Lo stato dell’Arte 2. Le condizioni di salute in cui versa la critica

di Massimo Galiotta


Firenze, Santa Maria del Fiore, collage, 3 marzo 2025.

È di questi giorni la notizia delle critiche piovute addosso alla redazione di Artribune (sito web) per un articolo a proposito della mostra di arte contemporanea allestita in pieno centro storico a Firenze: la rassegna Il cielo sopra Firenze, degli scultori Marco Lodola ed Emanuele Giannelli, collocata in Piazza Duomo, proprio dietro l’abside di Santa Maria del Fiore, promossa e patrocinata da Regione Toscana e Opera Medicea Laurenziana ha sollevato molte critiche. L’articolo, C’è un minestrone di scadente arte pubblica contemporanea ai piedi del Duomo di Firenze, firmato da Massimiliano Tonelli, del 3 marzo 2025, che ha provocato l’ira funesta dell’ufficio stampa addetto, accende i riflettori sullo stato di salute precario in cui versa la critica dell’arte. Soprattutto quella rivolta agli artisti contemporanei, ancora vivi e vegeti, che rispondono per le rime (non tutti), alzando i toni scompostamente e minacciando ritorsioni nelle sedi competenti e oltre, scoprendo così una ferita che sanguina ormai da tempo: ovvero quale sia il modo migliore di fare critica al giorno d’oggi.

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Marcello Toma, Il tempo sospeso


Olio su tela, 70×50 cm, 2021
Collezione privata.
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Dalli al professore!

di Gigi Montonato

Un altro caso di violenza nei confronti di un professore, anzi di una professoressa da parte di una ragazza. È accaduto all’Olivetti di Lecce, un istituto tecnico commerciale di molto buona reputazione. Ne succede uno al giorno di questi casi. Ormai si insegue il primato del femminicidio. Si farà una legge specifica anche per chi picchia i professori? E quelle che ci sono non servono? Le leggi son – diceva il padre Dante – ma chi pon mano ad esse? Risposta: nessuno, quando non si vuole considerarle se ne fa un’altra, tanto le leggi in Italia non servono né a prevenire né a reprimere.

Se fossi abituato a ringraziare Dio lo ringrazierei per avermi fatto passare indenne attraverso quarant’anni di insegnamento. Qualche piccolo problema con qualche genitore, dal quale mi difendevano proprio i figli. Lo vuoi o non lo vuoi capire che io non voglio studiare? Gridò in faccia un mio alunno che andava male al genitore che era venuto a scuola per farmi la festa. Che però fossi amato da tutti i miei alunni non m’illudevo. Un giorno un bidello mi disse; professore, sulle pareti del bagno sei più protagonista di Supermario e non ti dico che c’è scritto. Qualche scrittarella sui muri esterni pure. Un giorno trovai il mio cassetto con la targhetta “corretta”, invece di Montonato, Montonano. Pazienza. Ma mai una minaccia fisica! Mai una mancanza di rispetto di fronte. A scuola è normale che nascano antipatie e intolleranze tra professori e alunni. Un buon professore deve saperle esorcizzare.

C’è qualcosa di diverso oggi nell’aria scolastica. C’è che i professori non godono più di quella sacralità di quando la scuola registrava percentuali alte di analfabetismo e l’andare a scuola per moltissimi italiani e imparare a leggere e scrivere era come ricevere un sacramento laico, più grande di tutti i canonici sacramenti religiosi messi assieme.

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L’attività letteraria nel Salento attraverso le riviste 1970 – 2005 (parte seconda)

 di Antonio Lucio Giannone

Verso la fine degli anni Settanta e nel decennio successivo,  si assiste a un fenomeno comune nel Salento come nel resto della nazione: il ritorno allo specifico letterario dopo anni di sperimentazione interartistica. Una figura assai attiva in questo periodo e che resta attiva fino alla morte prematura avvenuta nel 1993 è quella di Antonio Verri, la cui opera è ancora tutta da esaminare criticamente e obiettivamente al di là della pietas che ispira la sua vicenda umana e soprattutto al di là delle mitizzazioni degli amici che a volte fanno più male che bene. Anche nel campo della pubblicistica letteraria, com’è noto, Verri si diede molto da fare, fondando e dirigendo alcuni periodici con le poche forze che aveva a disposizione ma sempre con grande generosità, abnegazione e sacrifici anche personali[1].

