Giacomo Matteotti antifascista ante litteram

di Maurizio Nocera

«Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente

Giacomo Matteotti, Discorso alla Camera dei deputati (30 maggio 1924)

Del delitto di Giacomo Matteotti (Fratta Polesine, 22 maggio 1885 – Roma, 10 giugno 1924), soprannominato “Tempesta” per il suo carattere battagliero, parlamentare del collegio di Ferrara dal 1919 al 1924.

Forse a qualche storico è sfuggito quanto il periodico di Antonio Gramsci, «l’Ordine Nuovo», scrisse a proposito dell’assassinio del segretario del Partito Socialista Unitario:  

            «La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua prima manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile [1914] Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale italiana, cioè là dove risiede la forza economica e politica che domina la nazione e lo Stato. Le elezioni del 6 aprile, avendo mostrato quanto fosse solo apparente la stabilità del regime, rincuorarono le masse, determinando l’inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all’assassinio dell’on. Matteotti e che ancora oggi caratterizza la situazione. Le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un’importanza politica enorme; l’agitazione da esse condotta nei giornali e nel parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista operava potentemente a disciogliere tutti gli organismi dello Stato controllati e dominati dal fascismo, si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito Nazional Fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui la inaudita campagna di minaccio contro le opposizioni e l’assassinio del deputato unitario. […] Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori: egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alle storie nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane più che nell’ordine dei Cromwel, dei Bolivar, dei Garibaldi. L’ondata popolare antifascista provocata dal delitto Matteotti trovò una forma politica nella secessione dall’aula parlamentare dei partiti di opposizione. L’assemblea delle opposizioni divenne di fatto un centro politico nazionale intorno al quale si organizzò la maggioranza del paese: la crisi scoppiata nel campo sentimentale e morale, acquistò così uno spiccato carattere istituzionale; uno Stato fu creato nello Stato, un governo antifascista contro il governo fascista. » (v. «l’Ordine Nuovo». Rassegna settimanale di cultura socialista, a. I, n. 5, 1 settembre 1924, prima pagina. Reprint Teti Editore, Milano, 1976).

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La versione taurisanese di alcuni “dialoghi” popolari sull’inesorabilità ed ‘equità’ della morte

di Roberto Orlando  


Jakob von Wyl (1586-1619), Danza macabra.

Molto probabilmente i componimenti popolari che presentiamo in questo studio (Dialogo tra un giovane popolano e la morte, Dialogo tra un cavaliere e la morte, Dialogo tra una vecchia e la morte, Dialogo tra la morte e il papa, Dialogo tra la morte e la regina del Portogallo e Dialogo tra una moribonda e la morte)sono rifacimenti di alcune delle numerose composizioni dotte portate in giro, nel Medioevo, dai menestrelli per le piazze, i castelli e i palazzi al fine di istruire o intrattenere il popolo e le corti. Questi componimenti fanno pensare ai frequenti dibattiti della letteratura latina medioevale, dei quali si è avuto un largo riflesso nelle liriche in volgare degli scrittori didattico-religiosi dell’Italia settentrionale, come Bonvesin da la Riva (ca 1240-ca 1315), Uguccione da Lodi († 1250 ca), Pietro da Bescapé o Barsegapè (seconda metà del sec. XIII), Gherardo Patecchio (sec. XIII), Giacomino da Verona (sec. XIII) e di altri autori della poesia didattico-moraleggiante del XIII secolo. 

