Trisolino non è solo un poeta che ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti in molti premi letterari ( tra cui, nel 1996, il Premio nazionale di poesia intitolato a “Vittorio Bodini”), ma un valente saggista, un pubblicista che ha scritto molto, con una lunga militanza nella Scuola e nell’associazionismo culturale e nella vita politica della sua città, Francavilla Fontana.
Nei suoi interventi critici ( quattro volumi prefati da studiosi di livello come Romano Luperini, Pasquale Voza, Mario Marti e anche il sottoscritto) è stata concordemente sottolineata la sua esigenza di capire e di conoscere e l’affacciarsi continuo di un atto interpretativo di tipo dialogico ed ermeneutico, qualità che si diffondono anche sullo sguardo rivolto alla letteratura regionale perlustrata, al di là di ogni chiusura municipalistica, come bisogno concreto di comunità. Nel libro pubblicato da Manni nel 2002, viene riportata una lettera scritta a Trisolino dallo scrittore sardo Giuseppe Dessì in cui Dessì scrive che ogni artista deve essere spinto da un’intima necessità di scrivere e di esprimere certe cose e nessuna autorità può interferire nel suo lavoro. Dice: “ sono e resterò sempre un uomo libero”. Parole importanti e pesanti, perché pronunciate da un uomo che apparteneva al partito comunista e che conosceva bene e la celebre polemica Togliatti-Vittorini e la stessa ideologia marxista che oggi si tende, con inaccettabile semplicismo da analfabeti, a considerare un impaccio di altre epoche. Ma in quel libro emerge anche l’importanza, per Trisolino, della figura di un uomo onesto, morto in povertà, come Vittore Fiore, senza prebende e senza vitalizi di casta, un meridionalista della razza di Dorso, con cui condivideva l’idea di un “Nuovo Risorgimento” per educare la coscienza nazionale degli italiani, un intellettuale di cui il salentino Macrì descriveva il segno della speranza, ma sul filo della disperazione e della follia. Vittore aveva capito (lo scrive lapidariamente in una poesia intitolata Compagni, chi siete?) che sarebbe venuto il tempo dei feudatari pecuniosi, col volto truccato, pronti a stringere patti coi falsi novatori cui bisognava rispondere, appunto, con un rinnovato lavoro sulle coscienze, senza perdere le speranze. E con Vittore Fiore nasceva spontaneo il contatto culturale col sindaco poeta contadino Rocco Scotellaro, col magistero europeo di Bodini, con tutta una linea poetica che con Quasimodo e Gatti aveva saputo farsi interprete, come avverrà poi con Sciascia e Pasolini, di una coscienza morale e intellettuale che non aveva paura a misurarsi con tutti, in nome della libertà e della verità. Cose che paiono d’altri tempi, se misurata con la degradante miseria del presente. E devo anche citare, perché è capitato a me di occuparmene direttamente, lo studio attento sul testo teatrale Nniccu Furcedda di Gerolamo Bax cui Trisolino ha prestato la sua vivace e documentata conoscenza del vernacolo francavillese riversata nelle ricchissime note che accompagnano il testo di Bax rendendolo fruibile anche a chi non sia francavillese. Eppure, senza questa premessa, nulla si capirebbe della attività poetica di Trisolino, giunta ormai alla terza o alla quarta raccolta, ce lo dirà egli stesso, visto che a me consta che questa sia forse la sua quarta silloge stampata.
Nelle sue precedenti raccolte, ad esempio nella silloge pubblicata da Lacaita nel 1987 ( La cravatta di Stolypin), i suoi versi erano una sorta di macchina bellica contro le immagini di un Sud propagandate da un falso meridionalismo, contro le stupidaggini da cartolina di un Sud calligrafico e perfino di un Sud archetipico che, in una interpretazione sciatta del levismo (ma non di Levi), veniva dipinto come un paese che difendeva la sua arretratezza con piglio da crociata. Quei versi cantavano una battaglia civile, condotta con aggressività, in un prevalente tono volutamente narrativo. La raccolta Nomi di donna (1992) invece appare una sorta di viaggio poetico che vira alla ricerca di emblemi sentimentali, segnati dalla malinconia, attraverso il sapiente uso dell’iperbato, della metonimia e della sineddoche, in uno sforzo stilistico che si adegua alla levità del tessuto tematico. La terza, Il giovane clochard (1996), coniuga un po’ tutte le corde della vena poetica di Trisolino: temi esistenziali, riflessioni ironiche sulla condizione dell’uomo moderno come essere umano e anche come poeta, il senso del tempo, del male, dell’assurdo, della malattia e della memoria. Qui credo che stia un possibile rapporto con la raccolta che ho il piacere di presentare stasera: il poeta avverte di star vagando in un mare magnum di una modernità confusa e disorientata, di cui occorre trovare una rappresentazione emblematicamente poetica.
