di Antonio Devicienti
Ettore Sottsass dedica (Domus,
300, novembre 1954, ora leggibile in Per qualcuno può essere lo spazio,
Adelphi, Milano 2017) una riflessione a Katsura, villa imperiale a sud-ovest di
Kyoto.
Sottsass riflette sul rapporto tra
tradizione occidentale e tradizione orientale: l’una (la tradizione
occidentale) è inesorabilmente determinata dall’imperativo economico e dalla
volontà a risolverlo seguendo una linea precisa che è quella di rinunciare a
ogni cosa che non sia la struttura. Su questa idea di partenza si innestano, a
integrarla, le imposizioni, le azioni e le reazioni di una società che
attribuisce alla macchina la sua rovina, ma che ripone anche nella macchina la
speranza della sua salvezza; l’altra (la tradizione giapponese) è invece
determinata da un imperativo mistico che ha dotato quella società di un ordine
e di un equilibrio perfetto, antico e astratto fino a una sublime purezza, dove
tutte le cose e gli uomini e le azioni e le reazioni e il mondo intero sono
stratificati e catalogati e ordinati e gustati non certo secondo una legge
economica ma per leggi astratte e simboliche, per dogmi, definizioni,
convenzioni – ovviamente il designer milanese fa riferimento alla tradizione
giapponese classica senza tener conto, in questo caso, delle contraddizioni
anche estreme e dei traumi profondi che caratterizzano il Giappone del secondo
dopoguerra.
Quindi Sottsass si sofferma sul parco
che circonda la villa sottolineandone il rapporto con tre classici della
letteratura giapponese (Kokinshū, Man’yōshū e Storia di Genji):
fioriture, piante, alberi sono stati pensati in rapporto diretto a personaggi,
luoghi e situazioni di quelle opere letterarie.
A lasciarsi affascinare dalle
riflessioni di Sottsass (quella estrema dolcezza e morbidezza tremante degli
spazi, quella proporzione incantata, quella signorilità casta e diretta, senza
voce e senza gesti, fatta soltanto di rispetto per le cose più banali del
mondo: la paglia, il legno, la pietra, la carta) ci si potrebbe spingere a
riconoscere nella villa di Katsura una scrittura che, dentro un paesaggio
totalmente modellato dalla mente umana, dialogando con la letteratura, scrive
l’alternarsi delle stagioni e il susseguirsi dei giorni, in un (ossimorico?)
permanere dell’impermanenza e ciclico ripetersi dello svanire.