Dove (where)?

di Paolo Vincenti

“Ultimamente, i termini britannici vanno per la maggiore, vocaboli come yes, okkey, rapunzel, brunch, waterclòs sono sempre più utilizzati da coloro (color) che (that) pur essendo (too being) italiani (italians) vogliono (want) darsi (give themselves) un (one) tono (tune) internazionale (international). Ad essi va detto: ma va’ là, pirletta”.  (Parla come mangi – Elio e le storie tese)

Il rischio è che qualcuno scambi la mia per una battaglia di retroguardia o, peggio, revanscista, in tempi di conservatori al governo, oppure per una crociata in difesa dell’identità nazionale. Niente di tutto questo. È solo il mio solito disappunto per l’oltraggio alla lingua italiana, messa a duro cimento, nell’era social, dal linguaggio di whatsapp, instagramm e twitter. È che chi conosce solo le 700 parole necessarie alla sopravvivenza ne utilizza ormai almeno la metà in inglese. Non si tratta di autarchia linguistica, per carità. Chi scrive non ha nulla contro la lingua dei britannici, anzi io ritengo l’inglese una delle lingue più belle del mondo. Però est modus in rebus. Rapidissima e rapsodica carrellata per chi è duro di comprendonio: perché breakfast per colazione? perché dire cash per denaro contante? Perché finger food per gli stuzzichini ed happy hour per aperitivo? Perché apple pie per torta di mela? Oppure homeless per senza tetto? Perché meeting per incontro? Community per gruppo? Self enpowerment per stima di sé? Perché brainstorming per dibattito, riunione, confronto? Featuring per duetto? Dres code per codice di abbigliamento? Plan per programma? Business per affari? Food and beverage per ristorazione? All inclusive per tutto compreso? Sentiment per disposizione d’animo? Free per libero? Sold out per tutto esaurito? Mission per obiettivo? Vision per strategia, aspirazione? Enterprise o undertaking per impresa, azienda? Booking per prenotazione? Show cooking per cucina dal vivo? Shooting per servizio fotografico? Location per luogo? Mi fermo qui.

Ma non va meglio neanche se si fa a meno dell’inglese.

Pubblicato in Prosa | Contrassegnato | Lascia un commento

Marcello Toma, Haiku


Olio su tela / oil on canvas, 62x40cm, 2022.
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi | Contrassegnato | Lascia un commento

Il Salento delle leggende. Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni. Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

Gli amici.

Se non ci fossero loro, neanche noi saremmo come siamo. Senza amici saremmo persone altre. Diverse. Dimezzate. Gli amici ci completano, tanto quanto noi completiamo loro. In una sorta di mutua protezione e di sviluppo etico, sociale, affettivo, istruttivo.

Un sentimento, l’amicizia – quella vera e forte, naturalmente -, che è antico quanto l’uomo, e comunque fondante di tutte le civiltà. Nella nostra tradizione classicheggiante è emblematica, ed anzi proprio mitica, l’amicizia tra Oreste e Pilade, narrata da Euripide («Gli amici che nella sfortuna non si dimostrano tali, sono amici solo di nome, e non di fatto»), poi celebrata da Ovidio, Cicerone, e perfino dal sommo Dante nel canto XIII del Purgatorio.

Nello specifico ambito culturale e civile salentino ricorderemo ancora una volta il bel monito che ingiunge verso l’amico un affetto sincero e incondizionato: «Ama l’amicu tou cu lu viziu sou». Riconoscendo, tacitamente, che nessuno è perfetto. E noi per primi. 

Pubblicato in Culture, credenze e popoli | Contrassegnato | Lascia un commento

Barocco leccese (quattro prose)

di Antonio Devicienti

GIUSEPPE ZÍMBALO

È un’idea di spazio, un salire lungo tese tele (ma di pietra) da ricamare a scalpello.

