Le Storie dello scirocco di Paolo Vincenti

di Anna Rita Cancelli

Paolo Vincenti, autore de Le Storie dello scirocco, è uno scrittore – anche ricercatore e saggista – che esprime la propria cultura classica, pop e rock con uno stile ormai peculiare, oltre che raffinato, secondo i canoni di una pluralità di generi letterari in cui la sua opera può trovare collocazione.

Si può rinvenire in questa sua nuova opera tutto il carattere provocatorio de I segreti Oppido Tralignano, romanzo breve che precede Le storie dello scirocco.  Vi si può ritrovare la medesima ansia di interpretazione e domande sulla natura umana.

Vi si ritrova un luogo particolarissimo, Oppido Tralignano (nome di invenzione). E ritrovandolo, lo si scopre indimenticabile, perché straniante. Un luogo dalle tinte fosche, talmente asfissiante, che non è difficile immaginarlo stretto nella morsa dello scirocco. Un luogo che fa agli autoctoni – e forse anche al lettore- esattamente ciò che fa lo scirocco: avviluppa, confonde, appesantisce e fiacca. Tanto che lo scadimento ed il pervertimento delle prerogative spirituali dei diversi personaggi, sembrano essere l’unica risposta possibile, l’unico progetto esistenziale possibile.

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Lezione sulla Storia delle teorie del salario (18 giugno 2025)

Per l’Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico (AISPE).
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Lettura del dialogo Le streghe di Cesare Pavese

di Ettore Catalano

Scritto tra il 13 e il 15 dicembre 1945, il dialogo tra Circe e Leucòtea (Leucina nella prima stesura della minuta) presuppone, in realtà, un terzo personaggio, quell’Odisseo omericamente preavvertito del pericolo rappresentato dalla maga e perciò consapevole della strategia da mettere in campo per salvare sé e i compagni.  Circe, come suggerisce malignamente Pavese, “sapeva da tempo che nel suo destino sarebbe entrato un Odisseo” (teniamo presente l’articolo indeterminativo un riferito ad Odisseo, vedremo poi che ci servirà ricordare un simile particolare): la bella maga mette perciò in piedi e sapientemente allestisce “una recita”, fingendo di non sapere quello che già sa sul comportamento dell’eroe greco. Da qui quel “recitato” consapevole del dialogo nel quale entra, in modo determinante, anche il terzo personaggio (muto ma ricorrente e più volte citato da Circe) rappresentato da Odisseo.

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Il conflitto tragico in Medio Oriente

di Pietro Giannini

Nell’accezione comune l’aggettivo tragico indica estensivamente “ciò che ha gli aspetti e gli elementi proprî della tragedia, che è caratterizzato da fatti luttuosi, da eventi tristi, da gravi disgrazie e conseguenze, anche con riferimento a casi della vita comune” (Treccani online). La definizione riprende in sostanza la natura della tragedia greca e spiega in parte quello che sta succedendo in Medio Oriente. Ma da questa accezione se ne è sviluppata in epoca moderna un’altra che vede nel ‘tragico’ il riflesso di un conflitto insanabile. Ed è in quest’ultimo senso che il conflitto in Medio Oriente è ‘tragico’, perché oppone due esigenze inconciliabili: quella di Israele di conservare il proprio territorio, quella dei palestinesi (e dei popoli arabi che li sostengono) di riprenderlo. Occorre dire che questo confitto, anche se non è costitutivo della tragedia greca, non le è del tutto estraneo: un esempio è l’inimicizia tra Eteocle e Polinice, i due figli di Edipo. Nello scontro finale sotto le mura di Tebe i due fratelli si trovano schierati direttamente l’uno contro l’altro e muoiono per “uccisione reciproca” (allelofonìa). L’esempio è istruttivo anche per il modo in cui i conflitti insanabili possono concludersi, per la morte di entrambi i contendenti. O almeno per uno di essi, come sembra che stia avvenendo in Medio Oriente, perché la consistenza dei palestinesi si sta assottigliando tanto che non è difficile ipotizzare che entro non molto tempo la loro presenza sarà molto ridotta e ininfluente.

