
Olio su tavola, 97×74 cm., 2025.

di Antonio Lucio Giannone

Nel 1959 Vittorio Bodini risiedeva a Bari, dove si era trasferito da Lecce nell’agosto dell’anno precedente, prima di stabilirsi definitivamente a Roma a partire dal luglio del 1960. Nel capoluogo pugliese, dove dal ’52 insegnava Lingua e Letteratura spagnola presso l’Università degli Studi, aveva ritrovato Gustavo D’Arpe, suo amico dai tempi dell’adolescenza, che in quegli anni lavorava nella redazione del quotidiano barese «La Gazzetta del Mezzogiorno». D’Arpe, il cui nome oggi è pressoché dimenticato, è stato una poliedrica figura di giornalista e scrittore, ma anche di autore teatrale, di operatore culturale e perfino di attore cinematografico. Nato a Palermo nel 1918, ma di famiglia e origine salentina, si era laureato in filosofia e giurisprudenza presso l’Università del capoluogo siciliano dove fa il suo esordio presso testate giornalistiche locali e nel 1942 pubblica il romanzo Uomini soli con l’editore palermitano Flaccovio. L’anno successivo si trasferisce a Bari dove comincia a collaborare con la «La Gazzetta del Mezzogiorno». Dopo la liberazione si reca a Roma, ma nel 1948 ritorna nel capoluogo pugliese dove viene assunto nella redazione della «Gazzetta», nella quale si occupa di cultura e spettacoli. Negli anni Cinquanta è stato anche direttore del Teatro stabile di Bari.
Nel 1957 pubblica il volume Interno con figure, una raccolta di dodici brevi racconti. Uno di questi, Cappello a lobbia, la cui stesura, stando ai dati interni, dovrebbe risalire ai primi anni Cinquanta, ha come protagonista proprio Bodini che viene descritto in due momenti diversi della sua vita: l’adolescenza e il periodo immediatamente successivo al 1949, anno del suo ritorno dalla Spagna. Nella prima parte, D’Arpe rievoca il suo rapporto di amicizia ai tempi della prima giovinezza svoltasi a Lecce nei primi anni Trenta «sotto il segno della ribellione» e del rifiuto delle convenzioni borghesi. Del giovane Vittorio, l’autore mette in rilievo la «tendenza al vagabondaggio notturno», la passione letteraria che li accomunava, le letture dei poeti “maledetti”, la «vita randagia» che suscitava negli amici «grande invidia per la sua totale libertà»[1]. Nella seconda parte, invece, confessa di provare una forte delusione quando dopo molti anni rivede l’amico, cambiato nel fisico e nello spirito, diventato amministratore di un’azienda vinicola, che parla degli anni passati con distacco e con il «mediocre buon senso dei commercianti e degli esportatori»[2].
di Antonio Devicienti

Roberto Roversi ha guardato per decenni l’Italia sepolta dalla neve, restaurato i libri danneggiati riparandoli con la Coccoina, accolto tra gli scaffali della libreria Palmaverde chiunque avesse voglia di discutere di poesia e di politica. Quante volte ha dovuto traslocare la Palmaverde sino all’ultimo, significativo indirizzo:
Via de’ Poeti, 4 – Bologna.
Traslocare i libri è impresa immane: li si toglie dagli scaffali, li si sistema nei cartoni, li si trasporta altrove e di nuovo rimetterli sugli scaffali; forse il singolo libro ha attitudine a viaggiare, a spostarsi, ma 3.000 o 5.000 insieme?
di Antonio Lucio Giannone