Ricamavano le donne nelle loro case lenzuola e biancheria fiori putti e ninfe a rincorrersi sopra candide stoffe. (Forse non è così ma) egli (bambino) vedeva quell’andirivieni di aghi e di fili, (adulto) ebbe la visione di stoffe di pietra da ricamare con la sapienza dello scalpello.

Dietro le tele di pietra ricamata antevide spazi mossi in archi, colonne tortili, finestroni.

Li disegnò, consegnò al capomastro i fogli mentre già s’inoltrava nel cantiere eretto e aperto indicando con la mano distesa le giunture tra vuoto e pieno, tra convessità e concavità, tra cuore e intelletto.

Pubblicato in Prosa | Contrassegnato | Lascia un commento

Gallipoli nell’Europa dell’età dei lumi. Filippo Maria Briganti nel terzo Centenario della nascita – Gallipoli, 2 dicembre 2024

Pubblicato in Avvisi locandine e comunicati stampa | Lascia un commento

Parole, parole, parole 38. Cambiano i tempi, la lingua si adegua

di Rosario Coluccia

«After all, tomorrow is another day», ‘Dopo tutto, domani è un altro giorno’, così dice a sé stessa fuoriuscendo dai singhiozzi e dalle lacrime con una luce di speranza che le brilla negli occhi la splendida Vivien Leigh che è stata appena abbandonata dal fascinoso Clark Gable. Sto parlando, come tutti hanno capito, della scena finale di uno dei film più famosi di tutti i tempi, Gone with the wind (Via col vento nella traduzione italiana), in cui Vivien Leigh interpreta la capricciosa e volubile Scarlett O’Hara e Clark Gable il personaggio di Rhett Butler, stufo del comportamento incostante della donna, a cui alla fine dichiara «Frankly, my Dear, I don’t give a Damn», ‘Francamente, mia cara, me ne infischio’, reagendo così alle parole di Scarlett che lo supplica di restare ancora con lei.

Domani è un altro giorno, quella battuta è diventata comunissima: è il titolo di una canzone della meravigliosa Ornella Vanoni, di un film del 2019 diretto da Valerio Spada con Valerio Mastandrea,  Marco Giallini e altri; la sentiamo ripetere in situazioni in cui apparentemente niente di buono potrebbe più accadere ma invece c’è sempre speranza, speranza per un giorno migliore e per una nuova alba, come si ripete Scarlett aprendosi alle possibilità del futuro. Il film è la trasposizione cinematografica di un romanzo di quasi mille pagine di Margaret Mitchell, dato alle stampe nel 1936, premiato con il Premio Pulitzer nel 1937, che in poco tempo raggiunse il milione di copie vendute. Margaret Mitchell fu autrice di grande personalità, che seppe dar vita all’immortale Scarlett, brillante, bella, opportunista e senza scrupoli, le cui vicende si muovono sullo sfondo della Guerra di Secessione e della situazione che venne a determinarsi dopo la vittoria del Nord:  tramonto del Sud e di quella società nello stesso tempo raffinata e schiavista, che alla fine della schiavitù in gran parte continuava a pensare che tutto sommato i «negri» stavano meglio prima, nella precedente condizione di schiavi.

Pubblicato in Linguistica, Parole, parole, parole di Rosario Coluccia | Contrassegnato | Lascia un commento

L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo XII. Purg. XXX: “… e diessi altrui”

di Gianluca Virgilio

Purg XXX è uno dei pochi canti del poema dantesco la cui lettura consente di sostare lungo l’itinerarium ad Deum e di considerare la figura del personaggio-Dante nei suoi rapporti col narratore e coll’autore. Siamo nella selva del paradiso terrestre, la selva antica, e abbiamo già visto sfilare la mistica processione. Virgilio è uscito di scena, e in tripudio di fiori e di canti è comparsa Beatrice. Il tono del racconto è molto alto, sublime, come si addice ad una situazione fortemente drammatica. Dante, perduto il suo maestro, si sente ricondotto in uno stato di solitudine, tanto simile a quello della Vita Nuova[1], da cui lo risolleva un ben più severo maestro:

“Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non piangere ancora;

ché piangere ti conven per altra spada”

(55-57)

È facile ravvisare, dietro la durezza e la perentorietà di queste parole, il fren dell’arte dell’Alighieri, specialmente se si considera che quelle parole fanno seguito alla sequenza lirica dei vv. 22-33 (“Io vidi gia…”), “cuore palpitante dell’intero narrato dantesco della Commedia[2], alla reazione del protagonista alla comparsa di Beatrice (“E lo spirito mio…”) in cui l’Alighieri ripropone “uno schema ostentatamente mnemonico”[3], e alla contemporanea scomparsa di Virgilio (“Ma Virgilio n’avea lasciati scemi…”). Altrettanto dura e, direi, militaresca, la figurazione cui, con una similitudine, il poeta delega l’entrata in scena di Beatrice:

“Quasi ammiraglio che in poppa ed in prora

viene a veder la gente che ministra…”

(58-59).

Pubblicato in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio | Contrassegnato | Lascia un commento

Gaetano Minafra, Arte sacra 15. Madonna

Frammenti in pietra leccese decorati con pastelli acquarellabili; corona in ottone, decorazioni in metallo; il fondo è stato realizzato con colori acrilici e fasce di ottone colorate. cm 60 X 60, anno 2013.
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi | Contrassegnato | Lascia un commento

La vita di Edoardo De Filippo: arte, lotta, amore. È calato il sipario sull’ultimo atto della sua straordinaria vita

di Maurizio Nocera

Nella mia vita ho visto il grande drammaturgo napoletano più di una volta, a Roma ma anche nel suo teatro San Ferdinando di Napoli. Ero assieme ad un suo ammiratore, Amedeo Curatoli, pittore e politico anch’egli di Napoli, che lo conosceva personalmente. Allora, assieme ad Amedeo, scrivevo su un settimanale – «Nuova Unità», stampato a Firenze. Quando Eduardo volò nel più alto dei cieli, scrissi questo articolo, che ripropongo oggi ai lettori del «Il Pensiero Mediterraneo», in occasione dei 40 anni della sua morte.

Eduardo De Filippo (Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984), il dolce e acuto interprete della «Napoli ama­ra» di questo secolo, silenziosamen­te, quasi senza che nessuno se ne ac­corgesse, se n’è andato calando de­finitivamente il sipario sull’ultimo atto della sua straordinaria vita di autore-attore-regista. Pensare ad Eduardo come ad un qualsiasi mor­to non è possibile: la sua figura ma­cilenta, la sua scavata «maschera d’attore», la sua tenera e penetran­te voce sono così vive, così pulsanti di vita nel nostro ricordo che siamo indotti a pensare che ancora domani lo rivedremo apparire nello sce­nario di un palcoscenico a raccon­tarci le sofferte ed amare storie della sua Napoli, del suo sacrificato Meridione. Perché Eduardo, oggi ama­to cittadino del mondo, era prima di ogni cosa napoletano e figlio del Sud.

Pubblicato in Teatro | Contrassegnato | Lascia un commento

Arte e carattere di Marzio Mori. Una sospensione tra attualità e moralità della storia

di Mauro Di Ruvo

Oggi noi dovremmo comprendere come questo nostro retaggio cristiano-umanistico, privo oramai di co-essenzialità reciproca, possa ulteriormente evolversi nella direzione delle nuove esigenze della civiltà, oppure se lo si debba ritenere concluso.

Questo solo un precetto che contengono le pagine finali del nuovo libro di Marzio Mori, Arte e carattere. Dalla città ideale alla strada di Delft. Viaggio nelle certezze e nelle angosce dell’uomo moderno, edito quest’anno a Perugia da Volumnia Editrice. Una pubblicazione che forse attendeva da anni il suolo perugino per ripercorrere le vie strette dell’Arte, inoltrandosi nei nascosti vicoli che portano a scoprire nuove gallerie della storia.