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La Pasqua di Faulkner

di Adele Errico

8 aprile 1928. È il quarto tempo di quel “poema sinfonico” che è L’urlo e il furore di William Faulkner, come lo definisce Attilio Bertolucci. È il giorno di Pasqua e la famiglia Compson, al centro del romanzo, è ormai ridotta in macerie, dopo la vergogna di Caddy, che aveva amato suo fratello Quentin “contro la volontà di lui”, dopo il suicidio di Quentin. È in una mattina squallida e fredda che “una mobile muraglia di luce grigia” rischiara la nera pelle di Dilsey, governante di casa Compson, la “madre nera” alla quale è affidato l’ultimo sguardo su questa anatomia di una caduta. Si è passati attraverso le immagini sfocate del racconto di Benjy, l’idiota, poi scaraventati indietro nel tempo nell’ossessione di Quentin, passando per la rabbia di Jason. Il tutto in tre prime persone allucinate, malinconiche, rabbiose. Fino all’approdo a un racconto in una terza persona più solida e asettica, che raccoglie le braci lasciate dagli altri tre narratori. Attraverso gli occhi di Dilsey, “scarna, paziente e indomita”, si chiude il cerchio della maledizione dei Compson, nel giorno del perdono, nel giorno della resurrezione. È una Pasqua fredda (“Sempre freddo per Pasqua. Mai una volta che non sia andata così”).

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In moto con l’arte

di Raffaele Gemma

IN MOTO CON L’ARTE, grande partecipazione di appassionati di motoveicoli d’epoca e moderni, che per le strade del centro storico di Galatina hanno spinto a mano il proprio mezzo e grande partecipazione degli amanti dell’arte che hanno apprezzato il connubio tra le due discipline fuse insieme in maniera geniale da Corrado Marra Corrima. Art Lab Second Light si conferma centro propulsore indipendente di idee e cultura di Galatina.
Lo hanno coadiuvato con performances pertinenti e di livello Fabrizio Manco, Renato K Grilli, Donatello Pisanello. Sullo sfondo opere di Corrima e Mino Specolizzi. Ph. di Alberto Filieri. Riprese di Pietro Antonaci e Alberto Filieri.

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Mio antico Salento

di Augusto Benemeglio

“L’uomo del Sud non matura. Stenta a uscire dall’infanzia.” (L. Sinisgalli)

Il Salento è patria del barocco, con un bel po’ di esoterismo, misticismo e magia  antica. Ma c’è anche un po’ d’algebra dei frutti maturi, un miracolo oscillante tra le chiome degli ulivi, formule che abitano l’aria, come amava dire il poeta tedesco Karl Krolow. Il Salento è  fatto di una bellezza prismatica scandita dai violenti contrasti,  è qualcosa simile ad un laboratorio di pittura, dove un uomo vestito tutto di bianco, con guanti di gomma, lavora secondo un orario ben preciso ed è attorniato da strumenti speciali,  e  da non so che cosa di arbitrario, accidentale, caotico, forse  un pizzico di “horror vacui”, un’infarinata di mare azzurrissimo con un versante un po’ liberty e l’altro greco classico. E  poi c’è quella ruga, quella  piega, quella cicatrice colorata che non sai bene dove  si trovi esattamente, ma sai che c’è, e si prolunga all’infinito, nello spazio. E’ precisamente lì che trovi la linea segreta di attraversamento per “l’oltre”, lo spazio mentale, il mito, la leggenda, ma anche il quotidiano convertito e reinventato in mito: la sensuale melagrana  aperta, simbolo della fecondità femminile,  e la dolcezza  del fico d’india, sotto la sua scorza ruvida e spinosa.