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Don Tonino Bello

di Augusto Benemeglio

Un balletto di ceri

Vengono ormai da tutte le parti del mondo, in pellegrinaggio, a pregare sulla tomba di don Tonino Bello, il fratello vescovo, il più grande e luminoso uomo nato nel Salento, il santo più amato e più importante dell’ultimo scorcio del ventesimo secolo. E’ venuto anche Papa Francesco a pregare sulla sua tomba, il 20 aprile 2018, per i venticinque anni dalla sua morte. E tutta la pianura salentina si è avvitata e svitata al perno del suo affanno quotidiano, sui versanti di Alessano, la cittadina natia dell’apostolo della nuova chiesa del grembiule, del poeta dal nuovo sguardo, dello scopritore di stelle sulla terra. Era tutto il vecchio, profondo, oscuro Salento che saliva dal petto delle donne come un sospiro immenso, un afflato universale, una voce che trema, una marea che straripa, un tonfo di tibie, un balletto di ceri nell’urto dei lucchetti e dei gomiti della sera; era una fiamma votiva che non si squaglia. – “O mio buon Tonino , – mormoravano le donne più anziane,-  “che ritorni odoroso/ come le rose di maggio,/ e che m’ascolti come un tempo, /ovunque rinasca la luce del tuo sguardo/ il tuo bel viso/ e la tua voce di profeta del mondo./ Andavamo verso oriente/ a inseguire le stelle/ , a pregare tutti insieme,/sulle ossa a cielo aperto/ degli ottocento martiri di Otranto,/ o lungo le riserve di caccia degli Alimini / seguendo il volo delle rondini/ che a sera/ stralunavano nell’aria azzurra,/ prima di svanire /,o fra le lucciole vaganti/ del pensiero che illuminavano/ le siepi delle nostre contrade/, dove risorgevano canti e inni al Signore dalle ceneri./ Ora ci sono le moltitudini/ che vengono qui/ con le mappe / seguendo le tue tracce, / i tuoi passi, i sospiri/ di fanciullo povero/ calpestando le tue / stesse zolle/ ormai nascoste dal cemento,/ per giungere  fino alla tua tomba/giardino di pietra viva,/  di fiori e fuoco,/ d’ulivi e croci/ e il profumo d’incenso/ del tuo santo spirito/ nell’aria cilestrina.

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Vincenzo Congedo, Il Salento

Rame rosso, 75 x 55, 1990.
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Gli occhi dell’animale

di Antonio Prete

                                                                       a  Yves Bonnefoy

Era nell’acquadinulla la testa del cane,

ombra d’ombra, tutt’intorno sabbia che franava,

giallo d’ocra su terra brunita.

.

Il paesaggio ha cancellato se stesso.

.

Prima che il visibile sia abolito,

implacabile l’assedio del vuoto.

Tra la salvezza e il naufragio

l’istante sconfinato della perplessità.

.

Negli occhi dell’animale l’aperto

scheggiato di dolore.

Fluttuavano nel suo sguardo ombrose lontananze.

Venature fuggitive dell’enigma.

Dalle palpebre alle orecchie una linea separava

il grigionero dal grigioargento, che sfumava

verso il muso affilato di lupa.

.

L’addio, voragine di compassione.

Nel lampeggio degli occhi, per un momento,

lo strazio dei macelli.

Scoppiava intorno, malvagia, la primavera.

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 34. Dopo la tempesta

Materiali vari e colori acrilici, cm. 60 x 54, 2022.
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Ottorino Specchia filologo classico

di Pietro Giannini

L’attività scientifica di O. Specchia si addensa attorno a tre nuclei essenziali, anche cronologicamente distinti:

1. Eroda (approssimativamente dal 1952 al 1962)

2. L’Epinomis di Platone (dal 1965 al 1969)

3. Gli epigrammisti, in particolare Leonida di Taranto e Nosside di Locri (dal 1973 in poi: il commento a Nosside è stato pubblicato postumo nel 1993 in “Rudiae”, la Rivista del Dipartimento di Filologia classica dell’Università di Lecce).

Eroda, Leonida e Nosside sono rappresentanti della letteratura ellenistica e quindi hanno un comune sostrato storico-culturale. Un altro filo lega Eroda a Leonida sul terreno dei contenuti, riferibili grosso modo al mondo degli umili. Platone rimane fuori da questi ambiti, ma l’interesse per il filosofo è una prosecuzione della tesi di laurea svolta a Napoli sotto la guida di Vittorio De Falco.

Tuttavia un tratto che accomuna le tre linee di ricerca è sul piano del metodo: Specchia procede verso l’obiettivo del suo studio (sia esso una traduzione o un’edizione critica o un commento) attraverso lavori puntuali su singoli problemi controversi o attraverso studi di carattere bibliografico. È come se egli cercasse di avvicinarsi per gradi ai testi studiati, confrontando le sue opinioni con quelle degli studiosi precedenti, prima di giungere ad una propria posizione. Un indizio di serietà, di cautela e di rispetto che possiamo considerare emblematico dell’intera sua attività di studioso.

