Prima di essere parola,Finisterre è una visione del mondo, dell’essere, dell’esistere; è un modo di attribuire significati alla Storia, di interpretare i suoi segni, le sue stratificazioni, le coerenze, le contraddizioni. Anche le sue passioni. Anche i suoi enigmi. Prima di essere parola, Finisterre è un’espressione del destino, che quando ha motivo e movente di trasformarsi in parola, assume le forme della letteratura. Seguendo questa direzione, alcuni anni addietro ho fatto un Viaggio a Finibusterrae, pubblicato da Manni, e quello stesso viaggio ho fatto ancora in questi giorni mettendo nel bagaglio il saggio prezioso che Simone Giorgino ha intitolato La parola paesaggio con il sottotitolo di Scritture a Finisterre. Nella ricomposizione e ricostruzione della poetica del paesaggio, condotte con metodo rigoroso e sull’impianto di validate teorie, Giorgino attraversa e analizza i territori delle opere di Luigi Corvaglia, Vittorio Bodini, Rina Durante, Nicola G. De Donno, Giacinto Spagnoletti, Angelo Lippo, Pasquale Pinto, Antonio Verri, Antonio Prete, Carmelo Bene. Ad attraversamento e ad analisi conclusi, viene il pensiero che in queste scritture il paesaggio della natura sia stato assorbito nel paesaggio interiore di colui che ha scritto restituendo una configurazione di paesaggio che consiste sostanzialmente sia in quella dimensione che James Hillman definisce l’anima dei luoghi sia in quell’altra che si definisce i luoghi dell’anima.
La parola partecipata. Con una table d’hôte Di Antonio Romano
È ancora fresco di stampa l’ultimo libro di Pino Mariano, La parola partecipata (Lecce, Milella 2024), un saggio sulla comunicazione umana, perfetto per i nostri tempi di incertezze e di trasformazioni.
Al lettore che s’interessi a questi temi, risulterà inevitabile pensare immediatamente al senso dell’espressione evocata dal titolo.
Per lo studioso, la presenza di “parola” evoca campi semantici ben definiti eppure sterminati, dagli alti picchi della retorica più brillante agli abissi del turpiloquio più rivoltante. Allo stesso modo, per il lettore non specialista, “parola” può essere un termine che, da “unità lessicale” – includente l’asciutto universo della grammatica, delle parti del discorso –, passa a indicare tanto l’immaginario elemento fondativo della “verità”, dell’atto performativo di quando si “dà la propria parola”, quanto il turno dialogico, dell’affermazione dell’individuo che “prende la parola” e si colloca nel pieno dell’eterno discorso universale.
A “parola” si associa però, appunto, “partecipata” ed è questo un secondo elemento molto suggestivo, perché pensiamo alla funzione sociale della comunicazione linguistica, così come alle sue origini e alle sue destinazioni che in altri tempi sarebbero parse le più sublimi: il canto corale o la preghiera collettiva.
La centralità di questi argomenti, già evidenziata negli anni ’60-’70 nei lavori di Marshall McLuhan, riflettendo sul ruolo aggregante di radio, TV e media, è da qualche anno tornata d’attualità per via dell’ulteriore, sconfinato, allargamento comunicativo determinato dalla diffusione dei social media (potenzialmente destinata alla diffusione – e all’omologazione – universale).
So wie das letzte Grün in Farbentiegeln
sind diese Blätter, trocken, stumpf und rauh,
hinter den Blütendolden, die ein Blau
nicht auf sich tragen, nur von ferne spiegeln.
Sie spiegeln es verweint und ungenau,
als wollten sie es wiederum verlieren,
und wie in alten blauen Briefpapieren
ist Gelb in ihnen, Violett und Grau;
Verwaschnes wie an einer Kinderschürze,
Nichtmehrgetragnes, dem nichts mehr geschieht:
wie fühlt man eines kleinen Lebens Kürze.
Doch plötzlich scheint das Blau sich zu verneuen
in einer von den Dolden, und man sieht
ein rührend Blaues sich vor Grünem freuen.
L’ortensia blu
Così come l’ultimo verde nei barattoli di colore
sono queste foglie, rasciugate, opache e ruvide
dietro le infiorescenze che non recano
su di sé alcun blu: solo da lontano lo rispecchiano.