Aspettandosi un lungo e corposo viaggio denso di pause e riflessioni presso le numerose stazioni cronologiche, il lettore rimane meravigliato alla vista di un così snello opuscolo, (63 pagine esclusa la bibliografia), assopendosi nello sguardo della copertina raffigurante Il principe di Miaz Brothers. Chi ancora deve alzare il piatto di coperta per giungere alla lettura inedita del testo, è già attratto e raggomitolato dal tepore quasi domestico e confuso dell’assenza di contorni e di definizioni grafiche dell’acrilico dei Brothers. Anzi recupera la calma per iniziare un viaggio che si dipana nella complessità del racconto.

Mori lo anticipa nel sottotitolo, un “viaggio nelle certezze e nelle angosce dell’uomo moderno” che si avvia, dopo una breve introduzione dell’autore, da una citazione di Jürgen Habermas che slaccia il filo del gomitolo narrativo.

E il filo slacciato è proprio quello di Giotto, dalla sua concorrente rivoluzione formale per quella novità francescana morale, che attraverso un «concetto estetico e ideale estremo» è riconosciuto dall’autore come promotore di quell’armonia che sarà propria del Rinascimento tra la Natura e Dio.

Pubblicato in Recensioni e segnalazioni | Contrassegnato | Lascia un commento

Pasifae e la vacca dedalica

di Gianluca Virgilio

Jean Lemaire, Dedalo costruisce la mucca di legno che 
Pasifae usa per accoppiarsi con il toro cretese, olio su tela, XVII secolo.
Museo delle Belle Arti di Agen.

“Nel mito di Pasifae, la donna che si fa costruire da Dedalo una vacca artificiale per potersi accoppiare con un toro, è lecito vedere un paradigma della tecnologia. La tecnica appare in questa prospettiva come il dispositivo attraverso cui l’uomo cerca di raggiungere – o di raggiungere nuovamente – l’animalità. Ma proprio questo è il rischio che l’umanità sta oggi correndo attraverso l’ipertrofia tecnologica. L’intelligenza artificiale, alla quale la tecnica sembra voler affidare il suo esito estremo, cerca di produrre un’intelligenza che, come l’istinto animale, funzioni per così dire da sola, senza l’intervento di un soggetto pensante. Essa è la vacca dedalica attraverso la quale l’intelligenza umana crede di potersi felicemente accoppiare all’istinto del toro, diventando o ridiventando animale. E non sorprende che da questa unione nasca un essere mostruoso, col corpo umano e il capo taurino, il Minotauro, che viene rinchiuso in un labirinto e nutrito di carne umana.”

Giorgio Agamben, Il toro di Pasifae e la tecnica, in Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben, dell’ 8 luglio 2024

La vacca dedalica è la tecnologia, che l’uomo usa per raggiungere ciò a cui mirava Pasifae quando si fece costruire la vacca artificiale, il piacere smodato di congiungersi carnalmente con il toro, la bestia priva di pensiero e dal vigore immane. Nel desiderio di Pasifae Agamben ci fa scorgere quello dell’uomo contemporaneo, la creazione di un’intelligenza artificiale priva di soggetto pensante, che dunque assicuri a chi ne fa uso un godimento puramente istintuale, come è quello che si suppone essere proprio dell’animale. Infatti, l’IA è semplicemente un algoritmo, che, pur essendo stato pensato attraverso l’ottimizzazione delle funzioni matematiche, non pensa a sua volta, ma si ciba del pensiero altrui in modo cannibalico. Pasifae è l’intelligenza umana in grado di pensare e di mettere in pratica il pensiero più mostruoso che si possa pensare, l’accoppiamento col toro nella vacca artificiale, ovvero con l’IA. Il risultato è la nascita di un mostro, il moderno tecno-Minotauro, ovvero l’uomo tecnologico contemporaneo, che si aggira come l’antico bestione vichiano nel labirinto del mondo, senza vie d’uscita, cibandosi di carne umana.