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Inchiostri 154. Michael Kenna e il Giappone

di Antonio Devicienti

Nella serie fotografica Forms of Japan (che Michael Kenna pubblica nel 2015 raccogliendovi circa trent’anni di sue frequentazioni con il paesaggio e con la cultura giapponesi) il fotografo riconosce nel paesaggio e in alcune architetture (come quella di un torii shintoista, per esempio, o di un ponte in pietra) la purezza delle linee e dei profili, gli alberi fotografati appaiono quali kanji stagliantisi tra terra e cielo (una sorta di scrittura della natura, dunque, che l’occhio umano ha l’impressione di riconoscere e sentire prossima), le immagini della successione dei profili montuosi o collinari ritmati nelle nebbie e nelle foschie restituiscono la percezione come di una prosodia dell’orografia mentre in lontananza tutto sembra svanire.

E neppure è un caso che Michael Kenna abbia scelto di stampare le fotografie in bianco e nero e su gelatina d’argento, in quanto le immagini guadagnano una distanza e una sospensione metafisica senza pari.

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Manco p’a capa 265. La scienza non è un’opinione

di Ferdinando Boero

Il 2 luglio, alle 8.30, Agorà, di RAI 3, ha parlato di clima: mai così caldo, con morti e disastri dovuti a fenomeni sempre più estremi. Alessandro Cecchi Paone riporta le evidenze della climatologia, e i servizi che accompagnano la trasmissione concordano con le sue dichiarazioni. Interviene Fabio Dragoni, de “La Verità”, e ridicolizza gli allarmi: è normale che in estate faccia caldo, comunque non siamo noi i responsabili del cambiamento (prima dice che non c’è, poi dice che non ne siamo responsabili), oggi misuriamo le temperature con grande accuratezza, i dati non sono confrontabili con quelli del passato, meno accurati. Raramente ho sentito così tante castronerie tutte assieme. È giusto che persone così abbiano spazio in televisione e che le loro opinioni possano essere opposte alle risultanze della scienza? Siamo in un paese libero, verrebbe da dire, gli spettatori dovrebbero poter distinguere. Purtroppo non è così. Gli alfabetizzati scientificamente non saranno scalfiti dalle argomentazioni di Dragoni, ma chi non sa come funziona la scienza (la maggioranza) sente “l’altra campana” e pensa: vedi? uno dice una cosa e l’altro ne dice un’altra. Non si sa più a chi credere. Scienza e antiscienza si elidono a vicenda e vince l’antiscienza: l’astensione del giudizio è una vittoria per chi si oppone a politiche di sostenibilità. Non siamo noi i responsabili del cambiamento climatico e non ci possiamo far nulla. Sono tutte follie green. La disinformazione genera sfiducia nella scienza: un’opinione vale l’altra. Non abbiamo un’alternativa alla scienza per diminuire l’ignoranza e aumentare la conoscenza. Ci sono incertezze sul confine tra conoscenza ed ignoranza, ma diminuiscono man mano che l’ignoranza viene ridotta. Mettere in dubbio i risultati della scienza usando opinioni infondate come argomenti contrari è disonesto.

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Testimonianze del passato sulla festa e la processione di S. Antonio a Padova

di Rocco Orlando

     Frate M. Patassini sul Messaggero di s. Antonio del giugno 2024 scrive: “Nel 1256 S. Antonio viene dichiarato protettore speciale della città di Padova e la sua festa comincia ad essere celebrata più solennemente. Si stabilisce che alla vigilia della festa, il 12 giugno, le confraternite e le associazioni di arti e mestieri si rechino al Santuario e depositino un’offerta di ceri e candelabri, e una settimana dopo, il 20 giugno, vadano processionalmente in chiesa il clero della città, il podestà e tutta la signoria, per partecipare alla Messa presieduta dal vescovo. Negli archivi sono presenti vari documenti che riguardano l’ordine della processione (uno del 1461) ed altri che attestano controversie su varie questioni: ad esempio, nel 1579, un atto del capitolo conventuale del Santo che chiede ai “signori Deputati della città” che la processione sia fatta dopo il vespro e non come vorrebbero alcuni Dottori canonici della città, “che per non essere preceduti da frati nella suddetta processione hanno procurato coll’Ill.mo e Rev.mo Vescovo di essa et altri, che si faccia detta processione la mattina”.

