

di Nello De Pascalis
Quante ore sul mare!
Io e il mare, al buio
o a luce fatta,
in una specie di dipendenza
cui è difficile negarsi; così
lo vivo, lo scruto, e se pure
sciaborda lieve lieve,
il mio sguardo di pescatore
corroso come rudere,
anticipa i suoi mutamenti
e correnti e maree sa cogliere.
Oh, gli anni delle forze integre
di questa mia vita foranea!
A passo incerto vado ansimando
per quei declivi
ove prima correvo
e mentre il mare dorme
o mareggia, gli apro le solitudini
della mia stagione che passa,
vibro ad ogni cattura,
indi mi esalto: scema così la pena
delle umane finzioni, del sospetto
che nulla possa davvero mutare;
ripassa il mio tempo: volti amati
che la morte mi ha allontanato.
C’è pure un fiorire di versi
al suo cospetto
ed è un andare altrove.
Oh, il mare! Dei segreti non so:
misterioso il suo alvo,
ma fascinoso rimane al mio corpo
invecchiato sulle sue rive,
alla mia mente che s’affranca
da questi tempi incerti
e va randagia
oltre il mare, oltre, oltre.
di Paolo Vincenti
Scennaru ssuttu se ccoje tuttu, secondo il detto popolare salentino. Ma questo gennaio, come del resto tutti gli altri mesi, è infestato da un insopportabile scirocco sicché il vento umido credo favorisca ben poco la raccolta (allora, scennaru muddhatu, furese rruvinatu). L’aria malata che si respira la mattina quando si apre la porta di casa smorza quel caldo tepore procurato dagli umori soppannati del sonno appena lasciato, sottrae davvero le energie e la voglia di fare, toglie il consiglio che, secondo il noto adagio, la notte porta, strappa l’oro in bocca che, secondo un altro adagio, il mattino ha con sè; insomma, quando si esce a ritirare il secchio della spazzatura, in quel clima malarico e umidiccio, si vorrebbe solo ritornare a letto e rimandare gli impegni lavorativi al giorno dopo. Se poi il paese è avvolto da una fitta coltre di nebbia, peggio mi sento. Quella pioggerella sottile che titilla il cranio e impregna di vapore acqueo i vestiti, gli scialli, le scarpe, rende sgradevole il pensiero di dovere attraversare la giornata, sicché, se fosse possibile, chiunque annullerebbe tosto gli impegni e gli sposatmenti in macchina, che diventano più rischiosi con la scarsa visibilità. Non tutti, però, hanno il privilegio di potere organizzare la propria giornata a seconda degli umori o degli agenti atmosferici: in genere chiunque deve seguire una tabella di marcia già fissata, una prestabilita agenda giornaliera. Ieri, mentre meditavo sugli scherzi del tempo che subiamo qui a sud, e ristavo, tutto preso da simili burbanze, nel paesaggio bircio che mi si stagliava davanti, in quel vedo-non-vedo tipico dell’ora primomattutina, quando la foschia allaga la città, mi è sembrato di scorgere una figura femminile a me famigliare procedere a grandi passi verso casa mia sulla strada principale. In realtà, man mano che si avvicinava mi diveniva più chiaro che non si trattava di un’amica o una parente, bensì di una perfetta sconosciuta. Avevo scambiato le sue fattezze per quelle di una donna a me cara. Ero stato confuso dalla caligine che rende i contorni incerti, come quando si ritorna al tramonto a casa, in macchina, e nel lusco e brusco dell’ora non si afferrano perfettamente le fattezze delle cose e le fisionomie delle persone. Si trattava di una bella donna, a giudicare dalla sua silhouette.
di Antonio Mele / Melanton
Mai fare di tutta l’erba un fascio.
Si ha un bel dire (un ‘brutto’ dire, anzi!) che il mondo d’oggi è allo sbando, che troppe cose non vanno, che le nuove generazioni sono malate, disorientate, attratte più dall’edonismo, dai social network o dallo sballo, che dai ‘nobili ideali’ di un tempo.
Concetto troppo generico e ingiustamente falso nella sostanza. Dall’alba dell’umanità, tutte le generazioni più giovani sono sempre state ‘diverse’ da quelle precedenti. E non è sempre detto che il ‘nuovo’ sia peggiore del ‘vecchio’ (come, d’altronde, non lo è, semplicisticamente, neanche il contrario). È il cammino fisiologico dell’evoluzione, l’eterna disputa tra genitori e figli, o tra ‘conservatori’ e ‘progressisti’, con opinioni, ragioni e punti d’osservazione differenti, ma non per questo necessariamente inconciliabili.
