcinoo, e sempre dal L. VII, 240-242 dell’«Odissea», per la risposta di Ulisse alla regina Arete, a Virgilio, «Eneide», L. II, 4 ed a Dante, «Inferno» C. 33,vv. 4-6 per la risposta rispettivamente di Enea a Didone e di Ugolino a Dante.
Si è che l’humanitas di Ottorino Specchia ripete da Omero la sua origine, perché in Omero si riassorbe la storia, la filosofia e l’eloquenza della letteratura universale. D’altra parte gli scritti e gli studi pubblicati su «Atene e Roma», su «Cultura e scuola» e sulla «Rivista di filologia classica» diretta da Augusto Rostagni (quando dopo la morte di questi la direzione passa al professor Maddalena, gli scritti di Specchia con grande rammarico dell’interessato non compaiono più sulla rivista), sintetizzano l’approccio dello studioso ad un momento, dopo quello di Omero, in cui si riflette nella letteratura una nuova dimensione universale dell’uomo greco: l’Ellenismo.
Sono scritti su Apollonio Rodio, su Leonida di Taranto e sulla poetessa Nosside di Locri Epizefiria ed il mimografo Eroda e si caratterizzano per il corredo di un’inusuale ricchezza bibliografica e perché denunciano il privilegio per una letteratura artistica fondata su un’alta selezione dei mezzi espressivi e per un concetto di poesia che rimuove la censura dei valori collettivi e si rivolge, per così dire, ad iniziati. In quest’area si iscrive la riflessione dello studioso sul genere letterario dell’epigramma che respinge la vuota facilità e l’improvvisazione del verseggiatore e stimola invece la mente a laboriosamente indugiare e cercare con senso di responsabilità artistica l’espressione più adatta all’intima immagine ed alla conquista della libera individualità interiore. Ed il grecista sente vibrare nell’epigramma, per il fatto che esso fonde in unità artistica l’eros alessandrino, il senso di una realtà essenziale per l’esperienza umana, vale a dire una nuova dimensione dell’amore che inclina l’individuo verso i chiusi recinti della vita privata e verso l’intimità della coscienza e della meditazione. È la nuova dimensione universale della poesia.
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Ottorino Specchia in seguito a questi studi si caratterizza per un maggiore approfondimento nella luce dello spirito e per un suo avanzamento intellettuale che non può non avere i suoi riflessi nella realtà contemporanea. Vengono così alla luce alcuni aspetti di modernità dell’uomo che possono concretizzarsi in una prospettiva ideologica.
In un uomo di scuola, che per di più inizia il suo magistero docente in un momento della vita della nazione in cui mutano radicalmente all’inizio degli anni Quaranta lo spirito e le condizioni istituzionali, questa prospettiva non può che modellarsi nell’ambito della scuola medesima. Ed Ottorino Specchia è stato uno dei pochissimi uomini di scuola, tra quelli che noi abbiamo conosciuto in tutti i gradi dell’insegnamento, che abbia riflettuto sul dominio della nostra istituzione scolastica di forze conservatrici e retrograde, che sono invece state paghe del l’assetto attuale della società come perfetto e definitivo piuttosto che stato transitorio verso una meta di rinnovamento dell’evoluzione umana. E convinto, com’egli è stato, che l’ignoranza è la tara che neutralizza e presto annulla le doti particolarissime di intelligenza e di civiltà del nostro popolo, ha lottato come meglio ha potuto per impedire che la nostra cultura, vogliamo dire in particolare la cultura della nostra provincia, continuasse a stagnare su vecchie posizioni. E per esempio non è mai andato d’accordo con quanti hanno demagogicamente propagandato scuole di carattere popolare le quali hanno avuto sempre base antidemocratica in quanto hanno presupposto istituti popolari riservati a categorie o ceti privilegiati.