     E ancora fra’ Patassini: “La processione non sempre avviene con l’ordine dovuto: nel 1665 una nota attesta  che nella processione del Santo c’erano stati dei tumulti, durante o a causa dei quali erano cadute delle reliquie o s’erano rovinati degli argenti o dei reliquari”. Per questo nel 1673 si perviene alla decisione di non portare più in processione la reliquia della Lingua del Santo. In sua vece è presente in processione la reliquia del dito portata dal padre provinciale”.

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I resti di Babele 35. “I Quasi adatti”, perché leggerlo può cambiare la nostra vita

Un libro per l’estate

di Antonio Errico

Molti conoscono Il senso di Smilla per la neve di Peter Hoeg, quantomeno per la versione cinematografica che ne ha fatto Bille August nel 1997. Ma probabilmente non sono in tanti, o forse sono davvero pochi ( e spero di sbagliarmi), quelli che hanno letto I quasi adatti. Un capolavoro. I quasi adatti  è un romanzo sul tempo: sulle sue espressioni e sulle sue contraddizioni, come quella principale, strutturale, del tempo lineare e del tempo circolare.

Il tempo lineare – dice Hoeg- deve essere immaginato come una lama infinitamente grande che sbuccia l’universo e contemporaneamente lo trascina con sé, lasciandosi dietro una striscia di passato infinitamente larga, con davanti il futuro, mentre il presente è il filo della lama.

Per il tempo circolare, invece, il mondo rimane più o meno lo stesso. Le mutazioni intorno a noi sono, o generano, ripetizioni. Poi aggiunge: “Il tempo è anche qualcosa che contribuiamo costantemente a creare. Come un’opera d’arte”.

Noi siamo, dunque, artefici e artisti del nostro tempo. O almeno un poco ci illudiamo di poterlo essere. Forse non c’è un solo istante in cui non si pensi al tempo. Quando sembra che si stia pensando ad altro, lo si pensa in funzione del tempo. Perché, in fondo, siamo un impasto di tempo: con esso ci confrontiamo, ad esso dobbiamo dare conto di quello che facciamo o non facciamo, di quello che siamo, che non siamo, che vorremmo essere, oppure non essere.  

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L’ancien et le nouveau

di Giorgio Agamben

Pourquoi sommes-nous capables de décrire et d’analyser l’ancien en train de se dissoudre, tandis que nous ne parvenons pas à nous représenter le nouveau ? Sans doute parce que nous croyons, plus ou moins inconsciemment, que le nouveau est quelque chose qui vient – d’on ne sait où – après la fin de l’ancien. L’usage immodéré du préfixe post est révélateur de notre incapacité à penser le nouveau : post-moderne, post-humain, le nouveau étant de toute façon quelque chose qui vient après. Or, c’est précisément le contraire : le seul moyen à notre disposition pour penser le nouveau, c’est de le lire et d’en déchiffrer les aspects cachés dans les formes de l’ancien qui passe et se dissout. Hölderlin l’affirme clairement dans un extrait extraordinaire sur Le crépuscule de la patrie,  où la perception du nouveau est inséparable du souvenir de l’ancien qui le pénètre profondément et doit même en quelque sorte en assumer amoureusement la représentation. Ce qui a fait son temps et semble se dissoudre perd de son actualité, se vide de sa signification et redevient en quelque sorte possible. Walter Benjamin suggère un peu la même chose quand il écrit que, dans l’instant du souvenir, le passé qui semblait achevé nous apparaît inachevé, et nous offre ainsi un bien des plus précieux : une possibilité. N’est véritablement nouveau que le possible qui, s’il était déjà actuel et effectif, serait aussitôt caduc et vieilli. Or le possible ne vient pas du futur, il est dans le passé, ce qui n’a pas été, ce qui ne sera peut-être jamais mais qui aurait pu être et qui pour cette raison nous concerne. Nous ne percevons le nouveau que si nous parvenons à accueillir la possibilité que nous offre le passé, c’est-à-dire la seule chose que nous ayons, un instant avant de disparaître pour toujours. C’est de cette manière que nous devons nous référer à la culture occidentale qui tout autour de nous aujourd’hui se défait et se dissout.

7 avril 2025

[Traduzione di Annie Gamet di Giorgio Agamben, Il vecchio e il nuovo, in Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben, Quodlibet]

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Miseria e fame in Terra d’Otranto per la drammatica crisi agraria tra ’800 e ‘900

di Roberto Orlando



Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, 1901, olio su tela, 293×545 cm.,
Galleria d’Arte Moderna di Milano, Milano.