Vediamo ora come il poeta ha costruito il suo nuovo libro. Odio Ménière è diviso in cinque parti. La prima ( Amore in cinque tempi) si apre con una dichiarazione d’amore piena di pudore e di solenni patti con cui sfidare un mondo “infido”: complicità segrete, parole solo alluse, promesse sussurrate, espressioni verbali come amuleti preziosi circondano un amore che è ragione di sempre rinascenti speranze, una positività certa in un universo umano che brucia con insensatezza sogni e illusioni. Potrebbe sembrare una poesia ripiegata sul privato, ma è solo una pausa di concentrazione per un guerriero pronto a scendere in lotta contro le contraddizioni del mondo, tanto vero che il verso conclusivo della composizione da cui prende il titolo la prima parte, riprende tanto le speranze quanto le illusioni, segno evidente di una loro ancor viva carica dinamica. L’amore, per il poeta, fa rima con pudore, si nutre di quotidianità e di gesti apparentemente privi di enfasi erotica, è una celebrazione della coniugalità come rito e come valore,, una rivincita della discrezione sulla plateale esibizione del gossip, segnata dalla lista della spesa e dai talismani custoditi in cassetti che appaiono, a riaprirli, scrigni segreti dove la vita acquista davvero senso e si costringe a considerare la rapina del tempo e insieme la resistente forza di qualche vecchia foto che spunta fuori da album dimenticati che solo l’occhio del poeta, alla ricerca dell’anima delle cose, riesce a cogliere dentro un affastellarsi di emozioni e immagini. E possono essere capelli ramati e unghie di color pastello, felicità improvvise e subitanei palpiti del cuore nella geometrica perfezione di una strategia di ragno che designa trappole e calchi di una vita, mentre si avverte, nella consapevolezza di un autunno che ormai inclina verso l’affondo senile, la luminosa gioia primaverile che solo gli occhi di una donna innamorata sanno concedere, quella donna con cui si è scelto di vivere la sfida al vuoto che la sfalda, pronto all’ultimo agguato.
La seconda sezione ( Salento flagellato ) cambia tono e si avvolge in una spirale bodiniana di colori e sapori che poi inclinano verso una articolata invettiva che colpisce l’uso turistico e commerciale di una terra che appare un concentrato di contraddizioni che tendono a definire l’immagine finale di un Salento flagellato e adunco, allampanato e negato nelle sue profondi radici: E qui segnalo l’intensa bellezza della composizione intitolata Ritorna in quest’angolo di Salento, in cui l’esplicito richiama intertestuale a Bodini ( affidato al gioco delle ombre che si allungano e al respiro dell’azzurro, alle parole d’amore nascoste sotto pietre e zecche zolle) si allarga in direzione di un nerudiano canto generale sulla citronella e sul rosmarino, sul limone dell’orto e sul basilico come resistenti emblemi di una volontà poetica che rifiuta di piegarsi alla febbrile e convulsa vita di città in cui l’inverno sembra non passare mai.
La sezione mediana (Poesie alla macchia) propone una riflessione sul mestiere di poeta nel quale, a mio parere, potremmo anche scorgere un rapporto simile a quello che Cesare Pavese aveva stabilito con le parole, i ferri del mestiere, li chiamava, in altri termini la responsabilità civile del poeta e la sua comunicazione col fruitore-lettore. Seguendo il filo delle pagine di Trisolino, dapprima il poeta cerca parole sfuggite alla penna di altri poeti, parole vecchie e nuove che non hanno mai conquistato lo spazio bianco della pagina, parole nascoste e profonde, sepolte nel buio delle menti. Avremmo bisogno di un fiume in piena, ma oggi dobbiamo accontentarci di un rigagnolo, segno che la poesia stessa è in secca, in crisi di ascolto, soffre di paralisi creativa. Subentra poi il mestiere del poeta a corto di parole e la ricerca accanita di senso diventa caccia affannosa al frammento, a un qualsiasi pezzo di carta, per piccolo e inutile che sia. Le stentate sillabe si fanno, a poco a poco, un tesoretto simile a chicchi di grano che il tempo, forse, trasformerà in verdi foglie, pegno di umile offerta per il paziente lettore. La libertà del poeta, che costruisce, mattone dopo mattone, la sua promessa di cielo e di infinito sottolinea, infine, quel che dicevo prima: senza sogni non si cambia nulla nel mondo del fare, ora che anche la conoscenza è stata aziendalizzata e la scuola del fare senza sapere spinge alla macchia la poesia, ben consapevole che il suo destino potrebbe essere la marginalizzazione, oggi che quasi tutto viene confusamente gridato in un talk show.
