L’algebra lampedusiana nel museo delle cere

di Ettore Catalano

La scelta narrativa di Nigro si è sempre distinta, all’interno delle strategie letterarie italiane, per la sua testarda e motivata convinzione circa le qualità che io definisco “conoscitive” della scrittura stessa: quella poetica insieme metaletteraria e epica che, dalla recuperata e insieme distanziata oralità della cultura contadina, passando attraverso il barocco meridionale, la riflessione sull’occidentalismo imperfetto, la riscrittura dei modelli europei e “sudamericani” (ma non si dimentichi l’esemplarità del dialogo comunicante di Dostoevskij) gli faceva scrivere in Viaggio a Salamanca (2001) che la scrittura non poteva essere che mezzo per investigare l’invisibile,  volontà di “impegno” e di lotta. E tale scelta strategica ha sempre differenziato la scrittura narrativa di Nigro dall’autoreferenzialità consolatoria o dal rifugio in una letteratura di genere (non certo quella alla Vàzquez Montalbàn, alla Markaris, alla Izzo, alla Camilleri) capace di fare vendita, lasciando a pancia piena e soddisfatta il lettore. Il discrimine è sempre stato questo concetto e l’ultimo romanzo pubblicato da Rizzoli nel 2013 Il custode del museo delle cere, pubblicato da Rizzoli, si muove in tale direzione, lasciando convivere la strategia metaletteraria e il respiro epico in una compagine di più distesa e agile narratività, ricca di scelte linguistiche concretamente efficaci nel loro ruvido corpo a corpo col parlato.

Su una trama costruita a incastri e rinvii, il tema delle generazioni che si avvicendano e del tempo che scorre “come un cavallo imbizzarrito” si avvita intorno ad un misterioso e affascinante museo delle cere in cui personaggi storici si avvicendano a narrare l’attimo segreto delle loro scelte, l’algebra lampedusiana della loro esistenza,giacché la scrittura è memoria, come insegna Borges.

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