La notizia che propongo in questa occasione è di quelle che rinfrancano, che aprono l’animo alla gioia, all’entusiasmo, alla speranza. Che indicano la strada virtuosa verso l’attenzione e conservazione di valori preziosi e inestinguibili. Notizie che dovrebbero essere molto più frequenti, accanto alle tante ‘cattive notizie’. Che sono sempre troppe, e talora, volutamente, solo quelle, sempre secondo i dettami di un certo giornalismo (stampato, e ancor peggio televisivo), che è spesso qualunquista, e comunque voglioso di rimestare nella melma della politica o della cronaca nera o del gossip. Perché, infine, se “Tutto va male, madama la Marchesa” l’audience s’impenna al massimo… Vuoi mettere?
Appena pubblicato, Gran Varietà, di Paolo Vincenti (Agave Edizioni, 2025). Il libro, che raccoglie gli articoli prodotti dall’autore negli ultimi mesi, si avvale di un dotto saggio introduttivo del linguista Antonio Romano, di una Prefazione dell’antropologo Eugenio Imbriani e una Postfazione della musicologa Maria Antonietta Epifani.
“Gran varietà è stato un programma televisivo di Rete 4 del 1983 trasmesso la domenica sera alle 20.30 per dieci puntate. Realizzato su testi di Amurri e Verde, era condotto e diretto da Luciano Salce, Loretta Goggi e Paolo Panelli. Gran varietà è anche il titolo di questo libro.
La definizione del Devoto-Oli (Vocabolario della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Maurizio Trifone) è la seguente: “Varietà. s.f. Molteplicità e diversità di elementi non incompatibili tra loro; talvolta implicando un apprezzamento non benevolo in quanto allusivo di una certa incostanza…”. Oppure: “s.m. Spettacolo di arte varia, articolato prevalentemente su un repertorio di musiche, danze e numeri di attrazione, inizialmente legato all’ambiente dei café chantant e poi presentato nei teatri o come accompagnamento di spettacoli cinematografici; anche, il teatro dove ha luogo lo spettacolo…”. Varietà, come si spiega nell’Introduzione, è quella dei miei scritti, assai eterogenei per la difformità dei materiali. I diletti e le divagazioni erudite, interessi, ansie e ilarità aggallano in questo libello che, pur con i suoi pregi e difetti, fra articoli, saggi e note, costituisce, negli elzeviri qui raccolti, un significativo squarcio del più recente periodo della mia vita.”
(Dalla quarta di copertina)
di Antonio Lucio Giannone
A Roma, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, è in corso la mostra “Il Tempo del Futurismo”, curata da Gabriele Simongini, che celebra l’ottantesimo anniversario dalla scomparsa del fondatore del movimento, Filippo Tommaso Marinetti, avvenuta il 2 dicembre 1944. Questa mostra, che tante polemiche ha suscitato, ha però il merito di riportare l’attenzione, anche di un pubblico ampio, sul principale movimento d’avanguardia del Novecento. In essa sono presenti alcune opere dell’artista leccese Mino Delle Site, uno dei più noti esponenti dell’aeropittura futurista degli anni Trenta, sul quale ho avuto occasione di intervenire varie volte, anche su questo sito. Non è presente invece un altro pittore leccese, Antonio Serrano, che fu influenzato dalle idee futuriste già nel primo Novecento ma che è ancora oggi tutto da scoprire. Ne diedi notizia in un articolo apparso nel 1986 sulla rivista “L’immaginazione” (n. 25-27, gennaio-marzo) dal titolo Futurismo “sommerso”, pp. 9, 16, dove pubblicai anche alcuni brani tratti dai “Diari” e dai “Quaderni” del pittore (pp. 10, 14). Poi ne parlai in un panorama del Futurismo in Puglia, pubblicato nel catalogo della mostra Futurismo e Meridione, (Napoli, 18 luglio-31 ottobre 1996) a cura di E. Crispolti, Napoli, Electa Napoli, 1996 e nel mio vol. L’avventura futurista. Pugliesi all’avanguardia (1909-1943), Fasano, Schena, 2002, pp. 24-30. In occasione di un’altra importante rassegna, Gli anni del futurismo in Puglia 1909-1944, (Bari – Taranto, 20 giugno ‒ 1 novembre 1998), a cura di G. Appella (catalogo, Bari, Adda, 1998) incaricai una giovane studiosa, Mariaterasia Panagrosso, di occuparsi di Serrano, al quale infine dedicai una voce nel Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, (Firenze, Vallecchi, 2001). A questi scritti si rimanda per un approfondimento della sua opera. Ripubblico ora qui di seguito una scheda del pittore leccese scritta per il catalogo della mostra Artisti salentini dell’Otto e Novecento. La collezione del Museo Provinciale di Lecce, a cura di A. Cassiano, (R&R Editrice, 2007), pp. 215-216, con l’auspicio che qualche volenteroso ricercatore voglia ricostruire in maniera completa l’attività di Serrano anche in funzione di una eventuale mostra retrospettiva che costituirebbe un’assoluta novità.