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Conferenze sull’Anfiteatro di Lecce, a cura di Francesco D’Andria – Lecce, 19 giugno – 3 luglio 2025

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Presentazione di Aldo D’Antico, Un paese vuol dire…, a cura di Paolo Vincenti – Parabita, 19 giugno 2025


Edito dalla Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce, esce Un paese vuol dire… Scritti di uno storico “visionario”, volume postumo di Aldo D’Antico, storico e operatore culturale parabitano recentemente scomparso. Il libro, curato da Paolo Vincenti, è il primo volume monografico dello studioso D’Antico e raccoglie una serie di articoli e saggi brevi pubblicati nel corso della sua carriera su riviste e volumi collettivi. Un’operazione meritoria, voluta dalla famiglia D’Antico e patrocinata dal Comune di Parabita col supporto di alcuni benemeriti sponsor privati, che finalmente vede la luce. Il libro sarà presentato alla collettività giovedì 19 giugno 2025 alle ore 20.30 a Parabita. La serata sarà condotta da Daniela Palma, Direttrice della rivista NuovAlba. Dopo i saluti del Sindaco di Parabita, Stefano Prete, di Ortensio Seclì per il Comitato per Aldo e di Paolo Vincenti, curatore del libro, ci saranno gli interventi di Mario Spedicato, Presidente Soc. Storia Patria Puglia sezione di Lecce, della docente Marta Seclì e di Pino Petruzzi, per il Centro di Cultura “Il Laboratorio”. Intermezzi musicali di Stefano Seclì e Alessandro Vigna. Conclusioni dell’editore Tommaso D’Antico.
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Manco p’a capa 262. I funambolismi logici del Ministero della Paura

di Ferdinando Boero

Il Ministero della Paura di orwelliana memoria è entrato in funzione e sono in molti ad operare al suo comando. Dobbiamo aver paura degli immigrati che stuprano le nostre donne, dei ladri che ci svaligiano l’appartamento, e degli stati vicini che potrebbero aggredirci e soggiogarci. La soluzione del problema immigrati è semplice: barriere e deportazione. Per i ladri basta inasprire le pene e mettere l’allarme in casa. Mentre la soluzione al problema degli invasori è un tantino più complessa. Ci dobbiamo armare fino ai denti e dobbiamo cambiare i nostri arsenali. Gli F35 non servono a niente, a fronte di attacchi di droni, e poi ci sono i missili ipersonici. I nostri vicini, i russi, sono una minaccia esistenziale per la nostra sicurezza. E loro hanno percepito l’Ucraina, che discrimina i russofoni e pianifica basi NATO a un metro di distanza dal confine russo, come una minaccia altrettanto esistenziale alla loro sicurezza. Anche Israele, che ha l’atomica, sente come minaccia esistenziale l’Iran che, non avendo l’atomica, vorrebbe dotarsene, visto il curriculum di Israele che, infatti, bombarda l’Iran in una guerra preventiva: ti colpisco prima che tu colpisca me. E ovviamente lo faccio per difendermi, anche se ancora non mi hai attaccato. Se poi qualcuno fa tanto di attaccarmi, dopo che i miei coloni hanno fatto quel che han fatto in Cisgiordania, rado tutto al suolo, donne e bambini compresi. Negando alla Palestina il diritto ad esistere, tanto per tornare alle minacce esistenziali.

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Intervista a Francesco D’Andria: «C’è un anfiteatro negato: restituiamolo alla città e poi riapriamo agli eventi»


di Renato De Capua

L’archeologo D’Andria sottolinea la necessità di conoscere e far conoscere quelle parti del monumento romano, oggi inaccessibili, che si trovano in via Verdi, sotto la banca, e in vico della Bagliva.

Nel corso della prossima settimana il patto per la valorizzazione dell’anfiteatro e dell’area archeologica di Rudiae tra il Comune di Lecce e la Soprintendenza approderà in Giunta. Al suo interno, però, attualmente mancherebbe una voce esplicitamente dedicata all’anfiteatro di età augustea di Piazza Sant’Oronzo. Soltanto nell’articolo 9 si contempla “l’estensione dell’ambito di applicazione dell’accordo” anche ad altri monumenti della Città. Secondo l’archeologo e accademico dei Lincei Francesco D’Andria ora occorre individuare una nuova strategia operativa integrata, nella direzione di un’archeologia pubblica, in grado di coinvolgere cittadini e turisti nella riscoperta delle proprie radici e della ritrovata romanità di Lupiae.