Pubblicato in Letteratura, Prosa | Contrassegnato | Lascia un commento

La dubbia efficacia delle agevolazioni fiscali per le imprese del Mezzogiorno

di Guglielmo Forges Davanzati

L’economia meridionale è caratterizzata da una struttura produttiva composta da imprese di piccole e medie dimensioni che operano in settori con basso valore aggiunto e con bassa propensione alle esportazioni. Ne costituiscono esempi la ristorazione, il turismo balneare, il settore delle costruzioni (quest’ultimo trainato dagli incentivi del Superbonus 110%) che, infatti, negli ultimi anni, sono i comparti che hanno espresso la maggiore domanda di lavoro nelle aree più povere del Paese. Come mostrato da una ricerca dell’Università della Campania (F. Isco, N. Moscariello e P., Fiera, I processi di crescita dimensionale delle aziende nel Mezzogiorno Strategie e performance delle medie imprese industriali, Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, Napoli, 2018), l’impresa di grandi dimensioni, nel Mezzogiorno, è oggi esclusivamente l’eredità degli anni dell’intervento straordinario (1950-1993) e, a seguito delle privatizzazioni – avviate, in Italia, a partire dai primi anni Novanta e reiterate dai Governi degli ultimi decenni, incluso il governo Meloni – è prevalentemente di proprietà estera.

Pubblicato in Economia | Contrassegnato | Lascia un commento

Memorialistica meridionale del Risorgimento: nuove acquisizioni (seconda parte)

di Antonio Lucio Giannone

(continuazione)

Ma adesso, anche per offrire un contributo nuovo per la Giornata di studi dedicata a Marco Sirtori, vorrei dare notizia di due altre opere che trattano questi avvenimenti e che si aggiungono al già ricco corpus di scritti or ora citati, una di carattere memorialistica e una che rientra nel genere drammatico. Sugli autori non si hanno molte notizie anche perché queste loro opere sono state scritte in inglese (e questa è una delle loro caratteristiche) e solo una è stata pubblicata anche in italiano. I loro nomi non figurano nemmeno nell’ampio repertorio di Guido Mazzoni sull’Ottocento, ricordato poc’anzi[1].

La prima è un libro di Antonio Nicolò, Ten years’ imprisonment in the dungeons of Naples, pubblicato a Londra in inglese nel 1861. Dell’autore, che nel frontespizio è definito «political exile», sappiamo che era nato a Sinopoli, in provincia di Reggio Calabria, nel 1823 ed era medico di professione. Anch’egli, nel 1848, aveva partecipato ai moti popolari scoppiati in vari centri del Regno delle due Sicilie dopo che Ferdinando II di Borbone aveva revocato lo Statuto costituzionale ed era stato imprigionato nelle carceri di Nisida e Procida per dieci anni, come tanti patrioti. Dopo lo sbarco in Irlanda nel 1859 si stabilisce definitivamente a Cork dove resta probabilmente fino alla morte.

La sua opera rievoca appunto i dieci anni di lotta e di prigionia, dalla latitanza alla cattura, dalla condanna al carcere alla liberazione. Il libro è inedito in Italia ed è stato solo in parte tradotto in italiano, forse dall’autore stesso. Nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria è conservata la traduzione molto parziale di quest’opera, recuperata e presa attentamente in esame nella tesi di laurea su Antonio Nicolò di Cristina Bonvenga[2]. La versione comprende soltanto la sezione iniziale e quella conclusiva, mentre risulta assente la parte centrale, la più ampia, relativa agli anni passati nelle galere borboniche. Non sappiamo se la traduzione integrale sia andata perduta o se l’autore abbia tradotto solo queste parti. Ma esaminiamolo ora più da vicino.

Pubblicato in Letteratura | Contrassegnato | Lascia un commento

A proposito di vecchiaia

di Paolo Vincenti


Alberto Grassi, La gioventù e la vecchiaia, tecnica mista su cartoncino,
40×35 cm.

