Presentazione di Ettore Catalano, Il complesso di Chirone – Bari, 23 maggio 2025

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Manco p’a capa 257. La strada della sostenibilità è ancora lunga e tortuosa

di Ferdinando Boero

Marchionne, quando era a capo della FIAT, disse: se un’auto elettrica prende energia da una centrale a carbone… va a carbone. Certo, diminuisce l’inquinamento in città, ma delocalizzare l’inquinamento è solo una finta. Il passaggio alle rinnovabili dovrebbe risolvere il problema.
Prima avevo un’auto a gasolio, ma oramai era vecchia e l’ho cambiata. Non volevo comprare un’auto da ricaricare alla colonnina, non c’è ancora garanzia di autonomia e di ricarica rapida. Ero soddisfattissimo dell’auto che avevo, così ho deciso di rinnovare la scelta e ho preso il nuovo modello. E’ elettrica, mi dice fiero il concessionario: le ruote girano solo grazie a un motore elettrico, sempre. E per la ricarica? No, non c’è bisogno di colonnine, c’è un motore a benzina che ricarica il motore elettrico. Quando finisce la benzina, si fa rifornimento. Semplice no?
Prima di comprarla mi sono informato, ma non ho trovato di meglio per rispondere alle mie esigenze. Se c’è non l’ho trovato e non ditemelo, che ci resto male.
Ora, tornando a Marchionne, la mia auto elettrica va … a benzina. La settimana scorsa ho fatto 1.200 km e, se avessi dovuto ricaricare da colonnine, ci avrei messo molto di più di 11 ore.
Il bello è che con il diesel facevo mille km con un pieno, e ora ne faccio 750, se sto attentissimo. E ogni 15.000 km devo fare un tagliando che costa 350 euro. L’ho fatto oggi.

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Presentazione di Massimo Galiotta, Arte e pensiero critico – Trento, 22 maggio 2025


“Giovedì 22 maggio 2025 alle ore 17.30 presso il Palazzo della Regione (Sala Donna – 2° piano), in Via Gazzoletti n. 2 a TRENTO. LA REGIONE AUTONOMA TRENTINO-ALTO ADIGE/SÜDTIROL e “REGIONE FUORI DAI VETRI” in collaborazione con “ARTE TRENTINA | LA RIVISTA DELL’ARTE IN TRENTINO” per il ciclo “LA REGIONE INCONTRA L’ARTE” presenta il libro “ARTE E PENSIERO CRITICO – DIARIO DI UN CONNOISSEUR” (2024), di Massimo Galiotta, edito a Rovereto per le Edizioni d’Arte Dusatti.
Massimo Galiotta, critico d’arte, redattore della rivista Arte Trentina e autore del libro dialoga con Warin Dusatti, direttore della rivista, e Giuseppe Tasin, curatore patrimonio artistico della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol.  Per ragioni di posti disponibili in sala si chiede un’iscrizione al seguente link, al fine di valutare un’eventuale diretta streaming: https://forms.gle/LqRoWHTz36QmAa529 “
Per maggiori informazioni:
Bernadette KÖFLER – Tel. 0461201416 – email:
bernadette.koefler@regione.taa.it Giuseppe TASIN – tel. 0461202504 – email:
giuseppe.tasin@regione.taa.it


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Geni incompresi

di Paolo Vincenti

Leggo sul web un articolo a firma di Aldo Nove, che dice: “Perché dimenticate Garbo, il più grande poeta in musica? Altro che De André, Guccini, De Gregori e Vecchioni, riascoltate la sua discografia che porta oltre le Colonne d’Ercole del già sentito…” [1].  Si riferisce al cantante Renato Abate, alias Garbo, che negli anni Ottanta ha avuto un discreto successo con album come A Berlino… Va Bene (1981), Scortati, del 1982 e Fotografie (1984). Garbo si rifaceva alla musica new wawe e a nomi importanti come David Bowie, Roxy Music, Japan. Il suo era in effetti un synth-pop molto sofisticato, con testi ricercati; si presentava con un look glam che andava di gran moda in quegli anni. Continua Aldo Nove: “Smettetela con i soliti cantautori: Garbo è il poeta dimenticato della musica italiana, il David Bowie nascosto sotto la polvere della nostra ignoranza collettiva. La sua discografia è un viaggio mistico tra synth, poesie e visioni che fanno impallidire tutti gli intoccabili. Cinquant’anni di carriera, zero beatificazioni: è ora di rimediare”. Nel pezzo, dopo aver rivendicato l’assoluta originalità di Garbo nel panorama della musica italiana di quegli anni, cita anche Fausto Rossi, in arte Faust’O, altro cantautore impegnato ma lontano dai lustrini e paillettes dello show business.