In questi ultimi due decenni, Gianluca Virgilio ha svolto un’intensa attività in campo culturale su diversi fronti: ha pubblicato numerosi volumetti di scritti narrativi, memoriali e diaristici; ha fondato un sito (www.iuncturae.eu) su cui appaiono in continuazione contributi di genere e livello assai diversi; ha preso in esame libri di svariati autori con interventi e recensioni. Nel presente volume ha deciso di raccogliere le recensioni, apparse su periodici e riviste locali dal 2004 al 2025, che riguardano il Salento nei suoi vari aspetti: dall’arte alla letteratura, dalla sociologia all’antropologia, dalla storia alla politica. Nella Premessa egli spiega, però, opportunamente, che nella raccolta “si parla di cose salentine, al di là di ogni spirito localistico” perché il Salento deve essere considerato “luogo di elaborazione culturale almeno di pari dignità rispetto a qualunque altro luogo d’Italia, e non solo”. E in tal senso egli si colloca sulla linea indicata con le loro ricerche da alcuni maestri, come Mario Marti, Aldo Vallone e Donato Valli, i quali hanno studiato e valorizzato la cultura di questo territorio senza compiacimenti campanilistici, ma sempre con rigore metodologico, mettendola in relazione costantemente con quella nazionale.
A dire il vero, il termine “recensione” è un po’ riduttivo per quanto riguarda questi scritti, sia per le dimensioni piuttosto ampie di ciascuno di essi, che contrastano con quelle ormai estremamente ridotte delle recensioni che appaiono ai nostri giorni sulla stampa, e sia soprattutto per certe caratteristiche che mi proverò a indicare, prima di entrare nel merito del libro. Innanzitutto, vorrei mettere in rilievo la completezza dell’informazione che in ognuno dei suoi interventi riesce ad offrire l’autore. Si tratta di resoconti precisi e dettagliati, spesso con pertinenti citazioni, che passano in rassegna i punti principali dell’opera presa in esame, attraverso i quali il lettore si può fare un’idea completa di essa. Un’altra caratteristica è la chiarezza espositiva per cui questi scritti si fanno leggere sempre con piacere, grazie anche a uno stile scorrevole e piano.
di Augusto Benemeglio

Parole vive
La nostra vita di tutti i giorni è tarata sul disincanto e cose come la compassione sono merce scaduta. Per questo quando s’incontra una voce pura e una bella anima come Giuliano D’Elena, uno che da sempre cerca brandelli di cielo perfetto (guardate “Davanti all’infinito”, leggete il suo sguardo, e i suoi libri , meditate sulle sue parole), pur nel grigiore assoluto che ci sovrasta, la sua è una voce che non si dimentica più, anche se fosse per un solo attimo, un istante, diventa decisivo. Con lui ho vissuto e condiviso intensamente anni e anni di lotte, illusioni e sconfitte, in nome della cultura, dell’arte e della poesia, la bellezza che salverà il mondo, come spesso amava dire don Tonino, grande anima salentina e nostro insuperato maestro dello Spirito. Giuliano è uno che cerca valori forti e inscalfibili, pur nella dismissione, nel crollo, nella liquidazione di ogni cosa del vecchio mondo occidentale, anche della nostra martoriata storia da periferia dell’Impero. Con lui nella banda dell’ “Uomo e il Mare” di quei favolosi anni ’80 non più musiche opache che si mordono la coda, né cristallini poemi di parole dette di riflesso, ma parole vive, parole in divenire, offerte al coraggio di essere tutto, di osare tutto; parole strappate alla muffa e alla pietrificazione della trita usanza quotidiana, parole che vanno “oltre”.
di Antonio Errico

In principio è un segno, un punto, una traccia. A volte il segno rimane così, sospeso, immobile, fisso. A volte evolve, matura, si fa forma compiuta, e stringe il senso di tutta un’esistenza, di tutta l’arte che attraversa l’esistenza, che con essa si assimila, si confonde. Ma è il segno del principio che richiama ogni passo, che dà motivazione ad ogni pensiero, ogni gesto, che giustifica tutti i giorni venuti e quelli a venire, tutti i ragionamenti e tutte le emozioni. A quel segno del principio si ritorna, sempre. A quel segno ritorna, sempre, Paola Scialpi, che domani alle ore 18, al museo Castromediano di Lecce, presenta la sua monografia curata da Lucio Galante e Maurizio Nocera, che per titolo prende il suo stesso nome. Per dire che forse una differenza non c’è tra quel nome e l’opera, tra i suoi giorni e i suoi segni, tra il suo presente e la sua memoria.
di Alberto Fraccacreta

