Norman Mommens e Patience Gray a Spigolizzi

di Maurizio Nocera

Edoardo Winspeare che mi scrive

Per lettera, come ai vecchi tempi, chiedo ad Edoardo Winspeare un ricordo del belga Norman Mommens (1922–2001) e della britannica Patience Gray (1917-2005), i due artisti venuti dal nord Europa e stabilitisi in Salento a vivere l’ultimo quarto della loro vita. Ormai non ci sono più,  riposano entrambi nell’eternità del cimitero di Salve, e per questo la nostra terra, che li ha ospitati per decenni, oggi si sente un po’ meno gioiosa. Norman è volato via per sempre che era l’inverno 2001, Patience appena il 10 marzo 2005.

Edoardo, sempre gentile e solerte, mi scrive: «Un maestro non impone la sua conoscenza,  illumina la via scelta per arrivare al sapere: lui sa che la Sapienza assoluta è una meta ideale, egli stesso ti spinge a percorrere il cammino d’incomparabile bellezza che conduce a questa Fata Morgana. Un maestro ricorre alla cultura per celebrare con gratitudine coloro che lo hanno preceduto e guidato nella ricerca di un senso, conciliando serietà e leggerezza. Le sue lacrime sono grida d’amore per l’umanità,  le sue risate  preghiere di gioia per la vita, i suoi silenzi mute parole alle coscienze.

La stupidità dell’uomo lo indigna, allo stesso tempo la contempla con affetto, consapevole che nessuno n’è immune, nemmeno lui: lo ha capito ed  è  intelligente per questo. Un maestro non pensa di avere dei discepoli ma esseri umani con i quali condividere lo stupore per il mistero della vita. Un maestro non afferma la sua esperienza, ma la racconta con tenerezza e ironia. Un maestro sa ascoltare e imparare da chi ha vissuto meno primavere e insieme all’amico giovane coltivare l’arte del dubbio, portatrice di pensiero. Un maestro non pensa di essere un maestro, lui sa, n’è consapevole, di essere un uomo, qui e ora. / Gli angeli di Spigolizzi sono stati dei maestri come pochi per me nel Salento. La visione del mondo “ab finibus terrae” non sarebbe la stessa in assenza della loro vita radicale ed esemplare. I miei stessi film sarebbero stati altra cosa senza di loro… e forse non sarebbero esistiti. / “Norman e Patience, angeli anglo-fiamminghi, non ve l’ho mai detto in vita, ve lo dico ora: grazie per avermi fatto capire che ogni esistenza in un determinato luogo diventa metafora per la salvezza del mondo. Quest’esistenza siamo noi e questo luogo è il Salento”, il Salento come metafora per la salvezza del mondo».

Ho risposto grazie ad Edoardo di questo suo incomparabile ricordo, che ci fa vedere e sentire Norman e Patience ancora vivi e partecipi della nostra vita. Quando il regista di Depressa scrive che i due artisti sono stati all’origine dei suoi film non esagera perché, di persona, ho verificato le esortazioni pacate e gentili dei due “angeli” spigolizziani a ché Winspeare si lanciasse nell’impresa. E che impresa è stata poi? Edoardo ci ha regalato immagini e storie stupende in film come “Pizzicata”, “Sangue vivo”, “Miracolo a Taranto”, storie di un micro e macro Salento che ancora oggi girano per il mondo, facendo conoscere la bellezza della nostra terra, il suo incanto, la sua magia. Ma questo Patience e Norman lo sapevano già.

 

Il  Mario Marti dei miei ricordi

Anche al prof. Mario Marti, il vate della nostra storia letteraria e per me Maestro di vita e di lettere, mi ero rivolto, sempre con i vecchi sistemi (per lettera postale), per conoscere il suo parere su Norman e Patience. Egli, giudicando un mio testo sui due artisti, mi rispose scrivendo di apprezzare la storia degli “angeli” di Spigolizzi, soprattutto nei riferimenti che andavo facendo all’ambito della loro vita spartana, al loro rigore morale, al loro vivere felici nel rispetto e a contatto di una natura ancora originaria e odorosa di humus ancestrale. In particolare Marti si riferiva ad una strofa della ballata “L’angelo normanno” in cui, a proposito del volo estremo di Antonio L. Verri, scrivevo: «Gliel’aveva detto quella volta che/ – esplorando la terra del sole,/ era volato su Spigolizzi,/ attratto dal rosso bauxtico dell’antica masseria,/ abitata già dal silenzioso modellatore di pietre antiche,/ cartografo sapiente che l’uomo dall’occhio sbilenco/ aveva visto dipingere carte,/ disegnare campi e piantare cipolle,/ mai dimentico di spremere l’uva asprigna/ di un Salento rosso di vino che frigge la gola» (cfr. «Allestimento», suppl. a «Il Bardo», anno V, n. 4, Copertino, aprile 2000).

 

Virginio Briatore che ricorda Norman

In un articolo – “Catturare la purezza della luce” – lo ricorda così: «Norman era un artista. Pittore di segni, geometrie, sapienze. Un contadino. Un filosofo. Un maestro. Norman è [stato] un angelo. / Mi capita a volte di voler descrivere in breve le doti di colui (ma sarebbe più esatto dire di coloro, perché io considero Norman e la sua compagna Patience, due individui ed un’aura sola) che è per me il portatore massimo di valori esistenziali. Allora, per sintetizzare un universo, faccio un indice! / Norman era un artista possente, simbolico, ancestrale e contemporaneo. Scultore di pietra, infinite pietre, marmo e arenarie, Carrara e Salento; ma anche di legno, ferro, bronzo. Ha scolpito più forme, l’Agnello e il Sole, ma soprattutto l’essere: nudo essenziale, senza tempo, uomo, bambola, Dea madre. E poi era un pittore; di figure, luoghi, creature. / Pittore di segni, geometrie, sapienze; denso di pigmenti, terre, luci, ombre, oro e argenti; dosati a creare senso, alchimia e potere buono per i nostri sensi e le nostre menti inadeguate. / Norman era un contadino. A Presicce ha imparato molto, da un maestro severo, Salvatore che molto gli ha insegnato dicendogli: “Guarda bene e vedi di imparare, perché di gente come te è pieno il mondo ma di quelli come me ne sono rimasti pochi. E lui ha osservato il seme, la profondità e l’acqua ed ha coltivato piselli e meloni, pomodori e cipolle, l’olivo e la vite. Per trent’anni ha spremuto le olive e fatto il vino con le sue mani. Il vino che noi tutti abbiamo bevuto e che per la purezza del suo succo era farmaco e linfa. / Norman era un filosofo. Un filosofo pratico che applicava il suo pensiero alla matematica e all’archeologia, all’ecologia e alla politica, all’alchimia e alla letteratura, alla botanica e al teatro. Un pedagogo armato di inesauribile allegria e del dono di spiegare in modo semplice concetti complessi. Una delle sue letture preferite era Topolino. / Norman era un maestro. Con l’esempio. E con la parola. Nei trent’anni trascorsi nel Salento ha illustrato libri di giovani poeti e lottato contro le discariche abusive, difeso le falde acquifere e dipinto personaggi per il presepio comunale, effettuato ricerche toponomastiche e di archeologia locale, scritto articoli e stampato volantini per la società civile, costruito palchi per le feste popolari e partecipato ad animazioni nelle scuole. A casa sua hanno trovato ascolto centinaia di persone. / Norman è un Angelo» (cfr. «Leccesera», mercoledì 1 – giovedì 2 marzo 2000, p. 14).