“Compa’, la vecchiaia è una brutta bestia”, ripeteva sempre mio nonno Uccio e si era in tempi in cui i vecchi erano ancora vecchi. Gli anziani cioè dimostravano anche nel fisico il peso dei loro anni ed erano considerati depositari di quella antica saggezza che, salvo rari casi, veniva da tutti loro riconosciuta. Erano dei punti di riferimento per le piccole comunità in cui noi siamo cresciuti. Per un diffuso senso di rispetto verso chi è più adulto e maturo l’età avanzata è sempre stata sinonimo di autorevolezza ed agli anziani, di più in passato, ci si rivolgeva per chiedere consigli, suggerimenti, indicazioni di vita. Addirittura essi suscitavano un timor reverentialis nei più giovani. Gli è che i vecchi, quand’io ero bambino, non somigliavano ai finti giovani di oggi e la senescenza comportava delle condizioni morfologiche e funzionali in decadimento rispetto alla giovane età. Oggi, grazie ai progressi della scienza medica e ad una generalizzata condizione di benessere che ha investito l’Occidente, le funzioni psico fisiche di chi è in età avanzata perdurano ottimali e infatti, secondo le statistiche, l’età media della popolazione europea si è notevolmente innalzata. Attualmente si parla di “quarta età” per intendere quell’arco temporale che va dagli ottant’anni ai cento. Bene, benissimo? Mica tanto. Il progresso della ricerca, se da un lato ci fa vivere meglio, dall’altro comporta grandi disagi. Apprendiamo spesso di centenari del tutto in grado di intendere e volere a quella veneranda età. Ma poiché ogni medaglia ha due facce, come Giano bifronte, tutto sta nel guardare l’altra faccia della stessa.

Pubblicato in Prosa | Contrassegnato | Lascia un commento

Antonio Stanca, Universum A-34


14-02-2004, olio su MDF, cm 80,2 X 80,2.
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi | Contrassegnato | Lascia un commento

Quei cantautori che raccontano le stagioni della nostra vita

di Antonio Errico

Calava un’afa che ristagnava l’aria, una sera del mese di giugno del Duemilauno.  Francesco Guccini si era avventurato in Salento, da Pàvana a Serrano, per ritirare il premio “L’olio della poesia”. Si andava per i vicoli di Otranto, e lui raccontava di quando scese a Lecce nel Sessantadue per fare il militare, che era anche estate allora, e faceva un caldo d’inferno anche allora, e intercalava il racconto con la frase c’è troppa pianura qui, c’è troppa pianura. Allora gli citai questi versi di Bodini: “Sulle pianure del Sud non passa un sogno./ Sostantivi e le capre senza musica,/con un segno di croce sulla schiena,/o un cerchio,/quivi accampati aspettano un’altra vita”.

Lui ripeté per due volte: sostantivi e le capre senza musica. Quel verso gli piaceva.

Quelli che erano con lui, quella sera, le sue canzoni le conoscevano a memoria. 

Poi passarono gli anni: undici; e   uscì “L’ultima Thule”. Guccini disse che avrebbe smesso di scrivere canzoni, che prima non c’era giorno che non prendesse la chitarra ma che oramai non la toccava quasi più. Allora uno pensa che forse non era soltanto una canzonetta quella che diceva “Ogni cosa alla lunga mi molesta/ e cerco un’altra festa/ e poi le feste in fondo mi han stancato”.

Pubblicato in Musica, Prosa | Contrassegnato | Lascia un commento

Taccuino di traduzioni 10. Pierre-Albert Jourdan: Scavando

di Antonio Devicienti

Il silenzio è la nostra camera da sempre
non è possibile raggiungere le solitudini
se non attraverso molti strappi
ed è senza dubbio il senso ultimo
della penetrazione lenta della terra nei nostri corpi.

*

Abito il silenzio da sempre –
ma non si può raggiungere la solitudine
se non dopo numerosi strappi:
ed è senz’altro questo il senso finale
del penetrare lento della terra nel corpo.