Bari, 1959: Vittorio Bodini, allora docente di Lingua e letteratura spagnola all’università, e Gustavo D’Arpe, amico dell’adolescenza leccese, redattore della Gazzetta del Mezzogiorno e attore, decidono di scrivere insieme il soggetto per un film: I posseduti (forse un’eco dostoevskiana) è depositato alla SIAE nel novembre dello stesso anno. Di lì a poco il dattiloscritto diventa un vero e proprio treatment filmico con qualche modifica, tra cui titolo e nomi dei protagonisti: Vite barocche. Trama per un film (a cura di Antonio Lucio Giannone, Besa Muci) restituisce oggi al lettore quell’esperienza artistica che non ebbe mai una compiuta realizzazione cinematografica. Come osserva Giannone nel documentato testo prefatorio, «per scrivere il soggetto, Bodini riutilizzò un suo romanzo giovanile rimasto inedito e incompiuto, pubblicato postumo col titolo Il fiore dell’amicizia, piegandolo però […] ad altre esigenze e ad altri scopi e facendone quindi qualcosa di radicalmente diverso». Se il romanzo narrava le vicende autobiografiche di “vitelloni” meridionali, Vite barocche tenta di penetrare le ossature e le increspature del profondo Sud, un Salento oscuro, lancinante. Il vero protagonista dell’opera – come è detto nella didascalia introduttiva – coincide con «il paesaggio, il paesaggio assolato, le case di calce, i palazzi spagnoleggianti, i fregi e le chiese barocche, gli ulivi e il tabacco». Non è un caso che l’indagine socio-antropologica di Bodini, con l’innesto tecnico di D’Arpe, si intrecci alla spedizione salentina di Ernesto de Martino nell’estate del ’59 (da cui verrà fuori, nel ’61, La terra del rimorso). «Consulente per i riti magici delle prefiche e dei tarantolati», de Martino additerà i motivi tellurici del tarantismo, la vita desolata dei contadini e le leggi immutabili, ferree della realtà pugliese negli «irti contorcimenti di ulivi e fichi d’India». Il barocco è, per Bodini, segno del Sud, «la grande alternativa al mondo classico», come scrisse nella celebre lettera a Carmelo Bene. Dietro l’ostentazione ecco la vertigine, la paura del vuoto. Barocco «nello spirito».
[“La Repubblica – Bari” del 13 novembre 2025]
di Roberto Orlando

I protagonisti. Giuseppe Coppola era noto per la sua indole renitente e intransigente. Criticò, in diverse occasioni, servendosi anche della stampa, come del resto fecero altri sacerdoti e laici della diocesi ugentina, l’operato del vescovo Luigi Pugliese; denunciò gli scandali in cui furono coinvolti diversi sacerdoti e i conseguenti processi canonici farsa; l’arbitrario e sciagurato uso delle rendite vescovili; la pessima gestione e la decadenza del Seminario diocesano. Il Coppola apparteneva ad una famiglia agiata di Gagliano del Capo, che ha dato abati, arcipreti e sacerdoti. Fu parroco di Taurisano dal 1882 al 1886, confessore nominato, con la dispensa dell’esame, dal vescovo Vincenzo Brancia (1818-1896), vescovo di Ugento dal 1890 al1896, delegato della cura di Caprarica del Capo dallo stesso vescovo Luigi Pugliese, nomina che però non accettò (per la qual cosa gli furono tolte la confessione e la predicazione), cappellano delle suore di Carità di Gagliano del Capo.
Luigi Giovanni Pugliese (Cerignola 1850-Ugento 1923), ordinato sacerdote nel 1874, insegnò nel seminario di Ascoli Satriano (Foggia). Mansionario coadiutore nelle parrocchie dell’Addolorata e del Carmine, diede vita con altri alla Congregazione Sacerdotale del SS. Crocifisso. Parroco della chiesa del Carmine di Cerignola dal 1890 al 1895, vi istituì le Dame di Carità. Nel 1892 fondò l’Opera Pia “Anna Rossi” e potenziò l’Opera San Vincenzo, dotando la Casa delle suore di quest’Ordine di un poliambulatorio, che fu il primo passo verso l’istituzione dell’Opera Pia “Tommaso Russo”, futuro ospedale civile cittadino. Canonico penitenziere della Cattedrale dal marzo 1895, il 30 giugno successivo papa Leone XIII (1878-1903) lo nominò vescovo di S. Marco Argentano e Bisignano (Cosenza), da cui poi, con Regio Decreto del 22 giugno 1896, venne trasferito alla Diocesi d’Ugento. Pugliese non celebrò nessun sinodo diocesano, ma compì visite pastorali che promossero, in un periodo in cui imperava il Modernismo Cattolico, l’ammodernamento dell’attività pastorale; curò la devozione mariana, organizzando pellegrinaggi diocesani al santuario di S. Maria di Leuca. Riposa nella cattedrale della città messapica. Il suo episcopato venne duramente criticato da una parte del clero diocesano e dei fedeli, come si vedrà.
“Pinocchio, che cos’è una persona?”
di Adele Errico