Lo rispecchiano slavato e indefinito
come lo volessero perdere di nuovo
e come in vecchie carte da lettera
c’è in esse del giallo, del violetto e del grigio;
slavato come sul grembiule di un bimbo
non più indossato cui nulla più accade:
come si percepisce la brevità di una piccola vita?
Ma improvviso il blu sembra rinnovarsi
dentro una delle infiorescenze e si vede
commovente il blu rallegrarsi davanti al verde.
Breve commento: nel meditare sul vivere e sulla sua brevità la
poesia rilkiana fa della lingua una sorta di materiale pittorico che,
“dipingendo” con le parole, non scade mai nel bozzetto o
nell’oleografia, potenzia anzi le capacità espressive della lingua e della sua
sintassi; lo sguardo del poeta cerca e trova nella lingua in poesia una
finissima, ammirevole sprezzatura per dirla con la celebre definizione
di Cristina Campo: «Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica
di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la
compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su
un’ascesi coperta. Due versi la racchiudono, come un astuccio l’anello: ‘Con
lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare’» (Gli
imperdonabili, Adelphi).
Concludendo il
suo editoriale, dal titolo La
cospirazione provinciale, pubblicato sul numero 5-6 della rivista
«L’esperienza poetica», da lui fondata e
diretta dal 1954 al 1956, Vittorio Bodini, dopo aver affermato che «essa [scil. la rivista] mira in realtà a una
nuova revisione di valori poetici e culturali, tale da ricostituire il filone
d’una tradizione alla luce delle nuove esperienze»[1],
così scriveva: «E intanto si riprovano le letture, si correggono i rapporti e
le errate prospettive dei poeti più vicini nel tempo, e non può certo
meravigliare che si sia cominciato da Quasimodo»[2].
In
effetti, il poeta siciliano era stato, fin dall’inizio, uno dei principali
punti di riferimento, una sorta di nume tutelare anzi, di questa rivista, che
si proponeva di documentare, nel modo più aperto e ampio possibile, la tendenza al rinnovamento
della poesia italiana, rifiutando l’alternativa tra ermetismo e neorealismo e
indirizzandosi invece verso un moderato sperimentalismo, inteso, come chiarì lo
stesso Bodini, nel senso di «saggiare, di provocare delicatamente la natura
della nuova poesia, di indagarne e verificarne attentamente le ragioni, prima
di convincerci e di cercar di convincere col rumore di averle trovate»[3].
Non a caso, nel primo numero, compariva un
articolo del redattore, Luciano De Rosa, intitolato Quasimodo e la difficile strada del sentimento, nel quale si
distinguevano varie fasi della poesia quasimodiana, che erano messe in rapporto al momento storico in cui si erano sviluppate. De Rosa infatti, dopo un
primo periodo «autobiografico e impressionistico»[4],
notava una graduale evoluzione dalle raccolte degli anni Trenta, caratterizzate
dalla poetica della parola, «cioè dell’autonomia del mezzo espressivo come
avvento dalla parola-res o parola-mito e crisi dei valori romantici del
sentimento»[5], alle Nuove
poesie e ai Lirici greci, in cui «si fa strada quella poesia diretta,
espressione immediata dei sentimenti,
che occuperà da sola il Quasimodo della guerra e del dopoguerra»[6].
Nelle raccolte postbelliche, poi, il poeta si apre alla nuova realtà storica e
impiega «tutte le risorse in un canto largo, ispirato da una cosciente umiltà
verso il genere umano tradito e offeso»[7],
spingendosi di nuovo «nella polis, “operaio di sogni” in mezzo agli uomini»[8].
In quest’ultima fase, «cade, una dopo l’altra, ogni riserva, ogni reticenza in
una decisione sempre più irrevocabile di confessione totale, di canto spiegato»[9].
Quella di De Rosa era una disamina equilibrata e serena, che mirava a
rintracciare una continuità nell’evoluzione, non a vedere fratture nette, come
si incominciava a fare in quegli anni, tra un “primo” e un “secondo” Quasimodo,
né tanto meno a emettere condanne verso un periodo particolare della sua poesia[10].
