di Antonio Errico

Il primo di novembre del Settantacinque veniva di sabato. Pasolini pranzò in casa con la madre. La sera andò a cena al Tiburtino. All’alba il suo corpo straziato fu ritrovato in uno sterrato dalle parti dell’Idroscalo di Ostia. Riposa nel cimitero di Casarsa, in Friuli, il paese di sua madre. Lì era cominciata la sua vita e la sua opera, con un libro in lingua dialettale, Poesie a Casarsa, pubblicato quando aveva vent’anni, a sue spese. Un giorno ricevette una cartolina postale in cui Gianfranco Contini scriveva che il libro gli era piaciuto. La recensione uscì il 24 aprile del ’43 sul “Corriere del Ticino”. Contini scriveva che basta soltanto raffigurarsi il mondo poetico di Pasolini per rendersi conto dello scandalo che esso introduce negli annali della letteratura dialettale, “posto sempre che questa categoria abbia ragion d’essere”. Se si dovesse, per non so quale disgraziata imposizione, scegliere di salvare una parte, soltanto una parte, di tutta la sua opera, io non salverei i film, né i romanzi; salverei la sua poesia. Un altro salverebbe i romanzi, probabilmente; un altro i film; un altro ancora gli articoli sui giornali. Pasolini appartiene a ciascuno in diverso modo, per diverso motivo.
Io salverei la sua poesia perché è quella parte dell’opera che più di ogni altra mostra la sofferenza di una creatura, i suoi stupori, i suoi trasalimenti, l’inquietudine e la tenerezza, i suoi sensi di colpa e le sue dichiarazioni d’innocenza, il suo istinto di sopravvivenza, lo sforzo di comprendere quello che le accade intorno, dentro, nella profondità del sentimento e del pensiero. Se si dovesse usare un aggettivo per la poesia di Pasolini si potrebbe dire così: sincera. Perché esiste la poesia sincera e quella bugiarda. La poesia bugiarda è quella dell’artificio formale. Pasolini ricercava la forma senza mai cedere una sola sillaba alla seduzione dell’artificio.





























