EN CREUSANT

Le silence est notre chambre depuis toujours
les solitudes ne peuvent s’atteindre
qu’à travers de multiples déchirures
et c’est sans doute le sens ultime
de la lente pénétration de la terre dans nos corps.

In Le bonjour et l’adieu (Mercure de France, 1991)

VERSIONI

Propongo due mie versioni del medesimo testo di Pierre-Albert Jourdan (Parigi 1924 – Caromb in Valchiusa 1981); la prima si potrebbe dire più “fedele” al testo originale, mentre mi piacerebbe definire la seconda una “traduzione-interpretazione” che, tra l’altro, s’innesta perfettamente su di una linea di ricerca che seguo da qualche tempo e che è l’idea dell’abitare la lingua (e il mondo) da una parte, il silenzio dall’altra. In questa seconda proposta mi sono concesso la felice libertà di reinterpretare i versi del poeta, di provare a immaginare che cosa lui stesso avrebbe forse scritto se avesse voluto ripensare il testo (mi scuso per una tale temerità e arroganza) – e, nel medesimo tempo, ho cercato di rileggere il testo esplicitando quelli che mi sembravano i sensi velati dei versi.

Pubblicato in Traduzioni di Antonio Devicienti | Contrassegnato | Lascia un commento

Triangolo

di Antonio Prete

Il tempo  sta nella nostra mente – si percepisce in essa –  come disposto in tre cerchi. In uno c’è tutto quello che il ricordo salva dal naufragio: volti,  profili di città, paesaggi. Nell’altro sta, velato, quel che l’oblio ha rinserrato nelle sue segrete. Nell’altro ancora si affollano voci e figure del momento :

respiro di presenze,

bussola e vento alla tua incerta vela.

.

Sopra, in suprema lontananza, un grande

triangolo splende, con Deneb, azzurra

coda del Cigno, Altair e Vega,

                                                     vertici

dell’ oltretempo, stille di mancanza

nella tua intima, deserta stanza.

Pubblicato in Poesia, Tutto è sempre ora di Antonio Prete | Contrassegnato | Lascia un commento

L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo XI. Memoria, allegoria ed escatologia nel canto II del “Purgatorio”

di Gianluca Virgilio

Canto dell’amicizia – è stato detto -, il II del Purgatorio, di quell'”amicizia nata dall’arte”[1], dalla comunione di esperienze culturali e spirituali, dalla vita o da un brano di vita comune, in cui i sodali pensarono e sentirono allo stesso modo, finché, consumate quelle esperienze, le strade non si divisero, impedendo che le affinità si consolidassero in costume, così forse inaridendo. Ed ora, trascorsi gli anni della giovinezza, quei casi e quegli eventi Dante li rivive come pervasi da uno stato di grazia, alla luce della memoria, come “una reminiscenza remota”[2]; e guarda ad essi col distacco che consente la serenità (che non esclude la severità) del giudizio, cosicché vero è che l'”autobiografismo realistico” del canto assume un aspetto “pudico e dissimulato”, “dolce poesia della memoria, nel preciso, realistico ricordo di giorni cari e lontani”[3].

Il canto II del Purgatorio è anche un canto pervaso da nostalgia, ed ha la sua premessa drammatica nel recupero memoriale cui l’arrivo di Casella sulla spiaggia dell’antipurgatorio induce Dante, riportandogli alla mente il suo, il loro mondo poetico giovanile e offrendo al lettore un privilegiato punto d’osservazione per comprendere il significato del passaggio dalla poesia tardo-stilnovistica che si copre d’un manto allegorico (all’altezza del Convivio) alla poesia sacra della Divina commedia, a cui ha posto mano e cielo e terra.

Pubblicato in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio | Contrassegnato | Lascia un commento

Gaetano Minafra, Arte sacra 14. Madonna con bambino

Tela, stucco e colori acrilici, cm. 50 X 60, 2001.
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi | Contrassegnato | Lascia un commento