Tutte le mattine ascolto Prima Pagina, di Rai Radio Tre. Questa settimana c’è Federico Fubini, del Corriere della Sera. Specialista di economia. Parla con voce pacata, melliflua, e molti ascoltatori che telefonano si complimentano per come conduce la trasmissione. Il 17 aprile ha parlato del gas russo. Un tempo molto conveniente per noi, ci informa: i prezzi erano molto vantaggiosi. Ma, se dovessimo ricominciare a comprare da loro, i prezzi sarebbero senz’altro più alti, visti i prezzi degli altri fornitori. Fubini suggerisce, quindi, che se oggi compriamo gas da altri, a prezzi più alti, i russi alzerebbero anche loro i prezzi. Così, dico io, continueremmo a comprare dagli altri, visto che non ci sarebbe differenza. Mi gratto la testa e, mentre sta distillando altre pillole di saggezza interpretativa di quel che legge dai giornali, scrivo un messaggio alla redazione. Gli ascoltatori possono scrivere messaggi oppure telefonare. Ecco il mio messaggio: “Se ci sono più fornitori di una merce ci avete sempre detto che i prezzi sono più bassi per la concorrenza, ora ci dite il contrario: prima compravamo solo dalla Russia, ma ora con più fornitori il prezzo del gas russo salirà ! Ma perché raccontate queste storie? Nando”. Gli ascoltatori devono firmare i messaggi con il nome, niente cognome, e specificare da dove li mandano. Niente messaggi anonimi. C’è differenza se un messaggio lo ha scritto Nando oppure Asdrubale. E se lo manda da Suzzi ha significato ben differente se, per caso, lo dovesse mandare da Pizzonero.
Mi sono fermato a guardare tre dipinti
ad olio di Marcello Toma e mi è venuta voglia di scriverne. Scrivere d’un
quadro significa fare un esercizio di traduzione, che, se già è difficile
quando si tratta di passare da una lingua ad un’altra, diventa pressoché
impossibile quando la traduzione avviene da un’opera d’arte figurativa ad una
prosa. Il rischio è l’infedeltà. Ma il desiderio incalza l’interpretazione ed
io spero nel perdono del pittore e dei lettori.
***
Che ci fanno due aironi nei
pressi di una scavatrice sullo sfondo di un paesaggio irreale (Di passaggio – serie
Nemesi – Olio su tela, 60×80 cm, 2024)? E che ci fa una donna che
sembra danzare nelle profondità marine ed esalare il respiro in mille bollicine
tra tubi in acciaio di una sommersa piattaforma petrolifera (?) (Il tempo
sospeso, olio su tela, 70×50 cm, 2021)? E come sono capitati in alto mare su
una nave piena di congegni meccanici (o è un sottomarino appena riemerso dagli
abissi?) due bambine – forse sfuggite al controllo dei genitori -, che, dietro
un oblò, scrutano il sorgere del sole (L’alba inattesa, olio su tela,
60×80 cm, 2022)?
Sono scene di un sogno che muta forme ma non
muta senso e lascia in chi le guarda lo stesso identico sentimento di
sospensione, di attesa che un evento si compia in un tempo avvenire, lontano ma
già presente, entro un quadro in cui l’analogia offre al pittore l’occasione di
cogliere il meraviglioso nell’insolito accostamento e di comunicarlo agli
altri.
A che luoghi apparteniamo? Nascere in una grande città o
lungo la sponda di un fiume, essere nati al sud, dentro la luce abbacinante del
bianco color calce e di cieli azzurri sempre sgombri, oppure in uno di quei
piccoli villaggi di frontiera lungo la linea del confine nord orientale,
l’odore di legna umida che impregna l’aria sottile del mattino, sono
possibilità che ci fanno pensare come la geografia possa decidere. Come la
geografia determini in anticipo chi siamo e chi saremo, tratteggi un carattere,
offra opportunità o, altre volte, lavori per sottrazione. Ma quando un luogo si
immagina appartenente solo alla geografia, allora la storia avanza le proprie
istanze, talvolta pretende di manometterlo.