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Luigi Latino, La fierezza


Acrilico su tela, cm. 30×40, 2025.
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Nell’Archivio di Michele Saponaro 3. Michele Saponaro e Emilio Cecchi, con lettere inedite (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

Lettere inedite di Emilio Cecchi e Michele Saponaro

I

Egregio Signore,

            ho ricevuto, respintami quassù, la sua lettera del 18. Io sono richiamato alle armi dal maggio 1915; e in tutto questo tempo non ho potuto affatto lavorare. Il suo invito non fa che stimolare un desiderio molto vivo, e dare forma a delle disposizioni. Non vorrei fare delle promesse generiche: entro il 15 del mese prossimo spero di poter scriverle, accompagnandole un ms. o dicendole che, nelle condizioni presenti, è impossibile. Intanto, grazie e saluti cordiali dal suo

devmo

Emilio Cecchi

24. VI. 1918

                Cartolina in franchigia postale manoscritta indirizzata a: Michele Saponaro / «Rivista d’Italia» / 14 Galleria Vittorio  Emanuele / Milano.

                Mittente: Capitano Emilio Cecchi, Capo dell’ / Ufficio di Commissariato / della 12a Divisione di Fanteria / z. d. g.

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Sei pezzi ateniesi

di Antonio Devicienti

Atene appartiene al gruppo delle città cristallizzate in immagini fisse: l’Acropoli, la Plaka e Monastiraki, luoghi comuni del turismo di massa. Ma per chi come me proviene dal Salento è proprio la cosiddetta Atene moderna, comunemente considerata brutta e priva d’interesse, ad essere stata una sorta di rivelazione: nel suo apparente disordine urbanistico mediterraneo e levantino che sembra frutto da un lato di assenza di regole, dall’altro di una singolare estrosità,  Atene offre l’occasione di perdersi per le sue strade, di scoprire accanto a luoghi fortemente segnati e condannati dalla crisi finanziaria e politica altri che sono silenziosi, eleganti, segreti oppure talmente appartati da sfumare nella campagna, ricordando quei paesi del Salento o della Sicilia penetrati di silenzio, spesso violentati dall’edilizia degli ultimi decenni, ma nei quali si trova un residuo di solidarietà e  umanità, un ritmo di vita molto meno convulso di quello di cui siamo vittime più o meno consapevoli.

Atene può allora ancora essere una delle capitali di un Sud mediterraneo dove la vita accade sulle terrazze, sui balconi, nei cortili interni, nei caffè (preferibilmente ai tavolini sistemati in piazza o sul marciapiede). In questo esiste forse una continuità con l’Atene antica, che aveva fatto dell’Agorà la  vera anima di sé stessa.

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Dire degli alberi …

di Antonio Prete

Dire degli alberi, dei loro ombrosi

pensieri. Dire del vento che li abita,

della fumida sera che li accoglie

nell’insonne torpore, della luce

che nelle albe rabbrivida le foglie.

.

Dire dei cieli che si acquietano tra i rami,

del ricordo di neve

che sta nel cuore del frutto.

.

Con quelle stesse sillabe non tacere

sulle stragi, sui loro mandanti,

sui corpi fatti cenere e memoria,

sui desideri crivellati di nero.

.        

Priva di lingua, stormendo,

la terra piange sulla ferita

che è ancora ferita.

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Il mausoleo a Giandomenico Sala, illustre medico di Padova, nella Pontificia Basilica del Santo

di Rocco Orlando

Monumento a a Giandomenico Sala nella Pontificia Basilica del Santo.