Professor D’Andria, al momento c’è l’accordo per la promozione, la fruizione e la valorizzazione dell’anfiteatro e dell’area archeologica di Rudiae. Che cosa si sta pensando di fare per i quattro monumenti di età romana?

«L’accordo è uno strumento molto utile, il prossimo passo è concretizzarlo con una serie di azioni, in particolare, a partire dal prosieguo degli scavi a Rudiae nell’area di Fondo Acchiatura. Il prossimo obiettivo è portare alla luce le strutture del quarto edificio teatrale, identificato grazie alle indagini geofisiche. La prospettiva più ampia deve essere quella di una valorizzazione integrata del patrimonio antico di Lecce, soprattutto per quanto riguarda la fase romana».

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L’annosa e controversa questione della demolizione del sepolcro dei Carraresi-Papafava sul sagrato della Basilica del Santo a Padova

di Rocco Orlando


Litografia del Santo (1842) di Georg Moore, da un disegno di Domenico Quaglio. L’opera è stata esposta nella mostra dal titolo “Il Santo com’era: rappresentazioni della Basilica attraverso i secoli”, organizzata nel Museo Antoniano della Basilica di Sant’Antonio a Padova, dal 23 maggio al 6 luglio 2019, a cura di A Sorgato e G. Baldissin Molli. La figura mostra la presenza del sepolcro Carraresi.

     Tanti sono i pellegrini che ogni anno si recano alla Basilica di S. Antonio a Padova per pregare e vedere “delle meraviglie e delle cose più belle che si ammirano internamente ed esternamente nella basilica del gran taumaturgo s. Antonio di Padova”, come si legge sulla copertina del libro scritto da Angelo Bigoni nel 1816. Ma il visitatore cosa coglie per prima? È la vasta piazza con il suo monumento al Gattamelata. Ma la piazza è stata sempre così oppure ha subito modifiche nel tempo?  Sicuramente ci sono state modifiche per rendere la piazza allo stato attuale, eliminando “arche e sepolcri” delle persone “pie e divote” che avevano voluto trovare la pace eterna nei pressi della Basilica del Santo.  

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 30. Paesaggio urbano con frutteto


Pietre tufacee, vetro e decorazioni in metallo dipinte, cm. 42 x 37, 2019.
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Lezione di Antonio Prete, Francesco e il Cantico delle creature – Milano, 18 giugno 2025

Fondazione Corriere della Sera.
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Tra indignazione e malinconia: a proposito di Paolo Maria Mariano, Parlami…

di Pietro Giannini

Ci sono due vie, avverte l’Autore (in alcune pagine che possiamo considerare come ‘premessa’) per “cogliere le radici di ciò che nel mondo ha libertà di accadere” (e che però si nasconde). Una è quella dello scienziato che opera su modelli matematici, l’altra è quella del poeta che è “ritmica, canora, sonora, emozionale”. L’Autore le ha praticate entrambe, ma in questo libro (P.M. Mariano, Parlami…, Alvivo Edizioni e Fondazione Francis Bacon 2025) dichiara di dismettere temporaneamente la sua veste di scienziato per assumere quella di poeta, qualunque sia la sorte che i suoi versi avranno. C’è un’altra avvertenza che giova trarre dalle parole iniziali: che egli “non ha seguito regole metriche, semmai la traccia d’una sonorità interiore nel momento della scrittura”. Siamo dunque al grado zero della ritmicità, ma, come avverte Queneau, “per generazioni la poesia è stata l’arte di sistemare secondo sonorità e ritmi precisi parole di senso compiuto”. E comunque l’esigenza ritmica è presente nei testi scritti (come, cercheremo di dirlo) ed anche nelle intenzioni dell’Autore, giacché la ‘premessa’ iniziale ha un titolo rivelatore: “Poche parole prima di ascoltare”: ‘ascoltare’, si badi, non ‘leggere’.