di Antonio Devicienti
Spesso è vero che il cemento (il grigio cemento) è “brutto”, oppure “anonimo” o, anche, “alienante” – sfregio nel paesaggio, soffocante materia senz’anima, bruttante presenza nella contemporaneità urbanizzata, escludente e arrogante.
Ma Giuseppe Uncini intuisce che uno dei materiali – che per diverse (e controverse) ragioni esprime la nostra contemporaneità – proprio per questo dev’essere indagato nella sua bellezza e poesia, restituito a un senso profondo e illuminato di spazio, di costruzione, di ritmo della forma.
E l’opera di Uncini andrebbe invero meditata seguendo un duplice passo: il disegno e la sua realizzazione scultorea
………………………… è così che il pensiero-immaginazione dell’artista concepisce forme e aggregati di materiali che trovano una prima visibilità nel disegno-progetto che non esclude l’impiego di colori differenti, né le annotazioni scritte, né le diverse tecniche pittoriche (sarà ora la grafite su carta, ora l’acquerello, ora l’inchiostro, ora il carboncino); poi ecco intervenire il tondino di ferro, il legno, la corda e, ovviamente, il cemento da colare e sagomare in grandi lastre affinché l’idea-progetto diventi forma realizzata nello spazio.
Il cemento manipolato da Uncini trova così una sua inattesa nobiltà, come a inverare l’idea michelangiolesca secondo la quale l’artista dev’essere capace di vedere dentro la materia bruta la forma contenutavi per trarla alla luce.
Uncini realizza in tal modo una scultura che è, contemporaneamente, architettura, spazi in relazione dialettica con lo spazio che li contorna, spazi abitabili con lo sguardo e con l’intelletto, ma anche con le emozioni visto che il “brutto e freddo” cemento si rivela, invece, accogliente e portatore di senso.
È uno sguardo altro e non compromesso con la mentalità predatoria che domina l’economia contemporanea a condurre verso i cementi di Uncini, a svelarne le possibilità combinatorie e immaginifiche, i ritmi tra pesantezza e leggerezza, il dispiegarsi in forme geometriche che spesso sembrano volersi continuare nello spazio
a cura di Gianluca Virgilio
Marti era intervenuto nel Convegno su Michele Saponaro, svoltosi a Lecce-San Cesario nei giorni 25 e 26 marzo 2010, con una relazione su Leopardi, una biografia di Saponaro del 1941. Ad esso accenno nella lettera del 3 aprile 2010 ed inoltre faccio riferimento a due articoli che avevo pubblicato ne “Il Paese nuovo” e che ora si possono leggere in questo sito. Il primo è un’intervista rilasciatami da Antonio Lucio Giannone, Michele Saponaro. Lo scrittore ritrovato, ne “Il Paese nuovo” di giovedì 1 aprile 2010. Il secondo articolo è una recensione a Carlo Albero Augieri, Leggere Raccontare Comprendersi. Narrazione come Ermeneutica, Liguori Editore, Napoli, 2009, dal titolo Per una poetica della lettura, ne “Il Paese nuovo” del 3 aprile 2010. Leggilo in questo sito: L’odissea della funzione autore ovvero per una poetica della lettura. Purtroppo, la risposta di Marti è andata perduta.
di Maurizio Nocera
”Premessa // Sigismondo CASTROMEDIANO di Lymburgh (20 gennaio 1811 – 26 agosto 1895). Il cognome Castromediano si riferisce al comune di Castelmezzano (Potenza). Al tempo della parlata latina era Castrum Medianuum, mentre Lymburgh si riferisce alla famiglia originaria, vissuta all’inizio del II secolo del II millennio nella Franconia (oggi Germania). Queste poche notizie le traggo dagli studi e dalle ricerche del prof. Francesco Sammati, di Castromediano (frazione di Cavallino), che, con me, ha scritto I Lymbutgh Castromediano nel gioco della storia (Grifo Edizioni, Lecce 2023; seconda edizione 2024 con aggiunte e correzioni), il quale ha ripreso l’introvabile libro di Angelo Fusco (Cronologia Nobilissime Familiae de Catromediano de Lymburgh in Regno et Illustrimenae Civitatis Neapoliab anno 1156, Lycii, MDCLX) e da questo libro ne ha tratto un più esaustivo profilo della Casata; alcuni riferimenti li ho tratti anche dalla Lettera al Dr. Daniel Bullinger, Sindaco di Schwabisch Hall (Germania), scritta da Francesco Sammati e Rosemarie Miska. La dr.sa Miska (di origine tedesca ma che da anni vive a Lecce) si è recata personalmente in Germania per consegnare al Sindaco tale lettera.