Siamo nell’alta Valle del Judrio dove il fiume, incassato tra
le montagne, per un lungo tratto fa da confine tra Italia e Slovenia, fino al
1991 Repubblica Federale di Jugoslavia. È in questa terra di frontiera, la
Benečija o Slavia Veneta che trovano ambientazione i racconti di “Radio Judrio
– vivere dentro la frontiera” ultima opera narrativa di Barbara Pascoli (Kappa
Vu Edizioni) che si arricchisce delle fotografie di Massimo Crivellari,
fotografo professionista che con i suoi scatti indaga magnificamente
l’interazione fra uomo e ambiente.
È qui che gli elementi dell’ambiente naturale giocano un
ruolo decisamente importante nella rappresentazione collettiva dei luoghi di
frontiera contribuendo a mettere in discussione gli stessi confini politici.
Siamo nella settimana pasquale e “or che stiamo in festa e in giolito”, per dirla con Francesco Redi, imperversano le uova di cioccolato che nei bar ed in casa fanno bella mostra di se durante tutto il periodo festivo. Fin dagli albori della storia umana, l’uovo è considerato la rappresentazione della vita e della rinascita. I primi ad usare l’uovo come oggetto beneaugurante sono stati i Persiani che festeggiavano l’arrivo della primavera con lo scambio di uova di gallina. I Romani erano soliti sotterrare un uovo dipinto di rosso nei campi come simbolo di fecondità e quindi propizio per il raccolto. La tradizione di colorare le uova è tutta romana. Da Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, sappiamo che si prediligeva il rosso perché questo colore doveva distruggere ogni influsso malefico. Da Elio Lampridio, nel poema epico De Epidauro, apprendiamola credenza che il giorno della nascita dell’Imperatore romano Alessandro Severo una gallina di famiglia avesse deposto un uovo rosso, segno di buon auspicio. L’uso di regalare uova è collegato al fatto che la Pasqua è anch’essa la festa della fecondità e del rifiorire della natura, in primavera, dopo la morte invernale. L’uovo dunque è il simbolo della natura e della vita che si rinnova ed auspicio di fecondità. I primi cristiani fecero propria questa simbologia del tutto pagana, con riferimento alla Resurrezione, e nel giorno di Pasqua usavano sistemare sopra l’altare un cestino pieno di uova perché fossero benedette dal sacerdote.
Il morbillo è una malattia infettiva esantematica causata da un virus a
RNA, il Paramyxovirus del genere Morbillivirus; il virus viene distrutto dal
riscaldamento a 56° per un’ora, dalla formaldeide 1/4000 dopo 4 giorni a 37 °, nonché
dai raggi ultravioletti. La sua attività si riduce rapidamente a 37° e
nell’ambiente esterno può sopravvivere nell’aria fino a due ore.
Il morbillo continua ad essere tra le più gravi malattie infettive acute
che colpiscono i bambini con una mortalità complessiva che in passato ha
raggiunto anche il 5%, rappresentando un serio problema di salute pubblica.
Prima della vaccinazione il morbillo, assieme alla parotite, alla rosolia e
alla varicella, era una infezione tipica dell’età infantile e colpiva in
particolare i bambini al di sotto dei cinque anni. Possono ammalarsi di
morbillo anche gli adulti che non sono vaccinati e che non hanno mai contratto
il morbillo, quindi sono individui sprovvisti di una immunizzazione contro questo
morbo. L’adulto non immunizzato e che soffre di malattie che compromettono le
difese immunitarie, come diabete mellito, AIDS, malattie autoimmuni e
l’associazione con chemioterapici e cortisone, è maggiormente a rischio. Il
morbillo che si contrae in età adulta non è insidioso, ma resta un’infezione
con le stesse possibili complicanze dell’età infantile.