Arriva al Teatro Piccinni di Bari, il 14 novembre alle 20.00, “Pinocchio, che cos’è una persona?” di Davide Iodice, nell’ambito di Bari International Fest Bambin*&Adolescenti (BIFBA), un progetto legato al lavoro che la Cooperativa Sociale “I bambini di Truffaut” svolge con le bambine, i bambini e gli adolescenti, occupandosi della loro cura e riabilitazione socio-culturale e formazione. Davide Iodice è ideatore e direttore artistico della “Scuola Elementare del Teatro | conservatorio popolare per le arti della scena”. È responsabile dei progetti di arte e inclusione sociale per il Teatro Trianon Viviani. Ha collaborato a vario titolo con Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Carlo Cecchi, Roberto De Simone. Ha lavorato e lavora con il teatro in diversi luoghi del disagio, dall’Ospedale Psichiatrico S. Maria della Pietà di Roma al Carcere di Volterra, a quelli della Giudecca e di Nola, fino al dormitorio pubblico di Napoli e all’OPG di Secondigliano. Il suo teatro e il suo lavoro pedagogico sono stati prodotti e accolti in diversi Paesi del mondo. Per il suo lavoro ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali. Solo nel 2024 il Premio Speciale Ubu per Pinocchio/che cos’è una persona? e per la Scuola Elementare del teatro- conservatorio popolare per le arti della scena, il Premio ANCT Associazione Nazionale Critici del Teatro, il Premio internazionale della critica Golden Mask al Mess International Festival di Sarajevo per Vizita.
Pubblicata l’ultima raccolta poetica Vienimi incontro
di Marco Leone

Chi volesse seguire il prolifico percorso poetico di Piero Pellegrino, ha a disposizione uno strumento essenziale, l’edizione complessiva delle sue poesie, pubblicata dallo stesso autore presso l’editore Besa nel 2014: tre corposi volumi che racchiudono tutte le sue precedenti raccolte e che testimoniano un diuturno e pluridecennale esercizio compositivo.
Fuori da questo grande contenitore, Pellegrino ha poi pubblicato tre altre sillogi: Inutili illusioni (Argo, 2023), Inviolate sensazioni (Manni, 2024) e Vienimi incontro (Giardini Editori e Stampatori, 2025). Soprattutto quest’ultima, uscita nella collana “Poetare”, diretta da Giorgio Baroni e Anna Bellio, segna uno scarto e un progresso rispetto alla versificazione precedente, sempre contrassegnata da un prevalente tono esistenziale e intimistico. Infatti Vienimi incontro, pur confermando la radicale e pressoché assoluta cifra soggettiva della poesia di Pellegrino, presenta tuttavia una novità: l’impiego di un lessico marcato, costituito da vocaboli classicistici (pilo, tragula, pomerium, peristilio, triclinio, auriga, aggere, pétaso, signifero, pietra manale) e da termini che si distinguono per esattezza botanica e zoologica (brassica, biancone, garighe, tàmaro) o che appartengono a linguaggi settoriali (rezzaglio, ratta, ramaglia, piancito, impiantito). Questa sorvegliata cura linguistica non è fine a sé stessa, ma serve a testificare stati emotivi e fluttuazioni interiori e a meglio determinare frammenti di vita, occasioni contingenti, paesaggi naturali, che sono gli spunti ricorsivi della scrittura poetica di Pellegrino. Serve anche a imprimere una matrice letteraria a quel senso di “autoreferenzialità e di assolutezza esistenziale” che Donato Valli ha riconosciuto come dominante nella poesia di Pellegrino (Introduzione, in P. Pellegrino, Anemoni, Lecce, Manni, 1992, p. 7) e che trova la sua espressione in un calcolato idioletto lirico.