 

Nel ricordo di Antonio Lupo

Antonio è stato amico di Norman e di Patience sin dai primi anni del loro arrivo in Salento. È stato con loro nei tempi belli ed in quelli meno belli. Quando Norman non ci fu più, espresse il suo dispiacere attraverso una lettera che diede alle stampe. Questa: «Caro Norman, / in questi giorni ritorna l’immagine di te, affacciato al portone per chiedermi se dovevo andar via subito … forse volevi continuare a parlarmi del tuo ultimo libro e dei disegni che avevi cominciato a mostrarmi quel pomeriggio nello studio, quando ti avevo lasciato al tuo lavoro. / Così mi trovo ancora sospeso sull’idea di tornare a parlarti e mi è difficile accettare il fatto che non ci sarà una prossima volta. / Tante le cose da fare e da dirsi ancora … / Con la tua forza creativa e comunicativa sei riuscito a fare di Masseria Spigolizzi un centro di costante animazione culturale. Perciò, conoscendoti, abbiamo tutti pensato che sarebbe dovuto accadere prima. / Le tue doti di grande artista associate alle straordinarie qualità umane, ci hanno affascinato fin dalla prima volta. Poi, nel tempo, la tua arte, la tua amicizia, la tua serenità e la tua saggezza sono state un conforto per tutti noi. In questi anni poter realizzare tante iniziative con te, è stato ogni volta un dono che ci ha arricchito e rasserenato. / Dolce creatore d’angeli e di scudi, lieto animatore di sogni, chiaro tessitore d’intuizioni e segreti, con le tue mani – per noi – hai catturato la purezza… la luce» (cfr. «Leccesera», mercoledì 1 – giovedì 2 marzo 2000, p. 14).

 

Mauro Marino che ricorda Norman

Mauro Marino ricordò Norman come “Il grande Serafino s’è fatto ardente”: «Il grande Serafino ben piantato, celebra con lo sguardo, come a spostare l’energia dal Cielo alla Terra. È come un segnale lì, in cima, salendo da Torre Pali verso l’alto, in un’ala di battuto, di fronte alla casa che apre ad un mondo altro, patafisico? O Zen? O messapo forse, una terrazza di mondo dove necessario appare l’esercizio del fare e del contemplare. Quanto silenzio! Adesso l’uomo con la grande barba non c’è, s’è spostato, lanciato dai suoi angeli in un altro stare, che ricorda l’energia di quelle pietre che segnava scolpendo e poi sotterrava, nascoste in terra, a nutrire, inoltre al tempo, inoltre ad ogni presente. Il grande Serafino era lui, maieuta e levatrice di pensiero e di sensibilità. Sembrava accudire col sorriso, col suo bel parlare, con la tenacia delle mani che maturavano animi e pietre, quasi che il marmo fosse morbida argilla e il cuore degli uomini pasta di mandorla da proteggere, via via bagnandola per evitare il secco. Lieve, nella sua grande accogliente potenza, curioso di sapere e generoso nel dare aperture alle visioni, ai palpiti, ad ogni emozione, come a voler rifondare in ogni atto la sacralità della vita, come moto d’origine che coglie voci e fa il cuore aperto ad assorbire scosse, colpi, come a togliersi dal guscio individuale, dall’io, per volgersi all’altro. Invitandolo ad osare l’avventura inoltre al piccolo degli affanni, indietro e in avanti dentro un’idea che non consuma e conosce la cura come nutrimento alla gioia che vibra il senso e fa l’artista angelo servitore, attento sempre, all’opera, fragile e vitale tra la solita umanità sospesa, a tenere la danza, il ritmo, la memoria. Adesso il Serafino è al suo posto, finita la missione, s’è fatto ardente e di fuoco. È a consolare il pianto del suo Dio» (cfr. «Leccesera», mercoledì 1 – giovedì 2 marzo 2000, p. 14).

 

Klaus Voswinchel che ricorda Norman

In una inedita pagina di ricordi, così l’amico artista Klaus Voswinchel ce lo descrive appena qualche giorno dopo la scomparsa di Norman: «Una volta l’ho visto sul tetto di Spigolizzi: l’orizzonte intorno era percorso da temporali, un cielo pieno di lampi silenziosi, e per un momento ho pensato che provenissero da lui. / Le sculture, che lui chiamava Serafini, hanno le braccia lanciate verso l’alto così che la testa si trova ad essere nel centro del corpo: con i piedi che toccano la terra e con le mani che toccano il cielo. “Toccano il cielo o desiderano farlo?” – gli ho chiesto – “No, toccano il cielo, sempre. Così come i piedi toccano la terra”. / Le mani nel cielo e i piedi a terra, questo per me era Norman. / Se volevo una risposta filosofica dovevo viaggiare attraverso mezza Europa per raggiungere Norman e riceverla. Nessuno come lui poteva dirmi che cosa in quel momento era importante per la vita, forse perché lo diceva con un sorriso, con un canto o fermando lo sguardo su una farfalla nell’aria. / Lui che era insieme filosofo e artista, sempre curioso trovava risposte anche nelle cose vicine che sono già un mistero. / Non so che faccia avesse Pitagora, ma vedendo Norman nel paesaggio salentino tutto il mondo pitagorico acquistava un volto: il pensiero presocratico e la mitologia greca prendevano vita nel suo lavoro, anche quando preparava le botti per la vendemmia o raccoglieva le olive. / Da Norman ho imparato che non esiste un tempo veramente passato, ma che tutto comincia proprio ora. / Aveva un’immaginazione grande non solo per la sua arte, ma anche per gli altri, per noi, gli amici. / Ora pensando a Norman, ho chiaro nella mente che ogni volta che sono stato con lui ero felice» [dalla Bufalaria (Gemini/Ugento), 13 febbraio 2000].

 

Tonino Guerra che ricorda Norman

Il poeta della pace Tonino Guerra amava il Salento, avrebbe voluto viverci almeno per qualche tempo. Così, un giorno, venne da queste nostre parti e incontrò Norman e Patience. Poi, quando Norman non ci fu più, gli dedicò i versi di “Quattro giorni laggiù”: «Era una giornata fiacca/ di mezz’agosto quando siamo arrivati/ in un giardino selvatico che da sessant’anni/ due artisti inglesi tengono attorno casa./ Il sole moriva sulle foglie dei fichi e tra/ i fiori che crescono per caso tra i sassi./ Lei che di notte per chiamare il marito/ se è in fondo al giardino/ accende una candela, oggi ha soffiato/ in una canna coi buchi e i lamenti/ sono arrivati fra le ombre degli ulivi. Allora/ si è fatto vedere lo scultore/ un uomo grande con la barba bianca/ che pareva una montagna di sonno./ Dentro la casa i mobili sono delle ceste/ che pendono dai chiodi come se i muri/ avessero una fila di orecchini./ Ci hanno dato da bere un goccio di vino/ e intanto guardavamo un catino d’acqua/ che avevano messo sopra una lingua di terra/ per fare bere le mosche, le formiche, i calabroni/ e tutti gli animali che ronzano/ e hanno sete anche loro se è estate.// Quando stavamo per andarcene, lo scultore/ mentre mi dava la mano mi ha detto/ che a volte è proprio dai saluti/ che comincia l’incontro./ E aveva ragione perché anche se è passato del tempo,/ da quando ho visto/ quella gente e quella terra,/ ogni tanto mi viene in mente/ la lingua trasparente/ del mare che leccava la sabbia / e la mia mamma,/ analfabeta, che a ferragosto lavava il cavallo/ a marina e si chiamava Penelope/ come la moglie di Ulisse che sì è dannato dieci anni/ per trovare la sua casa e quaggiù/ piantava gli ulivi./ D’estate la mia mamma/ andava nell’orto a staccare/ le foglie secche dei gerani e mi arrivava l’odore/ nella camera da letto./ La stessa cosa davanti a questo mare/ che è diverso da tutti i mari che ho visto/ che non è soltanto una quantità d’acqua/ che gli occhi non riescono a contenere,/ ma è una sostanza umida/ che ti riduce una conchiglia/ e senti che stai per nascere un’altra volta / e sei gomitolo di carne / che ruzzola sulla spiaggia / dove ti arriva addosso ancora / l’odore dei gerani che ho sentito / nella camera da letto.// Dove va a finire l’odore dei gerani, / delle rose che avevamo dietro la capanna / e delle foglie della Madonna che il babbo / teneva in bocca come fossero un sigaro?// “Non sto più a sentire i tuoi lamenti”/ mi ha detto la mia mamma. “Prendi su un sasso/ e mettilo alle orecchie poi aspetta, aspetta/ e sentirai che dentro qualcosa trema/ come una zanzara che vuole uscire/ e ci sono delle voci che rimbombano/ e sono parole lunghe che vogliono dire tutto/ o niente…/ sta a sentire se piove e fa in modo/ che tutta la faccia, le mani i piedi/ diventino un orecchio fino a capire/ che l’acqua suona dentro la tua testa/ e invece fuori c’è il sole./ È sempre la stessa acqua che batteva/ sulle latte arrugginite della capanna del nonno/ quella volta che lo siamo andati a trovare:/ è sempre quella che senti./ Comunque basta con le domande, ragazzo,/ da piccolo volevi sapere cos’era il sole e la neve e/ se i gatti capivano e io ti ho dato una risposta/ a tutto finché ti ho messo il mondo/ nelle mani: Ora le domande non contano/ perché è finito il tempo che/ bisogna dare delle spiegazioni: le cose sono chiare/ davanti e dietro”».