            La prima, piuttosto velleitaria, in verità, iniziativa di Verri, in questo campo, è “Caffè Greco”, che va avanti dal 1977 al 1981, in due serie, prima in formato tabloid (due numeri usciti a Caprarica di Lecce e a Lecce) e poi come rivista (quattro fascicoli),  con scarsa, quasi inesistente, cura dell’aspetto formale (la veste grafica muta continuamente). “Caffè Greco” non è una rivista esclusivamente letteraria ma di carattere vario, anzi all’inizio, nei primi due numeri, lo spazio della letteratura è piuttosto limitato. Anche i fascicoli seguenti però lasciano a desiderare per vari motivi.  Lo stesso Verri,  nell’editoriale premesso all’ultimo numero del maggio 1981, consapevole dei  limiti di questa sua iniziativa, facendo una sorta di bilancio, manifesta esplicitamente  “riserve” nei confronti del “lavoro già fatto” e onestamente confessa: “Salviamo solo la nostra fede nella scrittura e il nostro… candore”[2]. Proprio l’ultimo fascicolo, il più corposo, e sicuramente il migliore, da lui definito, non si capisce perché,  “d’opposizione”, presenta alcuni scrittori di buon livello, salentini e pugliesi, come L. Mancino, B. Balistreri, L. Angiuli, R. Nigro, C. A. Augieri, E. Panareo, W. Vergallo, E. Corianò e altri, oltre al più anziano Michele Pierri.

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Cartoline postali 1. Al Signor Fernando Pessoa, Lisbona

di Antonio Devicienti

Gentile Signor Pessoa,

certamente può sembrare irriverente che un perfetto sconosciuto Le scriva, ma sia indulgente, La prego: l’amore e l’ammirazione di lettore forse mi giustificano.

Se anch’io possedessi degli eteronimi, ebbene, potrebbero essere voce (una voce dal Suo futuro e dal mio presente che qui coincidono), oppure prossima lontananza (ingegnoso ossimoro, spero, ch’esprima l’innegabile distanza temporale che ci separa e l’altrettanto innegabile vicinanza di chi La legge con passione).

Desidero ringraziarLa per le pagine in cui si dà a vedere la soglia sottilissima tra reale e immaginario, tra percezione dell’esistere e desiderio, tra possibile e impossibile, tra sognato e non realizzato, tra attesa e scorrere del tempo.

Non dimenticherò mai Lisbona (la Sua Lisbona, ma anche, mi sia consentito, quella ch’è diventata la mia Lisbona respirata in una meravigliante settimana di primavera di qualche anno addietro) – è proprio vero che «non ci sono  […]  fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole».

Un caro saluto [A. D.]

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Di P.P. Pasolini e del suo sguardo indagatore

di Maurizio Nocera

In memoria del fotografo materano Domenico Notarangelo che, sul set de Il Vangelo secondo Matteo, si nascose per fotografare Pasolini.

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Lido di Ostia, 2 novembre 1975) è stato poeta, regista, pittore, tanto altro ancora. È stato un saggio che ha saputo fondere il sapere con la politica, intesa come partecipazione attiva alla vita sociale e culturale. La poesia però è stata per lui l’aspetto caratterizzante l’umanità emergente nella sua monumentale opera letteraria e cinematografica.

Perché? Anche quando egli direttamente non scriveva o interpretava poesia, tutto quello che faceva, lo faceva con un timbro poetico. Le ceneri di Gramsci (undici poemetti scritti tra il 1951 e il 1956) sono una delle sue raccolte più belle: ancora oggi continuano a essere punto di riferimento originale nel firmamento poetico italiano.

Pasolini fu un militante politico, sicuramente atipico per i suoi tempi. Attento alla trasformazione della società, ebbe il coraggio di innovare il suo sguardo indagatore su quel che andava accadendo in Italia a tal punto che il suo partito (Pci) non lo capì. Fu partigiano della pace, e questa è una delle più belle pagine della sua militanza politico-culturale. Nel 1949 partecipò al primo congresso mondiale della pace a Parigi, organizzando successivamente altri eventi pacifisti nel nostro Paese.

