La stesura dei testi che confluiscono nell’edizione di Vite barocche avvenne in un tempo in cui il Sud e il Salento non erano ancora stati esplorati dalla narrazione cinematografica, e avviene proprio nello stesso anno della spedizione di Ernesto De Martino. L’etnologo, autore de La terra del rimorso (1961), aveva accettato di collaborare con i due autori per alcune scene ritraenti due figure del folklore locale: le prefiche e i tarantolati. La trama prende avvio nella “scura afa della notte senza luna”, in cui si aggira una giovane brigata di giovani sfaccendati appartenenti alla piccola borghesia cittadina: “i dritti”. I loro passi sono scanditi da un incedere lento: la città si presenta come uno “scenario di case basse, dal profilo diseguale”. È il campo in cui prosperano le artificiose forme del Barocco, trasfigurazioni di tufo di sagome rassegnate e inermi rispetto all’accadere. In un tessuto sociale che vive di un’economia essenzialmente agricola, la contesa è tra proprietari, contadini e una piccola borghesia frustrata per i suoi fallimenti. Il protagonista della storia, Ernesto Agostini, risente di questa sensazione di perenne torpore. Così, la seduzione di Pia Sangermano, ricca figlia di proprietari terrieri, diviene l’espediente per forzare quel meccanismo che lo tiene lontano dalla società a cui aspira. L’idea è frutto di un piano escogitato da Alfredo, uno dei “dritti”, nonché cugino della diciannovenne educata al convento delle Marcelline. Ad accomunare i due protagonisti, l’infelicità per non aver potuto realizzare i propri desideri: Ernesto ricorda l’impossibilità di avere i giocattoli più costosi; Pia, la mancanza di libertà di scelta. Sarà prima del loro secondo bacio che la giovane s’imbatterà nell’incognita del libero arbitrio: “È per questo che ho paura: perché è la prima volta che scelgo”. Senza poter prevedere i rivolgimenti imprevisti degli eventi. La storia si arricchisce via via di ulteriori dettagli: dopo che Ernesto avrà trovato un buon impiego, si dovrà pensare a come estorcere alla famiglia il consenso per il matrimonio. Se l’occupazione – altro tassello per una solida apparenza – viene individuata in un posto nella GIL (l’organizzazione fascista “Gioventù italiana del littorio”), si passa poi alla condizione che renderà inevitabile l’unione coniugale. Dalla Chiesa del Rosario a Lecce – la più alta in città e ora in corso di restauro – alla squallida camera da letto di una salumeria, si consumano la fuga e la violazione dell’onore di Pia. Saputo l’accaduto, la famiglia stabilisce di celebrare il matrimonio in una cappella di loro proprietà, lontano dagli occhi della comunità locale. Subito dopo il matrimonio, la narrazione assume tinte fosche. Ernesto s’incattivisce contro i contadini e le tabacchine che ora lavorano alle sue dipendenze. Tra queste c’è Ndata, verso cui sviluppa una passione morbosa. Proprio per questo la giovane di quasi vent’anni è in preda agli spasmi del tarantismo, alle sue inestricabili contorsioni. Poi, su una scena ritmata dalle modulazioni del canto dei grilli, la sordità di un inatteso epilogo. Mentre intorno tutto il resto scorre nel movimento medianico della danza, nessuno può sottrarsi a quelle leggi immutabili.
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