 

Aldo Magagnino che ricorda Norman

Anche Aldo Magagnino è stato per Norman e Patience l’amico di sempre, colui che andava a trovarli quando il tempo era bello ma anche quando era brutto tempo. In “Ha dato un cuore alla pietra” così ricorda Noramn: «Il piccolo “Fool” di bronzo, dalle lievi venature verderame, mi guarda da sopra la pila di libri sulla quali campeggia. Norman Mommens me lo regalò due anni fa. Gli avevo chiesto di cedermi uno dei suoi tanti angeli. Mi diede una riproduzione in scala ridotta del possente “Folle” di marmo che aveva scolpito anni prima. “Tieni questo per un po’”, mi disse. “Vedi se ti piace averlo in casa”. Lui era così. Era capace di regalarti un’opera d’arte unica al mondo come se ti offrisse un bicchiere del suo vino. Il significato di quel dono l’ho capito più tardi, leggendo un libro di Kahlil Gibran. “Un giomo, quando mi risvegliai … le mie maschere erano state rubate …. per la prima volta il sole mi baciò il volto scoperto… Benedetti siano i ladri che mi hanno rubato le maschere… Così divenni folle. E nella follia trovai la libertà e la sicurezza”. / In “Remembering Man”, quasi dieci anni fa, Norman aveva scritto che “il Folle c’insegna il linguaggio della Luce…, poiché 1a sua visione creativa gli consente di scorgere l’essenziale nel particolare, in una persona, un oggetto, un luogo, un avvenimento”. Ora l’artista contadino dorme nel cimitero di Salve, salentino tra i salentini; salentino fin dal giomo del suo arrivo, più di trent’anni fa, in quest’angolo d’Europa, tappa finale di un pellegrinaggio umano e artistico che ha attraversato le Fiandre, l’Inghilterra, Carrara, la Grecia. / Quando quel pomeriggio di primavera lui e la moglie Patience Gray, impareggiabile compagna per quasi mezzo secolo, scesero dal camion che li aveva portati sull’ultima serra del Capo di Leuca, si sedettero sul muretto della masseria che avevano comprato (e che era in assoluto stato d’abbandono, senza porte o finestre e con l’erba che cresceva nelle stanze e sul tetto). “Eravamo arrivati in un deserto”, racconterà Norman. “ed eravamo così felici”. / Come ricordare in poche righe quante volte sono stato destinatario della sua generosità. Quante volte mi ha fatto dono del suo tempo, dei suoi libri, della sua conversazione, sotto il fico nei pomeriggi d’estate o sotto il caminetto nelle sere d’inverno? Ci siamo detti un milione di parole. E ogni volta, per ognuna, ce n’erano altre mille rimaste inespresse, perché il tempo non bastava mai. Uno degli ultimi libri che mi ha regalato si chiama (traduco dall’inglese) “Conversazioni prima della Fine del Tempo”, di Suzi Gablik. Per Norman pittore di angeli e scultore di serafini, suonano perfette le parole del “Woodcarver”, di Tom Petsinis: “Le Tue mani sinfoniche hanno diretto l’argilla e curvato le costole dell’uomo … Io cesello l’ala di un angelo, accarezzo un blocco informe finché l’angelo farà udire il suo canto”. / Artista-archeologo-ecologo, aveva creato un fumetto, una lucertola parlante che mette alla berlina politici e burocrati distratti (se non peggio) e affaristi inquinatori. Amava la macchia attorno alla sua masseria e la difendeva con accanimento e intelligenza dal fuoco. Conosceva le piante. Durante una delle quotidiane passeggiate col fedele Pym, un giorno rimase impigliato nei tralci di un rampicante salentino, così tenace da costituire “una trappola di splendida efficienza; una difesa nascosta del territorio”. Era la stessa pianta che a volte vediamo rappresentata sulle ceramiche messapiche, che spesso i manuali di archeologia chiamano edera e che invece, notò Norman, dopo un’accurata ricerca iconografica, era la “Smilax aspera”, la salsapariglia. La scelta di quella decorazione aveva, secondo lui, un significato psicologico e storico. Infatti non lasciava “dubbi sulla ritrosia dei creatori di quelle brocche né sull’accanita resistenza che avrebbe provocato l’invasione della loro terra”. / Non sono un critico d’arte, ma lui avrebbe detto che questo è un vantaggio. Si può parlare con maggiore libertà. Delle sue opere ho sempre amato l’essenzialità delle linee, la forza dei colori. Le sculture hanno il fascino del primitivo, della verginità, hanno forme ancestrali, rimandi mitologici, onirici, come Lifetime, Athene, Promachos, le dèe di marmo di Naxos e quelle di carparo e dolomite, la Sfinge, la Sirena, come gli innumerevoli angeli e serafini di marmo, alluminio, ottone, piombo. Sono archetipi che rimandano ad una dimensione dove il tempo non è più il nostro tempo, non ha più lo stesso valore. Non c’è più un prima né un dopo. e come se fossero sempre state là dove sono state collocate, tanto che non si può più immaginare quel luogo senza di esse. Sono.parte dello spirito del luogo, nel quale si fondono e si confondono. Dopo il soggiorno a Naxos, mentre lui e Patience s’imbarcavano sul traghetto nel porto del Pireo per tornare in Italia, trascinandosi dietro le statue che aveva scolpito nel marmo locale, qualcuno gridò allarmato “Ecco come se ne vanno i tesori della Grecia!”. Ma erano i tesori di Norman. E da molto tempo anche i nostri».