Egli, dunque, fu poeta, e scrisse i suoi versi in dialetto e in lingua. Alcuni dei titoli delle sue raccolte poetiche sono: Poesie a Casarsa (1942), La meglio gioventù (1954, altro titolo La nuova gioventù), Ragazzi di vita (1955, narrativa), Una vita violenta (1958, narrativa), La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964). Curò l’Antologia della poesia dialettale del Novecento (1952) e il Canzoniere italiano (1955).

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Herpes Zoster (o fuoco di S. Antonio): la necessità della vaccinazione

di Rocco Orlando

     L’infezione di Herpes Zoster (H.Z.), (comunemente nota come “Fuoco di S. Antonio”, è la conseguenza della riattivazione del virus varicella zoster (VZV). La malattia è chiamata “Fuoco di S. Antonio” per via di un’antica associazione con l’eremita egiziano (250-356 circa), che resistette nel deserto agli insidiosi attacchi del demonio, riportando ustioni sul corpo. Il virus si contrae di solito durante l’infanzia e si manifesta con la varicella; poi la malattia esantematica si risolve, ma il virus tuttavia rimane silente.  Chiunque abbia avuto la varicella può sviluppare un herpes zoster. La riattivazione del virus è più frequente nelle persone anziane o immunodepresse. La severità dell’herpes zoster e delle sue complicanze aumenta nelle persone oltre i 50 anni.

     Il periodo di incubazione in media è di due settimane con valori estremi di 9-21 giorni. Può seguire un periodo prodromico caratterizzato da malessere, febbre, disturbi gastrointestinali, dolorabilità lungo i tronchi delle radici spinali e nelle zone cutanee corrispondenti.

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Presentazione del catalogo generale della sesta edizione della Biennale d’arte contemporanea Syncronicart 6 – Galatina, 15 marzo 2025

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La Storia della Medicina tra passato e futuro. Convegno Nazionale di Studi Storico-medici per i novant’anni di Gianni Iacovelli – Taranto-Massafra, 14-16 marzo 2025

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Gli Anni d’Oro di Marco Guzzi

di Carmine Luigi Ferraro

Negli ultimi anni, almeno dal 2020, stiamo assistendo all’accelerazione di certi fenomeni socio-politici, prima difficilmente registrati. Parliamo di fenomeni, evidentemente negativi, che portano alla negazione/sottrazione di diritti, la diffusione di una ‘cultura’ della guerra come sinonimo, paradossalmente, della conservazione dei “diritti” e della “pace”. Ci troviamo davanti ad un’inversione evidente dal punto di vista linguistico ed anche culturale. In questo periodo storico assistiamo, cioè, ad un’accentuazione della caratteristica egoico bellica –come la definisce Marco Guzzi – propria dell’uomo e che ha sempre portato con sé non solo la distruzione di popoli, terre, culture…

Marco Guzzi, poeta, filosofo, conduttore radiofonico, nonché fondatore dei gruppi “Darsi Pace”, pubblica questo suo nuovo libro (Marco Guzzi Gli Anni d’Oro (2020-2026), Ed. Paoline, Milano 2024, pp. 184) con una copertina di colore dorato. Un colore accostabile sicuramente all’oro, ma anche alla sabbia, al deserto. In questo caso, la sabbia si riferisce alla crisi culturale generalizzata che sicuramente stiamo vivendo e che afferisce alla nostra identità, la nostra coscienza, la nostra libertà, la crisi del linguaggio comunicativo, che non riesce più a comunicare idee, parole, visioni del mondo che – specie in questo momento- sono solo negative. Sempre più spesso, ascoltiamo su tutti i media, un riferimento accondiscendente alla guerra, con la possibilità che si faccia globale ed anche nucleare, senza che le classi dirigenti si muovano in direzione opposta; anzi, esse spingono, consapevolmente e quindi in relazione di complicità, nella direzione della guerra.

