di Antonio Errico

Un luogo comune, una menzogna, una leggenda metropolitana racconta che i ragazzi non studiano più. Una volta sì che si studiava. Adesso i ragazzi sono presi da tante cose, ma proprio da tante cose che non studiano più. Così si dice: con logica infondata. Invece, siamo noi che non studiamo in che modo studiano i ragazzi. Invece siamo noi che ci confrontiamo con la questione in maniera assolutamente superficiale e quindi assolutamente inadeguata. Basterebbe soltanto fare il conto del tempo che si impiega per poter realizzare il minimo di una condizione che consenta di affrontare il mondo, sempre più complesso, del lavoro. Allora. Una volta – quando secondo certuni si studiava – per entrare e attraversare i territori del lavoro, era sufficiente darsi la sicurezza di un diploma o al massimo una laurea. Adesso non più, già da qualche decennio. Adesso servono specializzazioni, titoli post laurea, master, formazione continua, competenza sia specifica che trasversale, anche in prospettiva di riconversione. Per cui, che si voglia oppure no, il tempo dello studio finalizzato al lavoro risulta notevolmente maggiore. Ma poi, e soprattutto, esiste una ragione di natura culturale che riguarda i metodi, i mezzi e la conformazione mentale con cui i ragazzi stabiliscono una relazione con le cose da studiare. Una volta – quando, come dicono i nostalgici, si studiava – un ragazzo si inabissava in una versione di latino, un problema di geometria, un capitolo di filosofia, e riemergeva con una traduzione, una soluzione, la comprensione e l’elaborazione di un concetto. Il mondo era tutto concentrato nella versione, nel problema, nel concetto.





























































