1) Non accrescono l’occupazione, anzi tendono a generare aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accresce l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alle imprese di recuperare competitività attraverso la compressione dei costi, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro. In tal senso, le misure finalizzate alla diffusione del lavoro a tempo determinato hanno incentivato una specializzazione produttiva in settori a basso valore aggiunto. Nel periodo 1995-2022, su fonte ISTAT, il tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia si è attestato a un modesto 0.4%, inferiore alla media europea e di gran lunga inferiore al valore registrato nei decenni precedenti. La precarizzazione del lavoro, inoltre, in quanto indebolisce i legami di solidarietà fra lavoratori, riduce la partecipazione al sindacato, con effetti di segno negativo sul potere contrattuale dei lavoratori, attivando una spirale perversa per la quale al crescere della precarietà del lavoro, si riduce la capacità negoziale del lavoro e ciò rende possibile ulteriori misure di precarizzazione. Su fonte ISTAT, a giugno 2025 i salari reali si sono ridotti del 9% rispetto al 2021, con un divario cumulato nell’ultimo triennio di elevata inflazione (8.7% nel 2022 e 5.9% nel 2023) di oltre 13 punti percentuali. La Fondazione Di Vittorio stima un’incidenza pari al 30% di contratti precari nel nostro Paese. Il peso degli occupati “standard” (dipendenti a tempo indeterminato full-time) sul totale dipendenti è diminuito dal 78% del 2004 al 72% del 2024. Si calcola anche che il lavoro precario è in continua crescita: l’incidenza dei contratti di lavoro a tempo determinato è aumentata dal 19% nel 2004 a oltre il 30% nel 2024.
2) La precarizzazione del lavoro accresce le diseguaglianze. Su fonte ISTAT, si stima che l’indice di Gini in Italia – l’indicatore più diffusamente utilizzato per misurare le diseguaglianze – è pari a 46,48% a fronte del 29.6% della media europea nel 2024. l’Italia è collocata fra i primi posti fra i Paesi OCSE (dopo USA e Spagna) per diseguaglianze di reddito, In più, come rilevato da indagini condotte dalla Banca d’Italia, i differenziali salariali, nel nostro Paese, risultano molto elevati, a danno soprattutto dei giovani – maggiormente esposti alla flessibilità contrattuale – delle donne (in quest’ultimo caso, per l’elevato ricorso al part-time) e del lavoro poco qualificato. La platea dei lavoratori poveri è in continuo aumento (riguarda circa 2.4 milioni di individui) e il fenomeno – che riguarda soprattutto i giovani, le donne e i lavoratori meno istruiti – è strettamente correlato con la diffusione di contratti a tempo determinato.
Motivate con la retorica per la quale – come ebbe a dire Mario Monti – “il posto fisso è monotono”, le politiche di precarizzazione del lavoro hanno avuto come fondamentale obiettivo quello di consentire alla gran parte delle nostre imprese – nell’assenza di politiche industriali e finalizzate a favorire la crescita della produttività del lavoro tramite innovazioni – di competere mediante la moderazione salariale, assecondando un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni.
[“Domani”, 31 ottobre 2025]





























