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Presentazione di Lucia Saracino, Viaggio a Smirne. Diario di Nina 1905 – Matino, 14 marzo 2025

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L’attività letteraria nel Salento attraverso le riviste 1970 – 2005 (prima parte)

 di Antonio Lucio Giannone

            Per tracciare un panorama dell’attività letteraria nel Salento negli ultimi decenni, limitatamente alla provincia di Lecce, prenderò come punto principale di riferimento le riviste e i fogli di poesia che si sono succeduti in questo periodo e che offrono un’idea abbastanza precisa delle tendenze, delle presenze, dei valori presenti in quest’area della Puglia. Il punto di partenza  sarà un anno preciso, il 1970, una data che si può considerare quasi emblematica per la cultura letteraria salentina per due ordini di motivi. In primo luogo, perché questo è l’anno della morte del maggiore scrittore pugliese del Novecento, Vittorio Bodini, che dagli anni Trenta agli anni Sessanta aveva caratterizzato la vita culturale leccese con la sua forte personalità e le sue iniziative. Inoltre, perché nel 1970 ha inizio la nuova serie dell’ “Albero”, che deve essere considerata la più importante rivista letteraria salentina (e forse meridionale) del secolo appena trascorso.

            I primi anni anni Settanta, comunque,  segnano  una svolta e al tempo stesso rappresentano anche una  ripresa, a mio avviso, dell’attività letteraria e artistica nel Salento, dopo l’irripetibile stagione degli anni Cinquanta, durante i quali questa regione poteva vantare ben quattro riviste di notevole livello: “L’Albero” di Girolamo Comi,  “L’esperienza poetica” di Bodini con la sua innovativa proposta di una terza via tra ermetismo e neorealismo, il supplemento letterario del “Critone”, curato da Vittorio Pagano e “Il Campo”, di Francesco Lala, Giovanni Bernardini e Nicola Carducci. Ma questo è stato un periodo ampiamente storicizzato e studiato e dunque non è il caso di soffermarsi oltre[1].

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Inchiostri 146. di nuovo per Ettore Spalletti

di Antonio Devicienti

Il colore non è accessorio, ma esso è LUCE ed è SILENZIO. Impensabile (impercepibile) lo SPAZIO senza il colore.

L’immersione nel colore è nascita, muoversi nel colore è rinnovata nascita, genesi. Strato su strato il silenzio addensa il sostare nell’esistere: lèggere il limite bianco dell’azzurro, ascoltare la cubicità e la conicità della luce. Spazio: moto incessante:  superfici di levigate materie (eppure porose, tessiture delle vernici, microscopici avvallamenti e rughe) di concepite distanze – goniogenesi.

Oftalmogenesi.

Così lo sguardo nasce a sé stesso mentre diviene e si fa spazio     :     colore.

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Il Diario di Nina

di Mario Spedicato

Con piena condivisione abbiamo accettato la proposta di dare approdo editoriale al lavoro di Lucia Saracino, che fra l’altro ci ha consentito di riprendere la continuità con un filone inaugurato da una delle prime uscite di questa Collana, Tra l’acqua santa e l’acqua salata di Tommaso Astarita (MeditEuropa, 2008) e proseguito, per altro verso, con il volume di Sergio Fracasso “Signori… in carrozza” (“Cultura e Storia”, 2015). Mentre questi due lavori attengono all’indagine sull’identità meridionale – che il primo ricostruisce a partire dalle vicende storiche del Mezzogiorno d’Italia, e il secondo esplora attraverso un diario di viaggio di un aristocratico salentino – nel caso del Diario di Nina la visuale è quella dall’occhio analitico e indagatore di una giovane donna milanese la cui lunga trasferta non è riconducibile alle finalità del Grand Tour.

La storia descritta e narrata dal Diario di Nina è riferita a una vicenda personale e familiare che matura in un viaggio tra il Nord e il Sud dell’Europa (andata e ritorno), e può essere considerata emblematica del problematico rapporto fra mondi che ai primi del Novecento non si conoscono e talvolta nemmeno si riconoscono secondo modalità paritetiche. Sebbene alcuni familiari di Nina,  per affari, da tempo si siano insediati sulla sponda orientale del Mediterraneo, alla giovane milanese forse non è stata prima concessa la possibilità di visitarli e, nell’occasione, di conoscere luoghi e genti molto differenti rispetto a quelli a lei abituali. Il Diario racconta quindi la storia di un incontro asimmetrico, in cui la controparte è collocata nel ruolo subalterno di oggetto osservato, del quale solo indirettamente e implicitamente possiamo comprendere azioni e reazioni. E il “Mare fra le terre” non costituisce solo lo scenario paesaggistico della storia ma, in non pochi passi, assurge a ruolo di protagonista con i suoi colori, rumori, movimenti.