Il Museo Archeologico Provinciale, oggi Museo Archeologico “Sigismondo Castromediano”, è il più antico della Puglia. Fu fondato nel 1868 da Sigismondo Castromediano di Lymburgh (Cavallino, 20 gennaio 1811 – 26 agosto 1895). Furono in molti ad afferire libri e oggetti all’allora Deputazione Archeologica della Provincia di Terra d’Otranto – presieduta dal Duca Sigismondo Castromediano – per la messa in essere del Museo, fiore all’occhiello nell’allora Meridione d’Italia. Tra questi afferenti si distinse, per apporto di libri e oggetti, Emanuele Barba (Gallipoli, 11 agosto 1819 – 7 dicembre 1887), patriota, medico e letterato gallipolino.
di Ferdinando Boero
Usai una parte dei finanziamenti alla ricerca per acquisire le attrezzature di base per allestire il mio primo laboratorio. Un buon microscopio costava come un’automobile, e un rivenditore mi disse: eh, i microscopi non si vendono quanto le auto; il mercato è ristretto, la domanda è bassa. In altri casi, però: eh, il prezzo è alto perché la domanda per questo prodotto è alta. Che fossero tanti o pochi a comprare, il prezzo era sempre alto. Le leggi dell’economia non erano mai a mio favore.
Paradossi ben più stridenti con la logica, nel corso dei decenni, si sono realizzati a livello globale. L’Italia aveva molte industrie e una classe operaia numerosa. Per limitare l’inquinamento e lo sfruttamento della manodopera furono istituite leggi per la protezione dell’ambiente e fu adottato lo statuto dei lavoratori, riducendo i margini di guadagno delle aziende. Gli imprenditori iniziarono a ridurre i costi: se vendo auto in Brasile, mi conviene costruirle lì, invece che in Italia per poi esportarle. Si azzerano i costi di trasporto. In “certi paesi” le leggi a protezione dell’ambiente e dei lavoratori erano molto permissive: conveniva produrre laggiù, inquinando e sfruttando, e poi portare le merci qui, alla faccia del Made in Italy certificato dal marchio. Il processo fu chiamato delocalizzazione. Le industrie iniziarono a chiudere gli impianti, licenziando i lavoratori, ed aprirono in Cina, India, Vietnam, Corea del sud, nell’Europa dell’est e in nord Africa. Le meganavi portacontainer ci portano i beni prodotti altrove: il mercato diventa globale. Il fenomeno iniziò in USA e Giovanni Arrighi disse che la classe operaia USA era in Cina. Dopo poco, anche la nostra.
di Adele Errico
“Appena dodicenne, io/e tu andavi via:/ma lasciasti/per me/bianchi e neri cavalli/dal muso bagnato”. Null’altro era rimasto al dodicenne Angelo Lippo del nonno, se non quei bianchi e neri cavalli dal muso bagnato. Così pensava il bambino di allora scoprendo, poi, che in quell’assenza, in quell’andare via, si generava il sentire poetico che lo avrebbe accompagnato negli anni a venire e che del nonno gli sarebbero rimasti non solo i cavalli, ma tutta l’essenza di quella che sarebbe stata la sua opera. Suo nonno era carrettiere, era uomo del Sud che Angelo Lippo ha raccontato ma che ha anche rifiutato, al quale ha rivolto un “odi et amo” che abita i suoi versi, un Sud che è phàrmakon come medicina e come veleno. L’antologia poetica Le radici nel cielo (Bertoni 2021), voluta dalle figlie Antonella e Pamela e dalla moglie Angela, raccoglie testi scritti da 1963 al 2011 esi presenta, già nel titolo, come rovesciamento: in un mondo in cui le radici affondano nel cielo e non nella terra, dove dovrebbero stare, tutto è possibile, ogni narrazione, ogni contraddizione, ogni amore. Angelo Lippo racconta la sua terra, Taranto, e le persone che la vivono, la abitano, la coltivano. Racconta Taranto come luogo da cui fuggire, da respingere. Racconta l’urgenza dell’allontanamento. E poi, l’urgenza del ritorno. Come scrive Dante Maffia: “E’ evidente che il Lippo di un tempo vive soltanto nel fondo e che le strade di Taranto, il golfo, i ponti, i vecchi vicoli, le piazze, i palazzi, gli altiforni del siderurgico sono finalmente riconosciute come le vene che lo attraversano. Taranto è il sangue che lo tiene in vita, è tutto ciò che ha vissuto, forse il futuro”. In Taranto Lippo vive la lacerazione tra il richiamo della modernità della città e il ritorno ai valori ancestrali della campagna, lo scollamento tra la ricerca del passato e la tensione verso il futuro.