     La Pontificia Basilica Minore di Padova, edificata nel XIII-XIV secolo per accogliere la tomba di S. Antonio, è stata scelta in seguito come luogo di sepoltura di importanti personaggi e dei loro familiari, e questo per vari motivi come il prestigio, la potenza personale o del proprio casato, oppure la volontà di giovarsi delle preghiere dei pellegrini. Così dicono Piero Lazzarin e fra’ Giorgio Laggioni nel “Messaggero di Sant’Antonio” del 14 febbraio 2016: “Tombe, cenotafi, monumenti più o meno pomposamente bardati, tappezzano le pareti della Basilica e dei chiostri. C’è chi li ritiene elementi ingombranti, brutti ed estranei alla logica architettonica del Santuario. È vero, tutti bellissimi non sono, ma rappresentano ciascuno lo stile,  il pensare del tempo che li ha voluti, ed evocano momenti della storia della città”.

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Antonio Stanca, Universum A-49


31-05-2004, olio su MDF, cm 98 X 98.
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Massimo d’Azeglio e il progetto di una letteratura nazionale: Ettore Fieramosca, ossia la disfida di Barletta (Parte prima)

di Ettore Catalano

Non è certo casua1e il fatto che i primi accenni all’Ettore Fieramosca nei Miei ricordi di Massimo d’Azeglio si collochino subito dopo un violento attacco a tutto campo nei confronti della mazziniana “Giovane Italia”, nel corso di un serrato ragionamento che evidenzia, con estrema chiarezza, la concretezza del “moderato” statista e artista piemontese.  Massimo d’Azeglio contrasta, scrivendo qualche anno dopo l’Unità d’Italia, l’opinione di chi ritiene che la raggiunta indipendenza si debba all’operato di “codeste sette” [1] e riporta l’attenzione “sul carattere nazionale”, per cui “bisogna far gli Italiani se si vuol avere l’Italia: e che una volta fatti, davvero l’Italia farà da sé”[2] .

Per costruire quel carattere che costituisca un primo passo verso la conquista di una identità nazionale, d’Azeglio decide di servirsi della letteratura e progetta un romanzo capace di fondare l’ipotesi di una letteratura nazionale. Si badi: letteratura, perciò nella coscienza di d’Azeglio c’è non solo l’elemento circoscritto dall’aggettivo “nazionale”, ma anche la coscienza di operare nel campo specifico del romanzo (definibile o meno “storico”). Spesso i critici (e quelli a lui contemporanei, soprattutto), calcando la mano sull’elemento patriottico, hanno dimenticato o trascurato tale coscienza specifica e ciò ha portato a confondere nella condenda pedagogia nazionale un’opera che, se non è un capolavoro assoluto, non può tuttavia essere scambiata per un prodotto della scuola lombarda tout court (o addirittura manzoniana), né ridotta ad un feuilleton.[3]

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 25. Natura meravigliosa

Colori acrilici, materiali fossili su legno, cm. 70 x 70, anno 2013.
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Le Vie dei Canti salentini

di Gianluca Virgilio

“Eppure mi pareva che le Vie dei Canti non fossero necessariamente un fenomeno australiano, ma universale; che fossero i modi con cui l’uomo delimitava il suo territorio, e così organizzava la sua vita sociale. Tutti gli altri sistemi adottati in seguito erano varianti – o perversioni – del modello originario.”

Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti

A Bruce Chatwin e al suo Le Vie dei Canti ho pensato man mano che andavo avanti nella lettura del bel libro di Simone Giorgino, La parola paesaggio. Scritture del Finisterre, Milella, Lecce, marzo 2025, a riprova che i libri non sono mai delle monadi non comunicanti, ma rimandano l’uno all’altro, attraverso la mente del lettore, illuminandosi a vicenda nel loro senso profondo. Nei suoi viaggi australiani Chatwin scopriva che per gli aborigeni i luoghi non sono semplici spazi fisici insignificanti, ma che ogni rupe, ogni fonte, ogni pianura conserva una storia e solo da questa e per questa diviene riconoscibile ovvero acquista un senso e dà un orientamento esistenziale a coloro che li percorrono. Ebbene, Giorgino, in questo lavoro che fa seguito al recente Eretico barocco. Una linea meridiana nella poesia italiana del Novecento, Carocci, Roma, settembre 2024, ha selezionato gli scrittori, prosatori e poeti (ben dieci), che con le loro storie oggi danno un senso preciso a Finisterre, al paesaggio salentino delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, senza le quali noi non guarderemmo ad esso come facciamo e neppure riconosceremmo noi stessi.