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Presentazione di Paolo Vincenti, Donne di potere nell’Alto Medioevo – Trepuzzi, 11 marzo 2025

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Ci la porta curta e rizza…

Viaggio nella letteratura popolare salentina tra sensi, nonsensi e doppi-sensi

di Antonio Mele / Melanton

Queste non sono bagatelle, amici Lettori! Hanno certamente il sapore dello scherzo, della burla, del gioco; possono anche apparire facezie o stregonerie impertinenti e talora scostumate; tengono in sé, di frequente, la malizia di stampo il più popolaresco e aggressivo, libero e senza freni; non si curano, almeno in apparenza, di auliche elevatezze e di voli pindarici, e spesso sono anzi, e di buon grado, proprio terra-terra.

Attestazioni per lo più povere e scarne. Giocose sempre, nella loro apparente irriverenza. E volutamente semplici o semplicistiche, proprio per essere agevolmente riprese dal popolino più umile e incolto, particolarmente dai molti che, in un tempo non tanto lontano, erano davvero di poche parole, totalmente digiuni di un linguaggio appena ordinario, e men che meno di fraseologie eleganti e forbite.

Simili ‘invenzioni’ (che avevano anche una sottaciuta funzione di rivalsa o riscatto, radunando in sé varie congerie di aspirazioni e desideri inappagati) si manifestavano quindi, soprattutto nella tradizione contadina, con modalità espressive assolutamente spontanee, riuscendo tuttavia, nel loro dispiegarsi secco e lapidario, a toccare frequentemente vertici letterari insospettabili, oltre che trovate di elevato ingegno: un aspetto creativo radicalmente puro, che dà infine, soprattutto agli astuti indovinelli, una qualifica di preziosità assoluta.

È per l’appunto un piccolo viaggio curioso, questo, al quale vi invitiamo con gioia: uno sconfinamento nell’arte del pensiero anche libero e libertino, della creatività immaginifica, della fantasia e giocheria di parole e d’idee… Che erano abituali nelle corti e nei borghi di mille anni fa, ma anche di duemila e tremila, e perfino ai tempi degli Egizi o degli Assiri-Babilonesi, per giungere poi di ritorno fino alla nostra stessa civiltà contadina, alle nostre case e famiglie di ieri o dell’altro ieri, quando la sera ci si riuniva per ascoltare “cunti”, storie, e facezie di paese.

Parole, in definitiva, che erano anche sentimenti, meraviglie e magie: specchio fatato della piccola quanto sconfinata mente dell’uomo.

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Per un invecchiamento sano e longevità secondo gli esperti

di Rocco Orlando

     “Non è importante aggiungere anni alla vita, ma vita agli anni”. Questo scrive Carla Sessa sulla rivista “Informa“ del 2010, dove riporta, tra l’altro, quanto afferma il premio Nobel Rita Levi Montalcini: “Meglio aggiungere vita ai giorni che giorni alla vita”, e ancora: “La vecchiaia non esiste perché il mio cervello lavora sempre ed è essenziale” […]. “Se la durata della vita media è di circa 80 anni, la durata della vita media in salute è in realtà 50 anni”. C’è un intervallo di 30 anni e la cosa più importante sarebbe quella di trasformare questi trent’anni in un periodo di vita sana: questo significherebbe non solo elevare la qualità della vita delle persone, ma anche liberare risorse importanti del servizio sanitario nazionale.