di Gigi Montonato

Tra le definizioni riportate dai dizionari della lingua italiana della parola rapsodia quella più rispondente all’uso che ne fa Gianluca Virgilio nel suo libro Zibaldone salentino II e altre rapsodie (Edit Santoro, Galatina 2025) è una «raccolta di passi o pensieri di uno o più autori sistemati in modo da formare un componimento unitario» (De Mauro).
Qualche anno fa, nel 2020, dello stesso autore uscì un precedente, Zibaldone salentino, poi tradotto anche in francese, una raccolta di pensieri nati da letture, osservazioni, esperienze, a cui il titolo leopardiano conferiva un’aura scolasticamente paludata. Antonio Prete, leopardista illustre, la definì in Prefazione una «limpida autobiografia intellettuale». Ora, per un approccio conveniente alla lettura di questo suo secondo Zibaldone, occorre rifarsi al primo. Virgilio dice due cose. La prima è che lui ha un diario, la seconda che dal diario trae i testi per lo zibaldone, facendo capire che non tutto del diario è poi dicibile (o pubblicabile?). E infatti nello Zibaldone II insiste su un tema particolarmente attuale, il “non detto”. Non c’è motivo per pensare che l’approccio sia diverso.«Scrivere un libro – dice Virgilio in Premessa – per me non significa scriverlo dopo un’attenta pianificazione, ma solo mettere insieme quanto mi è occorso di scrivere in un certo arco temporale…con un’opera di “cucitura” che non solo li [gli articoli già scritti] colleghi gli uni agli altri, ma li doti anche di un senso complessivo, difficilmente attingibile se considerati nella loro individualità». Viene di chiedersi: che cosa perde lo zibaldone non pubblicando il diario così come si è sviluppato spontaneamente nel corso del tempo? La risposta la dà lo stesso Virgilio: «Che cosa significa scrivere un diario? Registrare i nudi fatti della propria vita con accuratezza e precisione; ma a che serve tutto questo? A nascondere il non detto, poiché nel diario è possibile scrivere solo ciò che può essere detto, il dicibile». L’ “indicibile” – osservo – a sua volta può derivare da impedimenti propri, psicologici, si dice solo ciò che si ritiene opportuno, o da impedimenti esterni, penso alla censura in regimi dittatoriali. Comunque, per Virgilio, «La buona scrittura è quella che non dice mai tutto, quella che si ferma sul confine del dicibile».
di Ferdinando Boero

A Prima Pagina (Rai Radio 3), il 9 novembre, Daniele Manca, vicedirettore del Corriere della Sera, legge un articolo di Federico Fubini, sul Corriere: “l’esercito russo ha perso 80.000 uomini in nove mesi e … il Cremlino starebbe accettando 400 mila perdite circa per ogni 1% di territorio ucraino che riesce a conquistare. E spesso le città che prende sono così devastate dalla stessa avanzata russa che avrebbero bisogno di centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione”. La notizia mi rincuora, e scrivo alla redazione: “Interessante… da una parte ci dicono che ci dobbiamo armare perché i russi ci invaderanno, dall’altra ci dicono che non hanno uomini neppure per piccole avanzate in Ucraina”. La redazione mi propone di dirlo direttamente a Manca. Glielo dico, in diretta, e rimarco anche il ridimensionamento del Green Deal e il lancio del progetto Rearm Europe, per fronteggiare la minaccia russa, e ravviso una logica contraddittoria: la Russia non ha gli occhi per piangere, ma ci dobbiamo riarmare perché sta per invaderci. Manca risponde che il piano non si chiama Rearm ma si chiama Safe (sicuro), e che la Russia non è la sola minaccia, ce ne sono altre: gli USA hanno smesso di difenderci e quindi dobbiamo badare a noi stessi. Non posso ribattere perché riattacca il telefono. Avrei voluto rispondere che Von Der Leyen chiamò il piano Rearm Europe, quando parlava di turbocharge i nostri sistemi militari. Poi lo ha rinominato Readiness 2030, aumentando le percentuali di PIL destinate al riarmo. Safe se lo è inventato lui. Avrei anche voluto chiedere: difenderci da chi, se non dalla Russia? Dai suoi farfugliamenti nel rispondere ad un altro ascoltatore a fine trasmissione, si capisce che il nemico è ovviamente la Russia: il serpente si morde la coda. E anche Manca.
di Rocco Orlando