E quando al declinare degli anni Quaranta si è combattuta in Italia la battaglia per il Latino, noi ricordiamo che egli è stato dalla parte di quelli che hanno voluto risuscitare la lingua latina nelle nostre scuole classiche, partendo dal convincimento che il Latino vivo è quello che parliamo noi oggi, il nostro volgare, e tuttavia chi voglia adoperare il Latino di un tempo, deve ripensare in esso i propri pensieri, e noi abbiamo dato all’inizio di questo scritto alcuni esempi atti a documentare come Ottorino Specchia abbia saputo piegare il Latino all’uso di una lingua viva e parlata per esprimere il proprio pensiero, esprimendo attraverso di esso compiutamente se stesso, quando questo pensiero è vivo ed originale.
Ed in lui un principio è stato perentorio e fermo: la difesa della scuola di Stato quale sbocco di un processo evolutivo di una scuola che in Grecia ed in Roma, in tempi di florida civiltà, ha visto i giovani dapprima raccolti intorno ai più grandi maestri di scienza, di filosofia e di retorica e dopo questo tirocinio ed esperienza ha richiamato l’attenzione dello Stato attraverso il quale essa ha acquistato sempre più stabilità ed universalità. Ciò comporta che l’educazione impartita dallo Stato democratico non deve dare una scelta bell’e fatta ed un giudizio bell’e formato, bensì la possibilità di una scelta e la capacità di un giudizio. E noi siamo testimoni che a questi principi l’uomo si è ispirato come docente e come preside nei licei e come ispettore centrale alla fine della sua carriera, sforzandosi di studiare i problemi della società, di intuire l’evolversi del mondo e di sentire i bisogni degli allievi, qual sia stata la loro classe sociale di appartenenza. Un modo insomma di essere «scholasticus» originale e pratico al tempo stesso, così da organizzare nel Liceo incontri culturali di alto livello (per esempio una conferenza di Bruno Gentili sull’Ellenismo, un corso di lezioni di Antonio Traglia sulla commedia di Plauto, una lezione di Mario Marti su Leopardi e di Donato Valli su Montale, ed inoltre l’ascolto da parte degli allievi dell’ultimo intervento pubblico di Pier Paolo Pasolini dieci giorni prima della morte registrato su nastro al Liceo Palmieri di Lecce sul tema «De vulgari eloquio»), incontri culturali che sono stati occasione di aggiornamento e di arricchimento per i docenti, ma hanno soprattutto avuto il fine pratico di portare gli allievi, e specialmente quelli dell’ultima classe di liceo, ad una sfera di coscienza superiore del sapere ed a motivi di interesse e di impegno più completi nella prospettiva degli studi accademici successivi. E tutto senza rinunciare mai all’uso di inconsuete raffinatezze per cui sia nella conversazione quotidiana sia nella discussione dotta, un dettaglio od un episodio od un indizio minuscolo e delicato sono stati occasione di filtro di un atteggiamento intellettualistico che tuttavia non ha alterato la mitezza del carattere del nostro amico.
E può apparire una strana coincidenza, ma noi ci vediamo una dimensione umana significativa, che l’ultimo suo brevissimo scritto a nostra conoscenza sia stata la presentazione di una pagina di un altro mite uomo di lettere della nostra terra, Michele Saponaro di San Cesario, apparsa sul primo numero del 1990 de «Provincia di Lecce» che si pubblica con mutabile periodicità a Galatina. È una pagina in cui Saponaro sembra attingere un’esigua vena di diarismo autobiografico alla linfa lirica leopardiana, e attraverso il leopardismo noi sentiamo che riemerge lo spirito e il profumo della provincia.
Ottorino Specchia e Michele Saponaro: due intellettuali di quella ideale provincia italiana, e meridionale in ispecie che, costretta a fare i conti con se stessa e con la sua secolare cultura, è paradossalmente stimolata ad ampliare i propri orizzonti spirituali e perciò diviene mezzo idoneo a capire ed a far capire la condizione permanente ed universale dell’uomo.

[“Quotidiano” di giovedì 6 settembre 1990; l’articolo, intitolato Un epigono grecista, reca come soprattitolo L’eredità di Ottorino Specchia a tre anni dalla sua scomparsa: in realtà il grecista era morto il 10 agosto 1990, e l’articolo era stato inviato per il trigesimo della scomparsa, come racconto in Un libro in memoria di Ottorino Specchia. Gianluca Virgilio].