     Tra la fine del XIX e il primo ventennio del XX secolo l’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia fu investita da una profonda crisi a causa sia di trattati commerciali tra Governo italiano e altri Stati, sfavorevoli per le colture meridionali, come il cosiddetto “Modus vivendi con la Spagna”, sia di ripetute crisi colturali dovute soprattutto alla diffusione di malattie parassitarie e alla sovrapproduzione di vino, responsabili, insieme alle speculazioni dei produttori, della crisi annonaria e dell’aumento del prezzo del grano, delle farine e del pane.

     In Terra d’Otranto la crisi fu ancora più drammatica in quanto, oltre alla carenza di acqua, all’enorme difficoltà dei trasporti e alle frequenti epidemie di rabbia, colera, vaiolo, morbillo, malaria…, interessò le colture fondamentali dell’economia locale, ossia l’olivo e la vite. Dalla fine dell’Ottocento e fino al primo conflitto mondiale gran parte degli oliveti fu attaccata dalla mosca olearia e dalla brusca, una malattia fungina, che costrinse i proprietari a tagliare centinaia di migliaia di alberi o a ridurli a tronconi. Nello stesso periodo anche la vitivinicoltura, la coltivazione delle patate e del pomodoro conobbero un periodo di crisi estrema a causa, oltre che dei motivi su citati, anche del restringimento repentino dei crediti da parte degli Istituti di Credito locali e, soprattutto, della fillossera, una malattia parassitaria importata dalle Americhe che portò all’estinzione di numerosi vitigni autoctoni e costrinse molti proprietari terrieri ad abbandonare le campagne per lunghi periodi.

      Le conseguenze per coloro che vivevano di rendite agricole e per i lavoratori dei campi furono terribili: abbandono di moltissimi appezzamenti di terra, ridimensionamento degli affari della gran parte degli aristocratici e della borghesia agraria, impoverimento dei piccoli e medi proprietari, disoccupazione   e il dilagare della fame e della disperazione tra i braccianti e i nullatenenti, la parte numericamente più cospicua della popolazione.

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Lezione di Antonio Prete: Baudelaire. L’infinito nelle strade – Milano 12 settembre 2023

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La poesia di un “contemplattivo”: per Odio Ménière di Gerardo Trisolino

di Ettore Catalano

Le citazioni ci aiutano a circoscrivere la rotta intertestuale di Trisolino poeta, oscillante tra il fascino un po’ dandy dell’ultimo Montale,ricco anche di incursioni nel territorio prima proibito del quotidiano coniugale,l’impeto passionale e civile del Neruda che poteva trascorrere dal profumo erotico ai sapori popolari della cucina,passando attraverso il meridionalismo asciutto e polemico delle ultime raccolte poetiche di Vittore Fiore,fino al grande esempio barocco-salentino-andaluso di Vittorio Bodini, giù fino alla riflessione  sul destino della poesia di Mario Luzi e magari anche sulla migliore linea poetica del novecento poetico di origine meridionale e di respiro nazionale, come la poesia di Cristanziano Serricchio, senza l’impegno cosmico e religioso del poeta garganico, ma con maggiore ambizione di presenza politica e civile.

Nella lucida prefazione, il mio collega Antonio Lucio Giannone coglie i due poli dell’attività poetica di Dino Trisolino l’io e il mondo, la dimensione privata e quella pubblica, il ripiegamento interiore e la riflessione sul reale,ma sottolinea anche, e fa bene, il flusso continuo di immagini e di emozioni tra i due poli, sicché appare corretta l’autodefinizione che il poeta offre di sé, come un “contemplattivo”, un poeta, cioè, che non rifiuta lo sguardo riflessivo ma lo coniuga con un coinvolgimento che si definirebbe prammatico, naturalmente nei termini in  cui tale definizione può darsi quando si parla di letteratura. Daniele Giancane, a sua volta, nella postfazione, pur muovendosi nel solco delle indicazioni fornite da Giannone, sottolinea la difficoltà, per un poeta e per Trisolino in particolare, di coniugare insieme sguardo sociale e animo meditativo e perciò parla di “leggerezza”, intendendo con ciò una sorta di distacco e di saggezza, che costruiscono versi che quasi danzano con ironia nella pagina.