Ed è ancora Aldo Magagnino, quella volta che Norman non ci fu più, a ricordarlo così: «L’8 febbraio si è spento a Salve Norman Mommens, uno degli ultimi grandi puri artisti de nostro tempo, che aveva scelto di vivere, da trent’anni, sulle serre del Basso Salento, tra gli ulivi e i profumi della macchia, ad un passo da Finisterrae. / Era nato ad Anversa il 31 maggio 1922. Educato in Belgio, aveva frequentato la Scuola di architettura e arti visive diretta da H. Th. Wijdeveld. All’inizio della carriera, si era guadagnato da vivere come pittore murale e disegnatore industriale. Molto influirà sulla formazione umana e artistica il soggiorno in Germania durante la guerra. / Mommens visse come tragedia personale le sofferenze della gente comune, dei tedeschi come degli altri popoli europei travolti da forze ormai incontrollabili. Nel corso di un bombardamento una casa venne centrata in pieno. Dentro c’erano una madre e un bambino. Accorse con tanti altri a dare soccorso. Sollevarono il tetto e cercarono di salvare i due sventurati che, però, erano morti. / Ma l’artista vide quegli uomini che reggevano il tetto come una schiera di angeli con le ali levate in alto e da allora, periodicamente li riprodusse, nelle sue sculture e nei dipinti, forse per non dimenticare, forse perché nessuno dimentichi gli orrori della guerra. / Fu all’inizio degli anni Cinquanta che maturò definitivamente la decisione di dedicarsi alla scultura. Una scelta coraggiosa, dal momento che non erano certo tempi propizi per gli artisti e per gli scultori lo erano anche meno. L’Europa si era dissanguata, anche economicamente, nel più bestiale dei conflitti e la scultura sembrava aver fatto ormai il suo tempo. Non c’erano molte persone in giro disposte a comprare statue. Ma per Mommens non era una questione di soldi e in quanto alla fama, per tutta la vita rimase convinto che poco avesse a che fare con l’arte. Per lui, famoso o ignoto che fosse, l’artista aveva il compito di creare delle immagini e affidarle al mondo, perché vivessero la propria vita. Da quache parte sarebbero germogliate. Si sarebbe occupato il tempo di dare loro valore e significato. / “Sono spore”, diceva, “spore quiescenti”. Ha lavorato ed esposto le sue opere in mezza Europa, sempre sospinto dalla “fame di pietre”, come ha scritto la moglie, la giornalista e scrittrice Patience Gray, inseparabile compagna per quasi quarant’anni. La sua è stata una lunga odissea, dalla Cornovaglia a Carrara, a caccia di marmo a buon mercato, a Naxos a scolpire quello scintillante bianco e grigio delle cave sopra Apollona, poi ancora a Carrara. Ma qui la vita era ormai cambiata. Davanti al laboratorio dove lavorava con altri artisti si fermavano gli autobus dai quali sciamavano folle di turisti vacui e rumorosi. / L’incontro con il Salento fu casuale ma travolgente, come spesso succede con i grandi amori. Il Salento stregò lui e la moglie. Del resto, Norman identificò sempre la nostra terra con una sirena, che separa (o unisce?) due mari con la sua coda. […] La prima persona che conobbero fu un contadino che lavorava in un campo vicino e che insegnò loro i segreti e le fatiche della terra. Nella vita come nell’arte, ha sempre ricercato il minimo comune multiplo dell’esistenza. Con Patience hanno sempre abitato luoghi orfani delle comodità della civiltà: una stalla riattata sul torrente Carrione, un’altra stalla a Naxos ed una “masseria ovile” nel Salento. L’elettricità non ha mai guardato la soglia della loro dimora salentina. Il frigorifero non l’hanno mai avuto, anzi, ne avevano uno quando vivevano a Londra, ma era così rumoroso che lo spensero e lo utilizzarono come credenza. / Dovunque siano stati, hanno vissuto semplicemente, lontano dai riflettori, dalla mondanità, dai salotti eleganti e raffinati. Ma in poche case c’è stata tanta arte e tanta cultura come quella che quotidianamente è passata sul tavolo della loro cucina. Norman Mommens non ha mai amato i dibattiti sull’arte. / In “Remembering man”, un libro che parla dell’uomo, dell’arte e della concettualità, pubblicato nel 1991, cita un’espressione di Turner, che definiva l’arte una “strana faccenda”, aggiungendo che “gli artisti di solito sono occupati a lavorare e, quando non lavorano, l’ultima cosa che vogliono fare è parlare di arte”. / Del resto, se le espressioni artistiche sono il risultato di una “risposta emotiva” non c’è molto da spiegare. Sono “offerte, non contributi… non pretendono di comporre una verità; raggiungono la verità semplicemente prendendo parte alla sua esistenza, con  l’essere, esse stesse, veritiere. / Artista-archeologo-ecologo, aveva creato un fumetto, una lucertola parlante che mette alla berlina politici e burocrati distratti (se non peggio) e affaristi inquinatori. Amava la macchia attorno alla sua masseria e la difendeva con accanimento e intelligenza dal fuoco» (cfr. «Quotidiano di lecce», giovedì 2 marzo 2000, p. 11)

 

Nel ricordo di Sergio Torsello

Anche Sergio fu molto vicino a Norman e a Patience. Erano i luoghi a farli vicini e a portarli alla frequentazione. Ed anche lui, quando Norman se ne volò via da questa terra per sempre, in bell’articolo intotolato “Fu Helen Asbee a scoprire il Sud”, scrisse: «Alla Bufalaria, non ti accoglie più il volto “affilato” e sorridente di Helen Ashbee: se n’è andata via un pomeriggio assolato dell’estate scorsa portandosi dietro quell’aria da eterna ragazzina e quell’inimitabile stile old England sopravvissuto chissà come tra la campagna arcigna e gli ulivi argentati del Salento. Ha ripiegato le ali, incapace di volare come quelle sue sculture esili e impalpabili, simili a delle piccole guglie post-moderne quasi sospese tra cielo e terra. Era stata la prima, Helen, trent’anni fa, ad aprire la “pista” salentina per artisti e intellettuali giunti da mezza Europa nel cuore di Finibusterrae “dove – diceva lei – ci sono enormi edifici abbandonati immersi nel verde”. La Bufalaria ora è un luogo triste e vuoto in cui la “sua” presenza si può leggere persino sui muri: Repubblica Bufalaria aveva scritto su un pilastro dello studio, accarezzando il sogno “comunardo” di creare nella vecchia “masseria” una Societé di giovani artisti. Credeva nei giovani, Helen, pensava che in loro ardesse un fuoco che è volontà e forza allo stato puro. Era fatta così Helen, l’errante. Terza figlia dell’archietetto Charles Robert Ashbee, l’allievo prediletto di William Morris, era approdata nel Salento dopo un lungo peregrinare tra la “terra santa”, Parigi, Londra e gli stimolanti milieu intellettuali della “grande mela”. “Alla Bufalaria – aveva detto poco prima di morire – ho trascorso i vent’otto anni più felici della mia vita”. Nella masseria oggi l’aria è ferma, immobile quasi in contrasto con i ricordi che si accavallano e si rincorrono. Una volta qui si tenevano feste fino all’alba: pizziche-tarantate e sballi senza fine, una sorta di rituale underground per il “popolo degli alternativi” del Salento che celebrava così la propria diversità. // Dopo Helen se n’è andato anche Norman Mommens, il primo, con sua moglie Patience Gray, a seguire Helen in questa avventura in una “terra di confine” che non è certo il centro del mondo, ma semplicemente un luogo dove “succedono le cose che non penseresti” e dove si può “tornare alla terra” per riscoprire altri ritmi, altri tempi di lavoro, un’altra lunghezza d’onda per il pensiero che non sia quella della produttività ad ogni costo, della folle corso verso “beni di consumo” effimeri e senza storia. / Nel cuore del Salento si è ritrovata un pezzo di Europa, colta e alternativa: artisti, scrittori che avevano scelto questo posto non come il “buen ritiro” di una intellighenzia in disarmo, ma come un luogo dell’ “anima” dal quale rimettere in circolazione un personale messaggio di rivincita e di speranza» (cfr. «Quotidiano di Lecce», giovedì 2 marzo 2000, p. 11).

 

Quella volta che fotografai il volto di Norman, Angelo Normanno

Per noi, il silenzioso modellatore, il cartografo sapiente era appunto Norman Mommens, che assieme avevamo definito “Angelo normanno”. Patience Gray invece era la nostra “Farfalla in volo” che, col tempo, divenne poi anche una delle nostre Grandi Madri Salentine.

Accadeva spesso, tutte le volte che andavo a Spigolizzi, di portarmi dietro una piccola macchina fotografica, il cui clic scandiva i minuti e le ore vissuti accanto a Norman e Patience. Affettuosamente loro mi sorridevano e un po’ compativano questa mia mania, lasciandomi fare. L’ultima volta che andai a trovarli, che era l’inverno 1999, Patience mi accolse e mi indicò di dirigermi verso la pajara dove sapeva essere il suo compagno. Mi incamminai silenzioso sulla pietraia, quando vidi Norman venirmi incontro proveniente dal suo rifugio costruito in pietra a secco, la pajara appunto, seminascosta tra gli scogli e la macchia mediterranea ad est della masseria. Era questo il luogo di tutta Spigolizzi che io non avevo mai frequentato per rispetto dell’intimità di Norman. In seguito l’ho favoleggiato come piccolo eremo dentro cui l’uomo venuto dal Nord compiva i suoi riti, i suoi percorsi di arte e di vita intima.