di Rocco Orlando
Caterina era figlia di Antonio De Franceschi della Foresta dei Signori di Staggia e di Cina Cinighi di Siena. Intorno al 1369 sposò Bonifacio de’ Lupi, marchese di Soragna, dopo il decesso (1341) della moglie, la cugina Filippina di Ubertino, marchese di Soragna, che aveva sposato nel 1340.
Caterina fu dama assai colta e raffinata; i suoi costanti contatti con Firenze e Siena le offrirono l’occasione di frequentare numerosi artisti per cui non è improbabile che proprio a lei debba attribuirsi l’ispirazione per le decorazioni pittoriche della cappella di s. Giacomo voluta da Bonifacio (Cristina. Guarnieri).
Bonifacio dei Lupi di Soragna (1318-1391), sconfitto dai Visconti che occuparono Parma, insieme a molti suoi congiunti decise di stabilirsi tra Padova e Firenze. Nella città veneta vantava stretti legami familiari che gli permisero di inserirsi facilmente nella ristretta cerchia di famiglie che ruotava intorno a Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova. La madre di Bonifacio, Legarda, era infatti sorella del celebre condottiero Pietro de Rossi che conquistò Padova nel 1337, già caduta sotto il dominio degli Scaligeri, e figlia del miles Guglielmo de Rossi e di Donella di Pietro da Carrara, sorella di Marsilio II, signore di Padova. Quest’ultimo aveva sposato Bartolomea Scrovegni, figlia di Manfredo, fratello del più celebre Enrico. Quindi un intreccio di parentele con i da Carrara e con gli Scrovegni, che gli permisero di ambientarsi agevolmente nella città di adozione.
Intrapresa la carriera di condottiero, nel 1356 era al servizio dei Da Carrara di Padova. Nel 1359 Francesco il Vecchio da Carrara lo inviò al servizio di Firenze: in quest’ultima città si radicò per motivi patrimoniali, familiari e affettivi; infatti, nel 1359 ricoprì la carica di Podestà di Firenze. E alla città toscana rimase legato tanto che il 25 gennaio 1369 gli fu riconosciuta la cittadinanza fiorentina con particolari privilegi fiscali; il legame con Firenze divenne ancora più forte grazie al secondo matrimonio con Caterina De Franceschi.
di Paolo Vincenti
Giovanna Antonietta Romano nasce a Nardò nel 1928. Laureata in Matematica e Fisica all’Università di Bari, insegna per tutta la vita nelle scuole primarie. Madre e nonna, unisce all’impegno professionale la passione per la scrittura che la porta a pubblicare pregevoli raccolte poetiche che ricevono il plauso e l’unanime consenso dei propri cari e soprattutto degli amici letterati come Pantaleo Ingusci che scrive la prefazione della sua prima opera di poesie, Come nebbia, pubblicata nel 1985. Con le sue poesie, la maestra Romano partecipa a numerosi concorsi letterari riportandone premi e riconoscimenti che ella orgogliosamente riporta nelle bandelle di copertina dei suoi libri, nello spazio riservato alla scheda bio-bibliografica dell’autore. In realtà, quella dell’illustre giurista neretino Pantaleo Ingusci non era una prefazione vera e propria bensì una conferenza di presentazione della poetessa tenuta nel lontano 1971 e che poi viene riportata nel libro Come nebbia. Questo per dire che l’ispirazione poetica della Romano inizia molto tempo prima di giungere ad un approdo editoriale, con la sua liminare silloge del 1985; ella cioè pare fin dagli anni giovanili cara alle Muse ed il primo libro, per quanto non scevro da qualche ingenuità, propria di ogni esordio letterario, ne è una parziale conferma. Ad uno stadio più maturo, giunge col secondo libro, Cielo intimo, 1992, recante una dotta prefazione di Benedetto Vetere.