I resti di Babele 51. Pasolini, la poesia sincera e autenticamente civile

Disse Cesare Garboli che è assai difficile pensare a quella poesia con un sospetto di falso. Tutto è in lui sincero, di moneta se non nuova di zecca, sempre sonante. Pasolini dice sempre la verità, talvolta anche diffondendo un arcano terrore di essere vivi: “quasi che vivere sia aggirarsi in un regno di dannazione sotterranea, da antica galera, ma inondata di una solarità intollerabile e smoderata”. Spesso è una poesia d’impulso, generata da un convergere e contrastarsi di ideologie e passioni, da narcisismo e altruismo, da sentimenti contrapposti, sempre comunque tesa allo scardinamento di qualsiasi accademismo, conformismo, convenzionalità linguistica, stilistica. Nell’opinione comune, Pasolini è stato il poeta maledetto, l’esteta scandaloso, l’intellettuale che si contraddiceva, politicamente ambiguo e scorretto, il sacerdote di un passato irrimediabilmente finito, il corsaro che faceva paura con le incursioni sui giornali. Pochi si sono soffermati a valutare che Pasolini è stato, come diceva Moravia, l’unico poeta civile italiano venuto dopo Foscolo, e uno dei più grandi del suo secolo.

Pasolini, poeta civile, ha amato l’Italia. Anche quando le strappava le vesti di dosso per mostrarla nuda nei suoi vizi, nei suoi disvalori. Forse soprattutto in quelle circostanze.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, giovedì 30 ottobre 2025]

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