Ricordo che quel giorno indossava il suo lungo pastrano nero di foggia ottocentesca, in testa aveva il basco con il pon-pon al centro. Lo guardai venirmi incontro e percepii come lunghissimo il tempo da lui impiegato per percorrere i 30/40 passi che dividevano il rifugio-pajara dalla masseria. Pensai che la sua lentezza fosse dovuta alla sua più recente sofferenza fisica. Ma, quando mi giunse vicino e mi abbracciò, non riuscii ad evitare di guardarlo negli occhi, intensamente. A quel punto mi accorsi della sua infinita tristezza, della malinconia che gli pervadeva l’anima. Pensai: “sarà per via degli ultimi acciacchi”. Norman si avviava verso l’ottantina. Nell’intensità di quei nostri sguardi non riuscii ad evitare ancora di sentirlo vicino e di condividere con lui un po’ di quella sua sconfinata tristezza. Pensai alla sua bella opera dal titolo “Antonio Verri, ‘Scudo di nostra fede’”, al ricordo di alcuni momenti vissuti con colui che in un certo senso ci aveva tanto affiatati. Fu in quel momento che il volto di Norman mi apparve come un angelo, un angelo marcheziano, vecchio e con la barba bianca lunga e foltissima, come da dio dell’Olimpo celeste. Cominciai a fotografarlo, e ri-fotografarlo, avvicinando sempre più l’obiettivo della macchina all’espressività nordica del volto caro di Mommens, appunto il volto dell’Angelo Normanno.

 

Come conobbi il Contadino delle Statue di Pietra

Una mattina di un inverno d’arte, con Antonio L. Verri ed anche con qualche messapa appresso, esplorando la terra del sole, calammo su Spigolizzi, l’antica masseria-stalla dell’Ottocento, abitata e vissuta da Norman e dall’eterna compagna Patience Gray,  corrispondente dal Salento del «New York Times Magazine». Patience, anche con noi presenti, continuò a scrivere, mentre il suo compagno, il gigantesco Norman Mommens, ci salutò continuando a scolpire del carparo rosa di Santa Cesarea. Poi dipinse delle carte, disegnò su una parete della masseria, arricchendo di arte e di sogno quel povero ovile secolare, che con lui andava diventando la fortezza mommensiana, circondata da altissime statue granitiche che Antonio L. Verri indicò come le sentinelle del “logos”. L’incontro avvenne anche in un tempo in cui Norman piantava patate e, allo stesso tempo, mescolava colori di terra, densi e caldi colori transfusi in una miriade di studi geometrici, che per l’artista rappresentavano il linguaggio degli altri, un linguaggio un po’ spirituale, sacrale anche, che tanto affascinò l’uomo dalle mani d’oro, ormai quasi completamente sdentato, che si assopiva allo sguardo del sole nel sentire la storia che ora Norman ci raccontava: una storia che l’aveva visto arrivare in Salento agli inizi degli anni ’70.

Quando Norman e Patience giunsero in Salento, alla Bufalaria (Gemini/Ugento) vivevano già (dal 1968) Helen Ashbee (Campden/Inghilterra 1915 – Ugento1996) e Arno Mandello (1905 – Ugento 1990), i due artisti già noti nel resto d’Europa. Norman e Patience conobbero Helen ed Arno, divennero amici, ma la loro frequentazione fu quella di tipo anglosassone, cioè lenta. Lo ricordo bene, perché mi accadde di andare a trovarli assieme più di una volta.

Norman, con sempre accanto la silenziosa Patience, aveva deciso di lasciare l’Inghilterra, un altro mare, un’altra terra, terra di nebbie, e divenire solare, mediterraneo, ionico, messapo, insediandosi nel vecchio rudere di Spigolizzi, tra Salve e Presicce, sull’ultima ruga murgiana di un sud-sud Salento, a due passi dal mare delle Pescoluse. Lì, egli cominciò a trovarsi bene, attorno a gente messapa che gli voleva bene, altri messapi contadini che assieme a Norman lavoravano la terra rossa spigolizziana, terra-luogo dove Norman potette finalmente fare e disfare sulla pietra le carezze sognate; e ricordare senza ansia che lui rimaneva sempre il figlio prediletto di una madre inglese, sposata ad un belga.

I suoi primi anni di vita Norman li aveva passati nella mitica rubensiana Anversa, e le lingue della sua fanciullezza furono l’inglese, il fiammingo, il francese, con una possibile confusione linguistica che gli sarebbe potuta nascere nella testa, ma che fortunosamente neanche lo sfiorò. La sua fu sempre una vita di movimento, con sua madre in Inghilterra, suo padre in Olanda, altri parenti in Belgio, e lui, con la sconfinata voglia di conoscenza di nuovi orizzonti, in luoghi e dimore mai fisse, sempre alla ricerca delle radici dell’arte, soprattutto della scultura, che infinitamente amava, alla ricerca soprattutto della pietra-luogo dove fermarsi e farsi vincere. Norman vagabondò per molta parte d’Europa, alla ricerca di cave di pietra, di granito, di marmo;  pietre che soddisfacessero la sua fame di scultura. Si recò in Grecia, in Spagna, in Belgio, in Inghilterra, in Francia, in Germania, fino a che non giunse dalle parti dell’Italia del sud, dalle nostre parti, cioè in Salento, nei pressi della masseria-ovile di Spigolizzi, là dove si fermò e cominciò a scolpire e ad configgere nel terreno rosso di bauxite le sue statue (con Verri ci chiedemmo ma l’isola di Rapa Nui è forse pure qui, in Salento?).

Oggi, quelle sue statue-simbolo – con lui che non c’è più – svettano ancora gigantesche verso il cielo, in una sorta di spazio immenso, perché per lui valeva la condizione che la pietra scolpita, una volta preso la forma, non debba più “vivere” al chiuso, ma necessariamente stare all’aperto, esposta alla luce del sole, affinché risplenda l’ampiezza della sua linea di confine,  scoprendone le concavità e, soprattutto, innestandosi nel luogo della sua dimensione, interrandosi nel campo dell’artista, quasi fosse erba che interagisce con la terra nelle sue diverse manifestazioni di vita, nel suo crescere e svilupparsi, nella sua metamorfosi energetica; appunto come un’erba in terra, nel ricordo delle abitudini micenee e cretesi che, per propiziarsi gli idoli buoni, innalzavano stele e obelischi verso il cielo. Anche Norman piantò nel suo campo, e tutt’intorno ad esso, le sue molte forme statuarie serafiche che ancora oggi, su Spigolizzi, dove vivono Nicolas e Maggie, figli di Norman e Patience, svettano un po’ dappertutto: nella masseria-stalla di Spigolizzi, nel suo orto di scultore messapo contadino, tra un pezzo di terra appena zappato e seminato a lupini o a fave, in attesa che un altro pezzo riceva il seme dell’orzo buono, intanto che dall’alto della sua gigantesca struttura sorveglia, ai limiti della grande aia, la più simbolica delle sculture di Mommens, quella nata dalla pietra granitica delle cave toscane, emersa da un intero blocco di pietra dal magnifico colore bluastro, trovato lì e trasportato qui; una statua severa eppure fortemente amica, nata da un sogno fatto da Norman in Grecia nel 1964, quando nelle spire oniriche si vide circondato da giovani cavatori che gli dicevano che il suo nome di battesimo non era quello che tutti conoscevano, perché il suo vero nome era Anatolì, che significa Levante, Est, e che lui forse aveva dimenticato di chiamarsi così.

