di Antonio Prete

[Riportiamo di seguito l’incipit della Prolusione al XVI Convegno internazionale del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Recanati, 22 ottobre 2025]
Accade che un’opera, lungo gli anni, diventi come un Libro d’ore: fonte assidua di pensieri e di meditazione. Nei suoi margini si possono scorgere, come in un cono d’ombra, le stagioni della propria vita. Accade – a me è accaduto, ad altri sarà accaduto – che le Operette morali si trasformino in un liber vitae.
Sulla soglia di un Convegno in cui le Operette saranno interrogate con intelligenza e passione da più voci, cercherò di sorvegliare la pulsione a sostare soltanto in qualcuna di esse, tra le sue meraviglie, per indugiare invece, seppur brevemente, dinanzi al prisma del libro. Un prisma le cui rifrazioni – lingua, figure filosofiche e antropologiche, invenzioni affabulatorie e teatrali – hanno tra loro inattese, lampeggianti, corrispondenze.
Il “morali” dell’intestazione dissipa subito la sua gravità: mentre accoglie echi della sapienza antica – non solo da Isocrate o Epitteto allusi nel titolo stesso – sembra attingere un timbro antifrastico. È infatti a un’altra morale che il titolo allude, del tutto in scarto con la morale acquietante e fiduciosa del secolo. Una morale che, nell’equilibrio tra disincanto e compassione, tra disillusione e cura del visibile, ha nel poetico il suo annuncio, la sua trasgressiva figurazione. È il poetico di cui dice Eleandro rivolto a Timandro, in un passaggio che è una sorta di mise-en-abyme delle stesse Operette: “Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi”.





























