Dopo questa sezione incontriamo quella più corposa da cui trae il titolo l’intera raccolta ( Odio Ménière ), probabilmente ricordando uno studioso francese, Prosper Ménière, cui si debbono, nel 1861, le ricerche sul fenomeno delle vertigini e degli acufeni ovvero una sindrome che può procurare l’anomalia dell’orecchio interno e altri disturbi, ma qui Trisolino, come vedremo, intende altro, vale a dire una sorta di percezione di un mondo sul punto di precipitare, vertigini e allucinazioni acustiche che servono a definire il profilo magmatico di un mondo in cui sembrano scomparire parole percepibili e dialoghi credibili, un pianeta disumanizzato e robotizzato dove anche le superstiti emozioni dell’amore si configurano come insopportabili fatiche.
In tale insolvibile e infernale rebus, la condizione del poeta si fa confusa e approssimativa, perfino i rapporti personali vengono ridotti a esili richiami, in un fiume di assordanti frastuoni e di immagini ormai del tutto simili a slogan o spot commerciali, tutti segnali, forse, di un prossimo diluvio, se contasse davvero la pazienza agli sgoccioli di un dio.
Tutto, in tale paesaggio, si fa presagio di assenza, processo dissolutivo dell’essenza, menzognero incubo che attenta alla bellezza. Anche la politica come speranza di mutamento è parte di tale catastrofe: Confindustria e sinistra governativa si scambiano parti e parole d’ordine, in un vangelo di rassegnazione e di squillante ingiustizia sociale. Il poeta avverte il pericolo reale di un colossale fraintendimento se quelli che dovrebbero rovesciare un breviario di falsità e di inganni si fanno banditori essi stessi di un libro di sogni ridotti ormai a brandelli.
Anche l’immigrazione, l’ulissismo di massa, come lo definisce con eleganza letteraria che si rovescia in corrosiva ironia Trisolino, viene colta dall’occhio del poeta come parodico riferimento amarissimo all’abbigliamento casual degli immigrati “nel senso banale di casuale”, rovesciando la citazione fashion inglese nel nostro ormai bistrattato e colonizzato italiano. Quei disperati sembrano gente uscita di casa per cercare qualcosa dai vicini, come in molti dei nostri paesi si usa ancora e sorpresi all’improvviso da una disgrazia che li ha costretti a fuggire così come si trovavano vestiti. Il pensiero del poeta non può non correre da questi “demitizzati ulissidi di massa” ai nostri emigrati di due secoli o appena di qualche ventennio prima, con la differenza che questi esodi di massa dei nostri giorni quasi mai prevedono un ritorno e i loro stessi volti denunciano una rassegnata disperazione: Così il poeta, mentre riconferma il suo sguardo insieme emozionato ma anche conoscitivo, allunga lo sguardo verso i drammi di una contemporaneità spietata e crudele che sta precipitando il nostro paese nella mancanza di solidarietà e in braccio ai populismi.
Qui il sarcasmo e l’ironia la fanno da padroni nelle pagine poetiche di Trisolino, come nelle composizioni in cui parla della nostra Costituzione e delle stranezze lessicali, come nel caso del termine “compagni” che oggi pare solo riferirsi a “quelli che giacciono sotto le medesime lenzuola”.
Qui Trisolino ci regala anche un po’ della sua autobiografia politica, quando ci parla del suo ’68, con Marx, Marcuse e don Milani, il fascino del Che e la sua rivoluzione, di cui già faceva parte il rifiuto della massificazione.
La silloge si chiude con una sezione (Esergo per una madre e per un figlio) che ci riporta non solo alla cifra intima, ma ad un intreccio forte tra pubblico e privato: l’incontro con la madre genera l’incredulità nella morte come scomparsa e la sensazione che non ci sia spazio per i morti nelle ore dei vivi, non certo nei cimiteri o in foto sbiadite dallo scorrere impietoso degli anni. I morti sono vivi nei nostri ricordi e nei giochi crudeli della memoria e la raccolta si conclude con una bellissima lettera a un figlio, in cui l’immagine dei genitori ritorna a dettare inquietanti segnali sullo stato attuale delle cose, dominate dalle macerie di un pensiero politico che non è stato capace di farsi azione concreta contro la corruzione e l’ingiustizia, contro i ladri in auto blu che giocano con la miseria altrui.
Eppure, da un panorama così desolato, non si leva, sul finale, una voce di sconforto, ma una invocazione di speranza. I figli possono, se vogliono e se sanno essere uniti e concordi, ripulire le macerie e progettare una nuova primavera, forse una nuova formulazione di quella “rossa primavera” che si auguravano i loro nonni e i loro padri, quelli della Resistenza e della nostra splendida Costituzione repubblicana e i vecchi-giovani del ’68, orgogliosamente rivendicato non come camera di incubazione del terrorismo, ma delusa speranza di una autentica democrazia.
Questa silloge conferma Dino Trisolino come una delle voci poetiche più interessanti del nostro panorama letterario, ma ci attesta anche l’attualità di quanto affermava un nostro grande autore, Mario Luzi : “ La poesia aggiunge vita alla vita”.