La grande scultura-Moai ancora oggi è conficcata profondamente nella terra spigolizziana, ai margini della grande aia messapica, che stranamente, volge tutta la sua gigantesca struttura verso l’Est, verso il nostro Levante, l’Albania, la Grecia, l’Anatolia, là dove per noi messapi salentini sorge il sole, quello dal quale secondo Norman proviene la luce che ora fa scolpire la pietra, una luce che la libera dalle asperità malefiche, e ne dissoda la bellezza, per milioni d’anni segregata nella massa, nella materia selvatica, nel mondo misterioso, sconosciuto, che pure incanta l’uomo, l’artista, costretto a lottare contro possibili apocalittici disastri che lo stesso concetto di benessere a volte può comportare.

Si può dire che Norman e Patience furono eco-ambientalisti “ante litteram”, e tutta la loro vita  fu impiegata per far incontrare la natura dell’uomo con i suoi stessi equilibri interni, da loro pensati come una finestra luminosa che trafigge i mali del mondo uccidendo la disperazione che la vita comporta. Se da parte sua Patience andava scoprendo erbe e piante salentine che poi combinava in ricette gastronomiche, Norman invece continuò sempre a disegnare i percorsi attraverso una pianta architetturale di un immaginario tempio con mille stanze, dove una strada sicura doveva riportare l’uomo alla luce, alla speranza, alla vita, e da lì ricominciare a far scaturire la creatività, attraverso sogni, visioni, dormiveglia, immaginifiche realtà che dovevano riportare l’artista nella dimensione dello sconosciuto, dell’oscuro, del misterioso, intanto che la pietra, sotto i colpi del suo martello e del suo scalpello cominciava a prendere forma nello stesso momento in cui la materia veniva aggredita, e l’opera cominciava a venir fuori a seconda delle sue emozioni, delle sue incontrollabili pulsioni, delle sue transe mistiche, dei suoi infiniti oltrepassamenti, che in Norman Mommens si condensavano sempre come in una struttura serafica limpida nella sua stilizzazione, la cui origine stava in quel tremendo episodio che egli visse con tutti i suoi sensi e le sue paure nel periodo della seconda guerra mondiale quando, nel bombardamento di Anversa, vide crollare una casa con dentro una donna e un bambino. Il giovane Norman si gettò piangendo a capofitto sulle macerie nella speranza di salvare quelle povere vite, alla fine dello scavo però si trovò davanti una scena terrificante: sotto l’infernale architrave vide la donna con le mani sollevate in alto che la sosteneva nell’estremo delle forze, e tra le sue gambe il bambino, entrambi in un atteggiamento di disperazione, tesi verso l’alto, protesi verso un possibile spazio che almeno salvasse loro la vita. Norman non potette fare nulla, era impari la sua forza con la pesantezza dell’architrave. Davanti ai suoi occhi quella donna e quel bambino caddero come usignoli appena sparati. Questo episodio di disperazione e di morte segno per sempre Norman tanto che egli lo stilizzò nelle sue forme scultoree e con tutti i materiali possibili, privilegiando sempre la pietra. Per lui quei due poveri esseri umani divennero nel tempo della sua immaginazione spiriti purissimi, angeli.

Una volta Norman ci chiamò in disparte per mostrarci la tuta da lavoro dei cavatori di marmo, donatagli dagli operai quella volta che nelle cave diede splendida forma a rozzissimi marmi scartati e abbandonati. Un’altra volta egli ci sbalordì facendo oscillare misteriosamente il suo pendolo magnetico. Nei circa trent’anni di vita vissuta a Spigolizzi raramente (forse mai) Norman si allontanò dal Salento; gli piaceva stare tra le sue carte, le sue sculture, le sue pitture, le sue patate, i suoi lupini, le sue olive, il suo vino, tutta una natura che lì, a Spigolizzi, in quella sua ormai mommensiana masseria-stalla-fortezza prendevano forma come sogni ulisseidi, tra odori ancestrali e sospiri di angeli. E qui, in questo Salento bagnato dai due mari, che l’uomo venuto dal Nord ma con lo sguardo a Levante, si volle fare messalo.

 

L’Antonio L. Verri che ricorda Norman

Antonio L. Verri, combinandolo con la storica figura di don Mauro Cassoni, monaco cistercense di Martano, lo chiamava Ar, e per entrambi scrisse: «Ar era un saraceno, un Gran Saraceno, quasi una radice, forse un’abbreviazione in uso nel suo paese, un suono, un giro di voce. Ar era anche un estensore di carte, di mappe, di atlanti, di qualsiasi tipo di atlante… Ar era un saraceno dagli occhi mobilissimi, una gran barba, una voce profonda, una corporatura gigantesca. Ar estensore di carte, di atlanti, di trattati, di una chiarezza iniziale che a tutti pareva un dono, di una lucidità vorace, la penna che inchiostrava e solcava con sicurezza, spavalderia, sfida, arroganza, le sue tavole, i suoi atlanti zeppi di rimandi, disseminati di note e noticine, vergati con inchiostro nitidissimo, ampi, di legatura orizzontale, carta spessa, ruvida… / Scriveva, con puntigliosità, di musica, di distanze, di luoghi, del sapere degli uomini, ma come nessun altro sapeva scrivere anche di torri, di tenativi di volo, del segreto battito dell’argilla, del mistero che lega l’uomo alla terra, di formule e geometrie rispondenti, di navi, di grandi mercati, della bellezza del girasole, dell’accumulo, del continuo nutrimento, dell’ampia diffusione…/ Ar dagli occhi verdi e mobilissimi aveva una sorta di carta del cielo che copriva una vasta parete della sua casa tra gli alberi, e come nessun altro sapeva così luminosamente avventurarsi in essa. E come nessun altro in una carta dai grandi pieni (e dei vuoti conseguenti) della terra. E come nessun altro in una carta di distribuzione dei porti, e come nessun altro in una carta di insenature in cui attraccavano i venditori di pellicce, o i venditori delle’essenza dell’ambra e del muschio, o i venditori del legno, di stoffe, delle spezie più varie… E come nessun altro in tantissime ardite altre carte e atlanti e tracciati, preda di una solitudine immensa, di feroci tenerezze, di un piacere curioso e leggero… Pronto a superare ogni sua precedente veduta, attratto dal gioco, strapieno di allegra premonizione, pronto ad andare oltre ogni limite, a saltare a pie’ pari le barriere dei segni, i dogmi del testo, la chiusura nei generi…/ Grande omone, vestiva di fustagno. Ampi gesti delle braccia. Sorriso. Volto bruciato da chissà quanti percorsi e soste. Agile. Occhi che tutto coglievano, eternamente disposto al moltiplicarsi delle cose. Umile. Arrogante. Di chissà quali origini. Vigoroso. Battevano sul suo forte petto le sinuosità e le velocità del mondo. Corpo ampissimo, ha abitato una sola vasta stanza di una casa tra gli alberi» (cfr. “Gli atlanti di Ar”, in “Le carte del Saraceno”, Pensionante de Saraceni, Caprarica di Lecce 1990, p. 7).