Il tema più importante della poesia di Rocco Ciardo è quello della lontananza dal suo paese di origine a cui è fortemente legato. Come egli stesso scrive, “non ci sono foglie se non ci sono forti radici”; e ancora, “siamo un popolo con la valigia in mano, fa parte del nostro destino, cercare, in tanti, un futuro dal paese lontano”. Egli è lontano fisicamente, ma alla mente tornano i ricordi della sua infanzia come “le case con volte a stelle, le bianche stanze e i lunghi cortili, dove i bambini giocavan sicuri”, “quando il traffico non c’era”, e i ragazzi non correvano alcun rischio giocando a pallone per strada.
Ciardo ricorda “l’odore di piccole stalle, con galline, conigli e maiali”; ricorda “le donne chine a far merletti e trine e gli uomini curvi sull’arida terra, sotto il sole, uomini che stringevano i denti”. Ricorda gli “‘ndori e sapori” di un tempo passato, il piatto di “acqua e sale” per non ingrassare e ricorda quando si mangiava in un unico piatto “nellu piattu ranne” dove “calavan più mani”. Rievoca con nostalgia i tempi della raccolta delle ulive, della pigiatura dell’uva “coi piedi nudi” e “la coltivazione del tabacco”, che “per decenni è stata una risorsa per il Tacco, con tutta la famiglia al lavoro da aprile a settembre per dare alla vita decoro”.
E affida alla penna tutte queste scene, per non dimenticarle col tempo che scorre: affida questi luoghi familiari e “la sua gente di cui si è salvato poco”, ma tanto ancora resta nei suoi pensieri e nei suoi “ricordi che non vogliono morire anche perché “del tempo molto lontano e del tempo non più vicino quel che resta nella memoria diventa la nostra storia”.
Il tempo passa, ma “i ricordi ritornano sempre come le onde del mare”; con gli anni si perdono le amicizie, ma ci “restano le antiche radici”. Ciardo resta ancorato al passato e sente “ancora vive le voci dei suoi cari”, ma nello stesso tempo è consapevole che con gli anni tutto cambia, tutto scorre, e la vita va ugualmente avanti, “ma di quel che c’era ieri resta il rimpianto”. Egli scrive: “il tempo ha sbiadito i colori, ha annacquato tanti sapori, molti costumi sono spariti, tanti volti sono dipartiti. Io scrivo per non dimenticare”.
di Anna Stomeo

L’evento “Ricordare Pier Paolo Pasolini. Il Corpo il Potere il Volgar’Eloquio” di Anna Stomeo, che si terrà Venerdì 14 novembre alle ore 18.30 a Martano (Lecce) in via Marconi 28, presso il Centro Culturale tò Kalòn dell’Associazione Itaca Min Fars Hus, vuole essere un’occasione e un tentativo di rilettura, di riflessione e di approfondimento di un Autore che continua a lasciare tracce di sé nei nostri vissuti quotidiani collettivi e nelle nostre trasformazioni socio-culturali.
Una voce fuori dal coro, non banalmente oppositiva, ma carica di echi imprescindibili che aprono voragini di pensiero e attestano presenze inquietanti. Pasolini non è mai morto, le sue provocazioni e le sue opposizioni, le sue visioni e i suoi scandali ci seguono ancora in questo nuovo millennio.
Il Corpo di Pasolini indaga ancora il presente attraverso l’esposizione o-scena della verità e la ricerca di forme auto-rappresentative del pubblico e del privato.
Il Potere si manifesta nell’intreccio con il corpo e con i corpi mercificati, barriera ineludibile oltre la quale nessuna giustificazione dell’umano è possibile, se non in termini di mutazione antropologica, di mercificazione e di edonismo consumistico.
di Gerardo Trisolino