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L’altro regno. Imprevedibili storie di oggetti – Presicce (LE), 5 luglio 2025

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Quando Luigi Chiriatti raccontò il “morso”

di Renato De Capua

Ogni anno la ricorrenza della Festa dei Santi Pietro e Paolo a Galatina, dal 28 al 30 giugno, è l’occasione per riflettere sul Tarantismo, fenomeno intimamente legato a pagine oscure e conturbanti della storia del territorio salentino. Una delle opere fondative e caratterizzanti il canone di studi sull’argomento è Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo salentino (Kurumuny, 2025 con un inserto fotografico) di Luigi Chiriatti, figura chiave della cultura popolare, scomparso nel 2023. E a trent’anni dalla prima edizione, l’opera torna in libreria in una nuova veste editoriale. Era, infatti, il 1995 quando l’editore Lorenzo Capone di Cavallino la dà alle stampe, cedendo successivamente i diritti a Kurumuny, la casa editrice fondata dallo stesso Chiriatti e oggi portata avanti dal figlio Giovanni.
L’autore, antropologo, studioso del tarantismo e delle tradizioni popolari, dopo aver inciso nel ‘77 con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa Salentina”, fonda due gruppi di riproposta della musica folk locale: il Canzoniere di terra d’Otranto e Ararimirè; dal 2003 al 2009 e poi ancora nel 2014 è alla direzione artistica del festival “Canto di passione”. Direttore artistico del Festival “La Notte della Taranta” dal 2015 al 2022, è stato anche direttore scientifico dell’istituto “Diego Carpitella”.

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Inchiostri 153. Giacometti dietro la finestra

di Antonio Devicienti

Lo sguardo di Christer Strömholm restituisce il riflesso di un riflesso: Alberto Giacometti e la sua scultura visti attraverso i vetri della finestra, in essi riflessi – ma in primo piano ci sono i pennelli, la sgorbia, gli stracci, la scodella di colore rappreso, il davanzale, la polvere mineralizzata, si vedono anche i tocchi dello stucco che fissa i vetri tra i sottili legni verniciati dell’anta: come se l’artista e la sua opera fossero riflesso o proiezione degli strumenti di lavoro o questi ultimi guardassero l’artista e le sue opere che stanno dentro lo studio.
Salutare pedagogia ricordare l’azione decisiva degli strumenti, sinolo di pensiero creatore e di corpo che realizza affrontando le resistenze della materia (anche il testo è materia da lavorare).

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 33. Xylella

Vetro, pezzi di specchio, pietre e colori acrilici, cm. 160 x 110, 2013.
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Intervista a Raffaele Nigro

a cura di Adele Errico

Raffaele Nigro, scrittore e giornalista, è autore di numerosi romanzi, tradotti in molte lingue. Nel 1987 con il romanzo I fuochi del Basento ha vinto il Supercampiello. Ha vinto i premi Biella, Flaiano, Mondello, Maiori. È autore di saggi tra i quali Basilicata tra Umanesimo e Barocco, Narratori cristiani di un Novecento inquieto, Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri. Ha curato le edizioni critiche di Burchiello e la poesia giocosa del ’400 e ’500 e delle opere di Francesco Berni, per il Poligrafico dello Stato.

Un romanzo che ha dentro il mare, l’arte, la storia e che sfiora i temi essenziali del nostro tempo, soprattutto delle nostre terre, a sud: il caporalato nelle campagne, la disoccupazione giovanile, i migranti che sbarcano dal Mediterraneo.  Al centro Marsilio Da Ponte, pittore di grande talento ma in cerca di fortuna. Insieme ai suoi amici Beppe e Michele si appresta a un’odissea mediterranea ambientata negli anni 2000. È il nuovo romanzo di Raffaele Nigro, “Il dono dell’amore”.

Nigro, nel 1987 “I fuochi del Basento” ha vinto il Premio Campiello. Il suo ultimo romanzo è “Il dono dell’amore”. Da allora la sua scrittura è cambiata.

Sì, la mia scrittura era più nervosa negli anni ’80. Ero giovane, c’era in quella scrittura tutta la forza della mia giovinezza.  Adesso si è fatta più meditata, più tranquilla, sono venute meno le sfumature linguistiche che acquisivo dal parlato, dalla cultura orale degli anni ’70 e ’80. E se qualcosa rimane di quel mondo è limitato. La mia scrittura è cambiata anche dopo le molte letture ed è stata influenzata dalla conoscenza della vita metropolitana, Bari, Roma.

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