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Nell’Archivio di Michele Saponaro 2. Michele Saponaro e Emilio Cecchi, con lettere inedite (Parte prima)

di Antonio Lucio Giannone

            Michele Saponaro è stato uno degli scrittori di maggiore successo in Italia nel periodo tra le due guerre. Esponente della narrativa d’intrattenimento, concepita per soddisfare i gusti del pubblico borghese di quegli anni, egli ebbe però anche notevoli qualità letterarie, che si rivelano soprattutto in certi romanzi a sfondo autobiografico, caratterizzati da una delicata vena idillica, nei quali è costantemente presente il motivo della terra natia. Col passare del tempo e col mutamento radicale dei gusti e degli orientamenti letterari, l’opera di Saponaro è stata quasi completamente dimenticata. Solo nel 1983 è apparsa la ristampa del suo romanzo più riuscito, Adolescenza, curata da Michele Tondo, amico e studioso dello scrittore[1]. Non sarebbe del tutto inutile però un riesame critico della sua produzione, sia alla ricerca dei motivi del largo favore che ottenne presso i lettori, sia per individuare i nuclei più genuini e validi della sua ispirazione. Tanto più che Saponaro, per più di mezzo secolo, è stato al centro della società letteraria italiana, collaborando ai maggiori quotidiani, da «La Stampa» al «Corriere della Sera», e a svariate riviste di cultura. In particolare, tra il 1908 e il 1909, sotto lo pseudonimo di Libero Ausonio, fu redattore-capo del settimanale napoletano «La Tavola Rotonda», dove pubblicò il manifesto di fondazione del futurismo in anticipo su «Le Figaro»[2], e dal 1918 al 1920 diresse di fatto, in qualità di redattore unico, la «Rivista d’Italia», che da Roma si era trasferita a Milano, promuovendone il rinnovamento attraverso l’invito alla collaborazione rivolto ai più noti rappresentanti della cultura nazionale[3].

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Coro tragico da Gaza

di Pietro Giannini

Nella puntata di “È sempre cartabianca” del 13 maggio 2013, è andato in onda un filmato sulle sofferenze dei bambini di Gaza. Contiene le conseguenze di un bombardamento e mostra alcuni bambini e ragazzi che soffrono la fame e sono denutriti. Il filmato dà una immagine completa della situazione. Ma anche la semplice registrazione delle voci, che accompagnano il filmato, dà un’idea del clima che lì si respira.

Le riportiamo qui, nella successione che hanno nel filmato. La situazione concreta è abbastanza intuibile.

Abbiamo intitolato il brano “Coro tragico” perché i lamenti e le voci sono abbastanza simili a quelli che si leggono nei cori delle tragedie greche; con l’unica differenza che questi sono ‘finti’, quelli sono veri.

Ogni battuta riproduce la voce di un interlocutore diverso. Abbiamo inframmezzato (in corsivo) voci ‘fuori scena’, che non provengono cioè dagli abitanti di Gaza, compresi alcuni degli spot pubblicitari che interrompono il filmato. La presenza di questi ultimi rende particolarmente scioccante il contrasto tra la drammaticità delle scene di Gaza e la tranquillità delle nostre vite. E forse ci può indurre a riflettere sulle nostre colpe, di noi che stiamo permettendo tutto questo.

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I miei amici cantautori: Marco Ferradini