Silvano Trevisani è il biografo-testimone più attendibile del periodo tarantino di Alda Merini al fianco del medico-poeta Michele Pierri, dal 1984 al 1987. «Per quattro anni fui una sposa felice» confessò lei stessa in Reato di vita (La Vita Felice, 2010). Al di là delle ricostruzioni spesso fantasiose o traslate che ne ha dato la poeta dei Navigli, la conferma ci viene dalla lucidissima e obiettiva testimonianza che la figlia maggiore Emanuela Carniti ha affidato in Alda Merini, mia madre (Manni, 2019): «Taranto ha rappresentato il luogo in cui è maturato il rapporto con Pierri che è stato molto profondo, di grande intendimento anche a livello spirituale. Quando viveva lì era letteralmente rifiorita, e questo momento di positività credo che l’abbia sempre associato anche alla città che per lei è stata un’oasi protetta. Furono per lei anni sereni, con la sicurezza che le dava Pierri e la frequentazione degli ambienti intellettuali salentini: l’amico Spagnoletti, il poeta Girolamo Comi, l’italianista Donato Valli, il poeta e critico Silvano Trevisani, il pittore Giulio De Mitri».
Trevisani ne ha già scritto in più occasioni. Una ricerca in progress affidata a diverse pubblicazioni, da Michele Pierri e Alda Merini. Cronaca di un amore sconosciuto (Edit@, 2016) a Alda Merini tarantina in un volume collettaneo da lui curato (Macabor, 2019), passando dalla sua introduzione alla raccolta meriniana Furibonda cresce la notte (Manni, 2016) e a Quella parentesi tarantina che vivrà per sempre in Taranto città della poesia a sua cura con Macabor nel 2022.
di Antonio Mellone

Poteri occulti, certo, ma solo per chi non legge, ovvero per chi legge perlopiù i bollettini padronali (sottoscrivendone persino l’abbonamento), non si pone domande, non studia, non nutre dubbi, non s’azzarda a proferir critiche a chi sta in alto ma eventualmente solo a chi sta in basso o al più allo stesso livello, non riesce ad articolare un pensiero che non sia quello unico e manicheo del dualismo dei tifosi all’ultimo stadio, e dunque sei un antisemita se parli di genocidio e terrorista se scendi in piazza per dire stop alle armi: stiamo parlando di chi, oltre a dar retta a chi scrive utilizzando il normografo e ai navigatori sotterranei conto terzi, usa nutrirsi di programmi televisivi, reality e pagine social che hanno la medesima funzione del detersivo in lavatrice, solo che stavolta il capo da lavare è il proprio encefalo.
Al contrario sono Poteri Palesi, evidenti e manifesti per chi approfondisce i temi, diversifica le fondi d’informazione, dibatte di fatti senza partiti presi, legge i resoconti del giornalismo di inchiesta e soprattutto li comprende (evitando di sbavare dietro ai soliti mezzibusti che al solo sentirli ti vien da pensare: “Ma se questi sono giornalisti, Assange cos’è esattamente?”). E sono ancora evidenti, oserei dire ovvi, questi poteri, anche per chi s’immerge nella lettura dell’agile libro di Luigi De Magistris intitolato antifrasticamente infatti “Poteri occulti” (Fazi Editore, Roma, 2024, 160 pagine).
di Antonio Devicienti

René Char ad un tavolo di legno massiccio nella sua casa aux Busclats all’Isle sur la Sorgue.
Il suo viso è una pietra o un tronco d’olivo segnati dagli elementi naturali.
Scrivere è una folgore che trancia il buio.

di Antonio Prete

Ammucchiati, i tronchi del pioppo abbattuto
e i rami al bivio proteggono le radici
chiuse in un sonno privo di vento,
privo d’uccelli,
sonno d’acque e cascate e gelo
nell’oscuro di inverni senza fine.
.
Laggiù il fiume grida il racconto
di cieli e lune, balzi d’anse,
mulini e sconfinamenti.
.
Lungo il greppo i bucaneve e in mezzo
al muschio e al rovo le prime violette.
Tra i faggi, in alto, la curva boscosa
dell’Alpe della Luna, una macchia
di neve sul dorso.
.
Lampeggia il biancogrigio dei sassi
dentro rivoli e fanghiglia.
.
Nel cammino le ombre, fuggitive,
di altri cammini,
nell’andirivieni del cane
l’ombra, veloce, di un altro cane.