     La giornalista Sessa riprende: “La salute non è assenza di malattia, ma la presenza di un benessere fisico, mentale ed emozionale. Una persona fino a qualche anno fa si definiva vecchia intorno ai 60 anni, ma oggi la scienza ha dimostrato che quella che conta maggiormente non è l’età anagrafica, che ha solo un valore burocratico, ma l’età più veritiera è quella biologica che è la conseguenza di come invecchiano i tre sistemi principali del nostro organismo: endocrino, nervoso e immunitario. .L’invecchiamento dipende sia da fattori genetici, ma su questi agiscono altri fattori ambientali come stress, inquinamento, alimentazione poco equilibrata, stile di vita irregolare. Ma esistono altri fattori che influenzano l’invecchiamento e sono le patologie ad esso correlate tra cui malattie cardiovascolari, cancro, diabete, obesità, morbo di Alzheimer, osteoporosi, artrosi, malattie croniche del fegato, apnee notturne ostruttive, malattie di cui uno stile di vita sano e salutare può prevenirne l’insorgenza o gestirne correttamente l’eventuale presenza”.

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Lo stato dell’arte 1. Perché ci piace così tanto Caravaggio

di Massimo Galiotta

Una mostra retrospettiva – come quella di Caravaggio al romano Palazzo Barberini – è il modo migliore per fare il punto, per aggiornare il catalogo generale di un artista del passato. Si tratti di un autore di fama internazionale o no, la rassegna espositiva ha sempre il valore di una pietra miliare sul percorso di studi degli storici, dei critici, delle collezioni e delle istituzioni museali proprietarie delle opere.

La mostra Caravaggio 2025 allestita a Roma, aperta al pubblico dal 7 marzo al 6 luglio, salvo futuribili proroghe estive per eccesso di visitatori, apre a un dibattito ormai secolare «sulla rivoluzione artistica e culturale del Maestro», sul rinnovamento «che introdusse nel panorama artistico, religioso e sociale del suo tempo». Soprattutto fa il punto su quanto di lui già sapevamo e quanto è riemerso da poco agli occhi del mondo. La mostra espone per la prima volta «opere difficilmente visibili e nuove scoperte»: tra queste il Ritratto di Maffeo Barberini, proveniente da una collezione privata, ed esposto al pubblico sessant’anni dopo il suo ritrovamento, e il controverso Ecce Homo di Madrid, riemerso nella primavera del 2021 in un’asta spagnola e sul quale aveva posato lo sguardo – e l’interesse – anche Vittorio Sgarbi. Ma il quesito fondamentale non riguarda l’autenticità dei ritrovamenti attribuibili al Merisi, quello che più dovrebbe indurci a riflettere è: perché ci piace tanto Caravaggio? Cosa spinge il nostro senso del bello, del gusto estetico, ad apprezzare il pittore lombardo più di ogni altro artista? Perché lo riteniamo tra i pochi a meritare le nostre attenzioni?


Ritratto di Maffeo Barberini (1598) olio su tela – Firenze – Collezione privata.
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Catalogo generale della sesta edizione della Biennale d’arte contemporanea Syncronicart 6

Di prossima pubblicazione.
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Manco p’a capa 244. Non è questa l’Europa che ho conosciuto negli ultimi 30 anni!

di Ferdinando Boero



Kaja Kallas, commissario UE per la politica estera, mentre imbraccia un lanciamissili Javelin.

Dicono: l’Europa non esiste più. Io penso che ci sia. Sono ovviamente sconcertato dalla seconda Von Der Leyen che metamorfosa dal dr Jekyll di Green Deal, Transizione Ecologica e Next Generation EU al mr Hyde che propone di “turbocharge” le spese militari (uso le sue parole). Metamorfosi condivisa con il nostro ex ministro per la transizione ecologica, ora al vertice di una fabbrica di armi e centrali nucleari. Dalla transizione ecologica alla transizione bellica.
Non è questa l’Europa che ho conosciuto negli ultimi 30 anni. Con i progetti Erasmus i giovani europei passano da uno stato all’altro per inseguire i loro sogni: la loro casa è l’Europa. Con i progetti Horizon le comunità scientifiche europee sono diventate una sola comunità scientifica, sostenuta dalle Reti di Eccellenza che hanno migliorato le infrastrutture di ricerca europee. I progetti europei hanno promosso collaborazioni con Nord Africa e Asia, per integrare una cultura scientifica che non può che essere “una”. Gli ecosistemi e la biodiversità, la salute umana, e tutto quello che è oggetto di indagine scientifica non segue “leggi” che differiscono da stato a stato: non possiamo risolvere i problemi “da soli”.

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