 

Quando Norman volò nel cielo assieme a tutti i suoi Angeli Serafini

Era l’inizio di febbraio 2000, quando Norman caddè per una banale scivolata in casa. Colpì con la testa su un gradino, e non si preoccupò più di tanto. Fra sé e sé, ma lo disse anche a Patience, “non si trattava di cosa molto grave”. Così non fu, perché qualche giorno dopo l’Angelo Normanno raggiunse il cielo. Tutti noi che lo conoscevamo sentimmo forte la commozione. Io, con lui, perdevo non solo un amico, ma il Mago fiammingo/salentino che mi aveva insegnato l’arte di annusare la terra. Scrissi di getto questo: «”L’Angelo Normanno”// Accadde un giorno freddissimo/ d’un inverno di fine millennio,/ – forse, però, era l’inizio del nuovo,/ chi volete che lo ricordi più?,/ comunque il cielo era dipinto a cobalto cupo/ allorquando il normanno Mommens,/ lo ieratico scultore venuto dal Nord,/ – così,/ tanto per cambiare,/ ma forse perché sentiva/ che il tempo a gran voce lo chiamava,/ si lasciò prendere la mano dal vento,/ facendosi trasportare nell’aria fredda/ e canterina di Spigolizzi/ alla ricerca dell’angelo amico suo,/ che per un attimo/ – inavvertitamente,/ aveva abbandonato le infinite/ geometriche forme di Ar,/ svoltando l’angolo di via della luna che/ – birichina,/ sorride facendo perdere le tracce di sé.// Mommens: angelo normanno/ – per cercare l’altro angelo amico suo,/ volle volare in cielo anche lui,/ al di là del muretto a secco dell’ovile/ utero segreto del trullo che rimbomba/ del tintinnio dei timpani tibetani/ magicamente rivolti al nostro Levante,/ laddove il sole non smette mai di sorgere.// Al normanno Ar,/ serafico pittore venuto dal nord,/ l’uomo dei curli aveva predetto/ che l’angelo amico suo/ – prima o poi/ sarebbe levitato./ Gliel’aveva detto quella volta che/ – esplorando la terra del sole,/ era volato su Spigolizzi,/ attratto dal rosso bauxtico dell’antica masseria,/ abitata già dal silenzioso modellatore di pietre antiche,/ cartografo sapiente che l’uomo dall’occhio sbilenco/ aveva visto dipingere carte, / disegnare campi e piantare cipolle,/ mai dimentico di spremere l’uva asprigna/ di un Salento rosso di vino che frigge la gola.// A quel tempo Mommens era intento ad affollare di sogni/ e di marmi l’ovile rimasto vuoto dalle macilente pecore,/ circondando così la sua fortezza contadina di bianchissimi Moai,/ che il Pensionante dei saraceni salentini aveva indicato/ come le sentinelle della terra di Ar,/ le inespugnabili fortezze dei suoi luminosissimi colori,/ transfusi nella grezza materia segnata dalle geometriche sequenze,/ codice misterioso di altri tempi,/ altri luoghi,/ linguaggio magico-sacrale dell’uomo dalle mani di velluto e dalla barba olimpica,/ che allo sguardo del sole aveva saputo assopirsi bambino,/ con dentro la storia di uomo venuto dal nord:/ il Salento era stato per lui l’orizzonte della luce,/ e il conquibus di una sua antica ricerca del silenzio dell’anima.// Altri mari, altre terre, altre nebbie Ar aveva lasciato,/ per divenire solare, mediterraneo, ionico, messapo/ nel segreto del trullo/ misteriosamente rivolto ad Est,/ laddove la ruga salentina andava a contorcersi/ nelle forme sinuose di una profumata donna-gatto.// A due passi dal grande mare ausonico,/ il cartografo sapiente aveva saputo vivere/ tra gente umile dallo sguardo lungo e dalla pelle rugosa,/ contadini messapi/ – in fondo,/ chini su una pianura contornata d’acqua,/ con terra e tratturi e sogni dentro cui il normanno/ aveva conficcato pietre e marmi scolpiti/ a mo’ di concime per messi abbondanti.// Anversa aveva visto Mommens fanciullo,/ la vita poi lo aveva fatto divenire angelo messaggero,/ con radici estese ovunque,/ divorato dalla luce, dai colori, dalla pittura,/ dalla voglia di scarnificare la materia prima,/ tratta da cave di carparo dolce/ che pure il Salento genera,/ dalle parti di Spigolizzi, appunto,/ laddove le sue sculture/ – ora e per sempre,/ svettano gigantesche al cielo,/ come silenziosi terribili Moai di una Rapa Nui salentina,/ guardiani di spazi infiniti,/ sotto questo cielo, questi solstizi, e questa luce/ dalle forme ampie, colosse,/ come betisse allungate dagli incavi passeri pelosi./ In questi luoghi dalle dimensioni assolutamente solari,/ Ar ha conficcato i suoi bianchi menhir,/ radici in campo d’artista,/ nella terra rossa di vita/ – in fondo e per sempre,/ con la faccia al cielo,/ gonfi, luminosi,/ idoli buoni divenendo.// La terra era stata appena arata/ appena seminata a fave e piselli,/ quando il normanno volò via,/ alla ricerca dell’angelo amico tanto amato.// A ricevere il seme dell’uomo buono,/ – ora,/ è rimasta poca altra terra ai limiti della grande aia,/ straordinariamente/ guardata a vista dal Monumento più alto di Mommens,/ scolpito nel marmo toscano,/ come angelo di pietra/ severo ma amico,/ nato dal mitico sogno di Ar,/ allorquando/ – nelle spire oniriche di/vinate,/ si era visto circondato da giovani greci/ che gli avevano detto che «”Norman”/ non era un nome buono per lui,/ perché “Anatolì” era il suo vero nome»,/ che significa/ “Levante”,/ ma anche “Est”.// Il gigantesco Totem di marmo/ – ora e per l’eternità,/ resta conficcato nella roccia degli Ausoni,/ con lo sguardo rivolto alla magica Otranto,/ a quel nostro Adriatico sibilante,/ il cui utero/ e per ogni alba/ non smette mai di sgravare il sole.// Dall’Est, il normanno Gran Salentino,/ – muto sacerdote/ venuto dal freddo,/ si è fatto investire dalla luminosità dei Tempi/ – e delle Storie/ e lì,/ nella fortezza-tempio è rimasto/ a scolpire la pietra dura della biancastra Leuca,/ liberando la bellezza dalle maligne asperità,/ Vergine segregata da millenni nella bruta materia/ di mondi misterici e onirici,/ che sirene minervine,/ dalle parti di Badisco,/ hanno incantato l’Uomo,/ costretto a lottare/ contro le apocalissi di una modernità cannibalesca.// Ar ha scolpito l’incontro della natura umana/ con il suo equilibrio interno,/ quale luminosa finestra che trafigge i mali del mondo:/ la disperazione, la noia, la stupidità./ Ar ha disegnato i percorsi del labirinto dalle mille stanze,/ in cui solo una strada riporta l’uomo alla luce,/ alla speranza, alla vita, alla creatività,/ nel tunnel di sogni, visioni, dormiveglia, immaginifiche realtà/ in forma di pietra, eleganza, severità./ Ar ha inciso nelle pulsioni dell’animo,/ nello sfinimento della danza,/ tra infiniti oltrepassamenti,/ condensando marmo e luce/ che stanno all’origine/ di una sua tremenda storia di guerra/ – il bombardamento di una casa,/ dove una donna e un bambino,/ muoiono col volto teso verso l’alto,/ le braccia al cielo senza vita.// Sempre questo sono state le Sculture di Norman:/ spiriti ancestrali, vite assenti e luci possenti,/ nascite dolorose di marmi dimenticati, inascoltati.// Norman non ha mai abbandonato il suo pendolo magnetico,/ come pure le sue carte, le sculture, le pitture,/ ma anche le patate, le cipolle, le olive della sua terra,/ e le vigne con quel loro vino dal colore del sangue,/ che nella masseria/ – mommensiana ormai/ prendeva il gusto/ di sogni ulisseidi,/ di odori eneolitici,/ di sospiri di donne/gatto,/ di tormenti di nuovi messapi,/ giunti in Salento per caso,/ con un proprio magico mondo dentro,/ fascinoso e strabiliante,/ che nel silenzio conduceva sempre alla porta di Ar,/ al Gran Saraceno,/ ad Anatolì,/ a Levante,/ ad Est,/ a quel Norman Mommens venuto dal freddo,/ e che per tutta la vita dipinse e scolpì angeli,/ e che ora tra gli angeli è».