Tre volte sole ricorre, nelle parole che possediamo di Luigi Pirandello, il nome di Otto Weininger e in una, la celebre lettera datata 8 aprile 1930 indirizzata a Marta Abba, la citazione si presenta subito sospetta, alonata di negativo, circondata da una eccessiva preoccupazione discriminante e infine respinta lontano da una accensione ascetico-platonica affidata alla “nobiltà” interpretativa dell’attrice milanese. Era questo, a ben vedere, come tenterò di argomentare, il segno decisivo dell’influenza che il libro pubblicato nel 1903 ebbe sull’elaborazione difensiva di quel “complesso di Parsifal”, come ho proposto più volte di definirlo nei miei studi pirandelliani, un processo che traduceva “l’orrenda notte di Como” nell’adorazione per l’intangibile “Beatrice” rappresentata per Luigi dalla sua Musa Marta. Tuttavia, appare difficile non ricordare, con Leonardo Sciascia dell’Alfabeto pirandelliano, che tutte le vite di chi aveva a che fare con Pirandello erano “vite di vittime di cui Pirandello era vittima”. Sotto l’apparente impegno di analizzare l’interpretazione artistica del personaggio di Fiamma nell’omonimo dramma di Hans Karl Müller fornita dalla celebre attrice tedesca Kathy Dorsch (presto la Abba avrebbe portato in scena il medesimo personaggio), il drammaturgo, nella lettera, trova modo di accennare ad un conflitto alla Weininger tra l’istinto materno e quello sessuale che la “nobiltà” della Abba avrebbe reso, appunto, “drammatico”, senza cadere in volgarità e sguaiataggine.
che «la guerra non
viene più dichiarata, / ma continuata» è verità (poetica, politica e storica)
che non smette di perpetuarsi, triste e violenta.
Quando lei chiede a
suo padre «perché in quel tempo avete taciuto e non continuato a pensare?»
quell’espressione (“in quel tempo”) si riferisce al
Nazionalsocialismo e al fatto che milioni di Austriaci (così come in precedenza
i Tedeschi) l’avevano accolto, chi con manifesto entusiasmo, chi in silenzio.
La poesia è, dunque,
“continuare a pensare”, tenere desta l’attenzione critica, la
coscienza, la consapevolezza del momento storico in cui ci è dato vivere?
Riapre la biblioteca.
Ora che la biblioteca di Galatina è stata riaperta al pubblico ed accoglie le
giovani generazioni fra i suoi libri vecchi e nuovi, non posso non pensare a
com’era un tempo, tanti anni fa, quando mi ci recavo le prime volte. Ci andavo
veloce sulla mia bicicletta rossa per portare una richiesta libraria di mio
padre al direttore Antonio Linciano, lieto sempre di soddisfarla col suo fare
tra il burbero e il buono. L’accesso era dalla porta che s’apre di fronte per
chi entra nella prima sala dell’odierno Palazzo della cultura, dove oggi v’è
una silenziosa e attrezzata sala lettura. Ricordo i numerosi cartoni
disseminati in questa stanza dai soffitti crepati e un po’ umidi, e in altre
ancora, per terra e sui tavoli, contenenti le collane editoriali di quegli anni,
che oggi sono disposte in buon ordine sulle scaffalature alte fino al soffitto.
Trovato il volume tra mille, per me tredicenne veniva la parte difficile che il
direttore mi imponeva come un dovere inderogabile: dovevo compilare le schede
del prestito. Ce n’era una bianca, che attestava la consultazione preliminare,
ed una verde per il successivo prestito esterno. Su entrambe, dovevo scrivere
con precisione tutti i miei dati anagrafici e quelli bibliografici, sotto gli
occhi attenti e severi del direttore, che a sua volta scriveva dei numeretti
con una penna rossa su un quaderno nero, barrandoli all’atto della restituzione
del libro. Così teneva il conto, pensavo, dei prestiti avvenuti e delle
restituzioni. Cogli anni Donato Grandioso avrebbe snellito la pratica del
prestito fino al velocissimo prestito computerizzato. Intanto, nel tempo, e al
prezzo di un’immane fatica, al catalogo redatto dal Bardoscia e dal Cesari, con
la calligrafia fiorita d’uso in anni lontani, si era aggiunto, e poi
sostituito, il catalogo cartaceo scritto a macchina, curato da Linciano in
collaborazione con l’ottima catalogatrice dott.ssa Angela Impagliazzo, ch’era
un piacere sfogliare alla ricerca di… Chissà se nel generale rinnovamento della
biblioteca si è pensato di conservare questi due “piccoli monumenti” che
riguardano la sua storia ormai più che secolare?
Oggi tutto è cambiato,
il catalogo è online, comodamente consultabile da casa e c’è anche la
possibilità di accedere alle biblioteche afferenti al sistema bibliotecario di
Puglia. Quanto ben di Dio a disposizione dei giovani, mi son detto, percorrendo
le sale piene di libri ben disposti della nuova biblioteca. Sono certo che essi
ne approfitteranno!