Vediamo ora come queste premesse si sono realizzate nel libro. Il quale (sempre nelle dichiarazioni dell’Autore) si articola in due parti, una di natura ‘politica’, riferita cioè a eventi pubblici, l’altra “che include versi più intimi”.  

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Nell’Archivio di Michele Saponaro 9. La collaborazione di Vilfredo Pareto alla «Rivista d’Italia», con lettere inedite a Saponaro (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

Lettere inedite di Vilfredo Pareto[1]

I

Céligny li 9 Gennaio 1918

Pregiat.mo Signore

Oggi solo mi giunge la sua lettera del 2 ct.

La ringrazio della sua richiesta alla quale mi sarebbe grato accondiscendere. Ma non so se l’indole degli articoli che potrei scrivere si confà all’indole del suo giornale. Potrò averne un concetto, se ella mi manda un numero della Rivista d’Italia.

L’indole dei  miei lavori è quella della mia sociologia, che forse le è nota[2]. Io non sono in grado di scrivere pel sentimento, la propaganda, ecc. La mia specialità è lo scetticismo scientifico.

Con distinta stima

Devot. Vilfredo Pareto

[Cartolina postale manoscritta sul recto, indirizzata sul verso a «Ill Sig M. Saponaro / Giornale La Sera / Milano / Corso Venezia, 48». Mittente: «Vilfredo Pareto / Céligny (Genève)»].

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Paolo Vincenti, Prefazione a Aldo D’Antico, Un paese vuol dire…

di Paolo Vincenti

Quello che avete fra le mani è il primo ed unico volume monografico di Aldo D’Antico, che esce postumo per via degli strani percorsi che a volte sceglie il destino. Come gli amici e tantissimi Parabitani, sentivo di avere un debito di riconoscenza nei confronti di Aldo, che con questo libro inizio ad onorare. La strada si presentava in salita. La produzione di Aldo è vasta. Mi era chiaro che il mio compito non sarebbe stato facile: ma ordinare e al contempo operare una selezione fra questi materiali così difformi e magmatici si è rivelato ancor più arduo delle previsioni. Aldo D’Antico era un infaticabile ricercatore ed un ineguagliabile divulgatore di patrie memorie. Tanto indefesso e puntuale nelle sue ricerche, quanto disordinato per le sue stesse cose. Può sembrare un paradosso: lui, che per tutta la vita si è fatto raccoglitore di reperti, foto, manoscritti, documenti e memorabilia, che poi ha scrupolosamente schedato e catalogato, non ha mai organizzato sistematicamente i propri scritti, nemmeno mai tracciato una propria bibliografia.

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Inchiostri 150. Ettore Sottsass a Kyoto

di Antonio Devicienti

Ettore Sottsass dedica (Domus, 300, novembre 1954, ora leggibile in Per qualcuno può essere lo spazio, Adelphi, Milano 2017) una riflessione a Katsura, villa imperiale a sud-ovest di Kyoto.

Sottsass riflette sul rapporto tra tradizione occidentale e tradizione orientale: l’una (la tradizione occidentale) è inesorabilmente determinata dall’imperativo economico e dalla volontà a risolverlo seguendo una linea precisa che è quella di rinunciare a ogni cosa che non sia la struttura. Su questa idea di partenza si innestano, a integrarla, le imposizioni, le azioni e le reazioni di una società che attribuisce alla macchina la sua rovina, ma che ripone anche nella macchina la speranza della sua salvezza; l’altra (la tradizione giapponese) è invece determinata da un imperativo mistico che ha dotato quella società di un ordine e di un equilibrio perfetto, antico e astratto fino a una sublime purezza, dove tutte le cose e gli uomini e le azioni e le reazioni e il mondo intero sono stratificati e catalogati e ordinati e gustati non certo secondo una legge economica ma per leggi astratte e simboliche, per dogmi, definizioni, convenzioni – ovviamente il designer milanese fa riferimento alla tradizione giapponese classica senza tener conto, in questo caso, delle contraddizioni anche estreme e dei traumi profondi che caratterizzano il Giappone del secondo dopoguerra.