 

Patience Gray nel ricordo di Ada Donno

Un altro capitolo, sempre intrecciato con quello di Norman, è invece quello di Patience Gray, Ada aveva conosciuto Norman e Patience e da quest’ultima era rimasta affascinata. Si parlavano in inglese, senza traduttore. A volte passeggiavano insieme nei dintorni di Spigolizzi con Patience che mostrava all’amica le meraviglie botaniche della contrada. Ad un certo punto, Antonio L. Verri chiese ad Ada un profilo della britannica. La sua fu un “Short Story”. Questa: «Pazienza e lo Scultore. // Pazienza faceva la giornalista brillante e nutriva una controllata passione inglese per la botanica e la gastronomia. Aveva scritto un fortunato libro di cucina e collaborava alla traduzione britannica del “Larousse Gastronomique”. / Amava anche il disegno e per questo aveva cominciato a trascurare la carriera. / Ma la sua vita cambiò totalmente il giorno che incontrò lo Scultore di padre fiammingo e di madre inglese: da quel momento i suoi giorni furono governati completamente dalla fame di marmo di lui, che li guidò in una lunga odissea mediterranea. Il marmo decideva dove, come, in mezzo a chi andavano a vivere. Sempre comunque in condizioni primitive. Sostarono a Carrara, poi in Catalogna. Poi finirono a Nasso, in un remoto villaggio tra i monti, nell’età del bronzo. Qui divennero Anatolì e Ipomonì. / Pazienza/Ipomonì, che aveva sempre amato le lunghe passeggiate solitarie in montagna, era attratta e vagamente irritata dalla malia sensuale dei luoghi e delle cose mediterranee. Perché – si chiedeva inquieta – parole come oleandro, tamerice, o asfodelo non possono essere scritte senza emettere un sospiro, di desiderio o di irritazione? / Che cosa sono, in fondo, se non comunissimi luoghi coperti d’erbe selvatiche? / Esorcizzava la paura raccontando – a se stessa e agli stranieri – quei luoghi e le loro storie di serpenti e colombacci. Sempre seguendo la vena del marmo e delle rocce sedimentarie, approdarono infine nella penisola salentina. Anatolì scoprì il tufo e la pietra leccese e decisero di stabilirsi negli spazi a volta di una vecchia masseria in rovina e di coltivare la pietrosa terra rossa intorno. / Ipomonì continuava come sempre a leggere il paesaggio e ad osservare come gli abitanti del luogo si procuravano e trattavano il cibo: era il suo modo di stabilire una relazione d’affetto con i luoghi umani, ed era la sua lunga ricerca di un segreto che si rivela a chi è guidato da Verità e Bellezza: come ricavare il miele dalle erbacce. / Per vent’anni Pazienza ha osservato, sperimentato, annotato – sempre col sottofondo dei colpi di martello e di scalpello sul marmo, sulle pietre, sul legno. Alla fine il segreto è stato suo. / Sempre tenuta nella misteriosa stretta dell’olivo e del lentisco, del fico e della vite, Ipomonì/Pazienza ancora disegna gioielli e scrivi paesaggi, da Viaggiatrice Sofisticata, per i lettori del “New York Times” che per fortuna se ne resteranno incollati alle loro poltrone. / UN avvertimento: è molto diffidente verso chi si presenta nelle vesti di “giornalista” e cerca di penetrare così nella sua stanza di lavoro. Si sente a suo agio, invece, con gli esseri umani che sanno apprezzare il Disordine» (cfr. «Ballyhoo/Quotidiano di comunicazione, anno 1, n. 8, maggio 1991».

 

Patience Gray nel ricordo di Marilena Cataldini

In un bel testo, asciutto e arioso – “Il noto e l’ignoto” – Marilena Cataldini definiva Patience «esile e tenace come un arbusto nostrano [che] ha rappresentato l’altra parte della creatività, quella che ha intimità con i sapori della terra e con la manipolazione dei metalli […] Il suo italiano era profondo e misterioso e chiudeva ogni discorso con un sorriso. Giornalista londinese, orafa, appassionata di botanica e studiosa di gastronomia. È…] Certe volte mi è sembrato che Patience fosse una persona senza tempo. Il suo volto segnato dalle rughe in qualche modo rifletteva i solchi scavati nella campagna. […] Gli studi di Patience sui legami tra cibo, cultura e territorio vanno al di là delle semplici ricerche gastronomiche. Nei paesi anglosassoni, in America, i suoi libri “Plats du Jour” (Piatti del Giorno) e “Honey fron a Weed” che significa pressappoco Nettare dalle Erbacce, sono testi fondamentali per gli specialisti, che così si sono potuti avvicinare, lontani ospiti, alle nostre tavole. Da noi, ancora, i suoi libri rimangono non tradotti. / Patience e il sacro. Credo che il suo rapporto con la religione fosse più complesso del semplice interesse della studiosa. Era riottosa a parlarne: “si tratta di cose molte private”. Di certo, il Salento della spiritualità arcaica, delle leggende dei santi, dei riti mariani apre ad una condizione esistenziale generosa di abbandoni creativi e di cure per l’animo. Irriducibile Patience. Non amava essere fotografata e pochi e preziosi sono gli scatti che la ritraggono. Una singolare determinazione per chi aveva avuto il padre fotografo e una sorella, fotografa famosa» [cfr. M. Cataldini, in “Verso Sud. Salento d’acqua e di terra rossa” (a cura di Caterina Gerardi), AnimaMundi Edizioni, 2008, pp. 13-23].

Quando Patience raggiunse Norman nel cielo

Accadde il 10 marzo 2005. Patience da tempo non stava più bene, tanto che Nicolas, suo figlio, e la moglie Maggie, si erano trasferiti a Spigolizzi lasciando nel resto del mondo le loro tante cose. Appena qualche settimana prima di marzo, ero andato a Spigolizzi con degli amici per far sentire loro la bella storia salentina di Norman e Patience. Come sempre i presenti si sistemarono in quello che potremmo chiamare un tinello, nelle vicinanze del grande camino. Io invece mi appartai per un po’ e andai a trovare Patience, distesa sul suo letto e circondati dai suoi amati gatti. Non aveva più muscoli, ma solo pelle rugosa e ossa, una magrezza assoluta. Solo gli occhi brillavano ancora, e questa volta di un’immensa luce astrale. Non dissi una parola e nemmeno lei disse alcunché. La guardai intensamente. Non potevo fare altro, era fortissima la luce che si sprigionava dai suoi occhi. Le presi l’ormai ossuta mano e le cantai una ninna nanna. Questa. «”Di fiore in fiore vola la farfalla Pazienza”// Era fiore di primavera/ rugoso guscio di pelle antica/ petalo distillato col tempo delle uve/ naufraga su un’isola/ spezzata da venti hidruntini / e/  zagaglia di fuoco/ menhir di Spigolizzi/ pianta solare di un Salento/ – Salvato e Presicciato/ che resiste alla cottura.// Norman le volò via di notte/ con la testa fracassata/ quando ancora la casa profumava d’incenso/ e/ – lei/ quasi smarrita tra i suoi angeli celesti/ gli accarezzò il corpo/ – povera foglia d’autunno ormai/ seppellita nel mare del silenzio urlato/ dove non sente più il biancore d’albe/ e l’anima fatica a reggere la vita.// La morte/ – inesorabile/ la scrutava e vigilava nell’attesa di beccarle l’alito.// Era pianta di campo/ dalle mani d’edera avvinta,/ eppure/ involucro di crosta/ riccio di terra raggomitolato/ apice di germoglio frammentato,/ punto interrogativo aperto/ sapere di erbe/ sensore primitivo/ voglia di vino nascosta sotto l’ascella/ cascata di tramonti/ goccia di rugiada/ forra nella serra/ livrea di terra gazzettiera/ linguaggio di fiori.// Era anche arte/ e/ sogno/ come d’azzurro di cieli/ di pallidi rosa di nastri infantili/ e/ di fuochi ausonici/ che crepitano sugli orizzonti ugentini.// Di lei/ – oggi/ è rimasta una bianca farfalla/ – Pazienza/ che di fiore in fiore/ vola sulle rosse terre salentine».

(2009)

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