di Paolo Vincenti

Sono stato a lungo trattenuto dall’ascoltare la produzione di Marco Ferradini per via di quella canzone, Teorema, che ritengo una delle più tamarre della discografia italiana (insieme ad Io vagabondo dei Nomadi e Ancora di Luciano De Crescenzo). La sdolcinata banalità di Teorema mi impediva di prendere in considerazione come cantautore Ferradini, di “leggere” cioè in filigrana il suo profilo discografico, ricomponendolo filologicamente, come faccio con tutti gli altri autori, in ispecie quelli che prediligo. Invece, mi sono recentemente dovuto ricredere, ascoltando sia pure svogliatamente il primo disco e poi via via tutti gli altri a seguire. Marco Ferradini, all’inizio della carriera, si dà alla produzione di diversi jingle pubblicitari ed entra anche nel “fantastico” mondo delle sigle dei cartoni animati. Partecipa ai cori di Ufo robot e Capitan Harlock e incide insieme a Silvio Pozzoli le sigle degli anime La principessa Zaffiro e Tex Willer, prodotte da Vince Tempera, e questo è già un bel bigliettino da visita. A Milano conosce Alessandro Colombini che diviene il suo produttore. Partecipa al Festival di Sanremo nel 1978 con Quando Teresa verrà. Il primo album, sebbene ricco di spunti, è ancora molto grezzo ed immaturo ma col secondo album imprime una svolta alla carriera. Si tratta di un Q-disc come si chiamavano allora i mini album (oggi si chiamano EP), un 33 giri più corto, se vogliamo, o un 45 giri più lungo. In questo disco, Schiavo senza catene, compare Teorema, il suo maggior successo di sempre.

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Marcello Toma, Upside down


Olio su tela, 70×50 cm, 2022.
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Manco p’a capa 256. Quel che Leone XIV non ha ancora detto

di Ferdinando Boero

La Natura e il rispetto della persona umana sono i cardini del pontificato di Francesco. Con Laudato Si’ chiede la conversione all’ecologia, con Fratelli Tutti dice che siamo tutti fratelli. La scelta del nome “Francesco” dà rilevanza alla comunione con la Natura e suggerisce particolare attenzione alla questione ambientale. La natura è un valore assoluto, a cui non sono attribuibili etichette politiche. Per il sostegno a pace, disarmo e fratellanza, Francesco è stato accusato di filocomunismo da qualche genio che pare ignorare che questi sono i valori di Gesù. Laudato Si’ identifica come “male” la distruzione di madre natura per avidità di ricchezza, e vede gli umani contro la natura, a distruggere le premesse per la loro stessa esistenza, mentre Fratelli tutti vede umani contro umani, a distruggersi a vicenda: il male sono la guerra e il riarmo. La scelta di Prevost di chiamarsi Leone richiama un papa Leone che si confronta con Attila, e un’enciclica sociale di un altro papa Leone. Leone, come dicono in molti, segue Francesco dando importanza alla fratellanza. E l’ambiente? La crisi climatica? La conservazione della Casa Comune? Il Creato?
Ho sentito il suo discorso inaugurale e ho contato quante volte Leone ha detto “pace”: dieci. E poi ha parlato in spagnolo, rivolgendosi alla sua parrocchia in Perù. Chiede pace disarmata quando tutti i governi propongono la pace armata, garantita dalle armi. E poi, da statunitense, parla in spagnolo al Sud America, lanciando un messaggio fortissimo a chi vede il “male” nei profughi “invasori”. Sommo gaudio dai laici che, ovviamente, tralasciano posizioni molto “credenti”, come se ci si potesse aspettare un papa “laico”. La destra, che spesso usa la religione per suoi fini, ostentando rosari, sottolinea le dichiarazioni fideiste: ci crediamo noi, ci crede lui, i miscredenti si rassegnino, Leone è con noi. Ognuno sceglie quel che porta acqua al suo mulino.

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Della Bibliothèque Nationale de France, del Site Richelieu, di Walter Benjamin e di altro ancora

di Antonio Devicienti

Gisèle Freund punta con una precisione che pertiene al rigore etico di chi vuole fare bene un lavoro la sua Leica – ma l’atto possiede anche una coscienza politica e vi è celata la silenziosa malinconia dell’esilio – fotografa Walter Benjamin che studia libri e cataloghi in una delle sale di lettura della Bibliothèque Nationale de France a Parigi.

Gli spazi dello storico Site Richelieu accolgono la mente della fotografa e del filosofo – parlano in tedesco, parlano della Germania e dell’Europa, si sono scelti due mestieri che recano dentro di sé l’inimicizia radicale nei confronti dell’intolleranza e del fascismo.

La sala di lettura della BNF è, allora, luogo di transiti e d’incontri, uno dei cuori pulsanti di Parigi, immagine concreta d’uno spazio dove la libertà è materiata di libri (che qui vengono raccolti e custoditi, dati in lettura o in prestito).

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Presentazione di Paolo Vincenti, Le storie dello scirocco – Torino, 15 maggio 2025

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