Quindi Sottsass si sofferma sul parco che circonda la villa sottolineandone il rapporto con tre classici della letteratura giapponese (Kokinshū, Man’yōshū e Storia di Genji): fioriture, piante, alberi sono stati pensati in rapporto diretto a personaggi, luoghi e situazioni di quelle opere letterarie.

A lasciarsi affascinare dalle riflessioni di Sottsass (quella estrema dolcezza e morbidezza tremante degli spazi, quella proporzione incantata, quella signorilità casta e diretta, senza voce e senza gesti, fatta soltanto di rispetto per le cose più banali del mondo: la paglia, il legno, la pietra, la carta) ci si potrebbe spingere a riconoscere nella villa di Katsura una scrittura che, dentro un paesaggio totalmente modellato dalla mente umana, dialogando con la letteratura, scrive l’alternarsi delle stagioni e il susseguirsi dei giorni, in un (ossimorico?) permanere dell’impermanenza e ciclico ripetersi dello svanire.

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I resti di Babele 33. Paola Scialpi. Il tempo come opera d’arte

di Antonio Errico     

E’ come mettersi su una soglia tra presente e passato e guardare le scene essenziali di un’esistenza che scorrono una dopo l’altra: nitide, ordinate. Leggere.  E’ come ritrovare nelle forme dell’arte il lievito semantico di ogni stagione, dei giorni, delle ore. E’ come una madeleine proustiana, come un’epifania inaspettata. Non un resoconto, ma una sintesi sostanziale; non un album di foto, ma un movimento di teatro. Senza nostalgia: con consapevolezza. Forse l’arte serve a questo. Probabilmente serve a questo: a riguardarsi un po’ a distanza, per poter osservare meglio, per poter capire meglio quello che è stato e a volte anche il motivo di quello che non è stato. Per riconoscere l’origine delle sensazioni, delle emozioni, delle idee. Per poter attribuire una ragione alle passioni e una passione ad ogni ragione. Questo mi è sembrato il senso delle opere presentate nel catalogo per Paola Scialpi affettuosamente e rigorosamente curato per I quaderni del bardo da Lucio Galante e Maurizio Nocera, con il progetto e la cura grafica di Mauro Marino.

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La maternità come «ventura inevitabile del sangue» e il mito della Mater Tellus in Luigi Pirandello

di Ettore Catalano             

ABSTRACT

Il mio contributo lega, in un percorso di  suggestioni larvali e spettrali, tre testi pirandelliani legati al tema della maternità  (Laltro figlio, La vita che ti diedi e La nuova colonia), nei quali lo scrittore siciliano tende a distruggere il sentimento materno come trasmesso dalla drammaturgia otto-primonovecentesca, rileggendolo attraverso la creazione di maschere affette da tetra demenza, in lotta con la prepotenza del maschio, fino ad approdare alla creazione del mito della Mater Tellus.

Vi è un filo apparentemente sottile che lega testi come L’altro figlio, La vita che ti diedi e  La nuova colonia: si tratta di opere legate al tema della maternità e tuttavia tale tematica gira pirandellianamente intorno all’idea di una maternità che si nega a se stessa e scomodamente ed impudicamente si arrocca intorno al sentimento di una carnale passione per il figlio, tendendo alla distruzione di uno dei baluardi della drammaturgia otto-primonovecentesca, vale a dire il sentimento materno come depositario della gentilezza dell’animo femminile, pudore virginale ed insieme potente collante sociale della umana riproduzione, legata ad una serie di valori che leggono la famiglia come nucleo fondante della società.

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