Baiadere in Gennaio

di Paolo Vincenti

Scennaru ssuttu se ccoje tuttu, secondo il detto popolare salentino. Ma questo gennaio, come del resto tutti gli altri mesi, è infestato da un insopportabile scirocco sicché il vento umido credo favorisca ben poco la raccolta (allora, scennaru muddhatu, furese rruvinatu). L’aria malata che si respira la mattina quando si apre la porta di casa smorza quel caldo tepore procurato dagli umori soppannati del sonno appena lasciato, sottrae davvero le energie e la voglia di fare, toglie il consiglio che, secondo il noto adagio, la notte porta, strappa l’oro in bocca che, secondo un altro adagio, il mattino ha con sè; insomma, quando si esce a ritirare il secchio della spazzatura, in quel clima malarico e umidiccio, si vorrebbe solo ritornare a letto e rimandare gli impegni lavorativi al giorno dopo. Se poi il paese è avvolto da una fitta coltre di nebbia, peggio mi sento. Quella pioggerella sottile che titilla il cranio e impregna di vapore acqueo i vestiti, gli scialli, le scarpe, rende sgradevole il pensiero di dovere attraversare la giornata, sicché, se fosse possibile, chiunque annullerebbe tosto gli impegni e gli sposatmenti in macchina, che diventano più rischiosi con la scarsa visibilità. Non tutti, però, hanno il privilegio di potere organizzare la propria giornata a seconda degli umori o degli agenti atmosferici: in genere chiunque deve seguire una tabella di marcia già fissata, una prestabilita agenda giornaliera. Ieri, mentre meditavo sugli scherzi del tempo che subiamo qui a sud, e ristavo, tutto preso da simili burbanze, nel paesaggio bircio che mi si stagliava davanti, in quel vedo-non-vedo tipico dell’ora primomattutina, quando la foschia allaga la città, mi è sembrato di scorgere una figura femminile a me famigliare procedere a grandi passi verso casa mia sulla strada principale. In realtà, man mano che si avvicinava mi diveniva più chiaro che non si trattava di un’amica o una parente, bensì di una perfetta sconosciuta. Avevo scambiato le sue fattezze per quelle di una donna a me cara. Ero stato confuso dalla caligine che rende i contorni incerti, come quando si ritorna al tramonto a casa, in macchina, e nel lusco e brusco dell’ora non si afferrano perfettamente le fattezze delle cose e le fisionomie delle persone. Si trattava di una bella donna, a giudicare dalla sua silhouette.

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Noterellando… Costume e malcostume 31. Le appassionanti Olimpiadi d’Italiano

di Antonio Mele / Melanton

Mai fare di tutta l’erba un fascio.

Si ha un bel dire (un ‘brutto’ dire, anzi!) che il mondo d’oggi è allo sbando, che troppe cose non vanno, che le nuove generazioni sono malate, disorientate, attratte più dall’edonismo, dai social network o dallo sballo, che dai ‘nobili ideali’ di un tempo.

Concetto troppo generico e ingiustamente falso nella sostanza. Dall’alba dell’umanità, tutte le generazioni più giovani sono sempre state ‘diverse’ da quelle precedenti. E non è sempre detto che il ‘nuovo’ sia peggiore del ‘vecchio’ (come, d’altronde, non lo è, semplicisticamente, neanche il contrario). È il cammino fisiologico dell’evoluzione, l’eterna disputa tra genitori e figli, o tra ‘conservatori’ e ‘progressisti’, con opinioni, ragioni e punti d’osservazione differenti, ma non per questo necessariamente inconciliabili.

La notizia che propongo in questa occasione è di quelle che rinfrancano, che aprono l’animo alla gioia, all’entusiasmo, alla speranza. Che indicano la strada virtuosa verso l’attenzione e conservazione di valori preziosi e inestinguibili. Notizie che dovrebbero essere molto più frequenti, accanto alle tante ‘cattive notizie’. Che sono sempre troppe, e talora, volutamente, solo quelle, sempre secondo i dettami di un certo giornalismo (stampato, e ancor peggio televisivo), che è spesso qualunquista, e comunque voglioso di rimestare nella melma della politica o della cronaca nera o del gossip. Perché, infine, se “Tutto va male, madama la Marchesa” l’audience s’impenna al massimo… Vuoi mettere?

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Paolo Vincenti, Gran Varietà

In libreria
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Un pittore leccese del primo Novecento seguace del Futurismo: Antonio Serrano

di Antonio Lucio Giannone

A Roma, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, è in corso la mostra “Il Tempo del Futurismo”, curata da Gabriele Simongini, che celebra l’ottantesimo anniversario dalla scomparsa del fondatore del movimento, Filippo Tommaso Marinetti, avvenuta il 2 dicembre 1944. Questa  mostra, che tante polemiche ha suscitato, ha però il merito di riportare l’attenzione, anche di un pubblico ampio, sul principale movimento d’avanguardia del Novecento. In essa sono presenti alcune opere dell’artista leccese  Mino Delle Site, uno dei più noti esponenti dell’aeropittura futurista degli anni Trenta, sul quale ho avuto occasione di intervenire varie volte, anche su questo sito. Non è presente invece un altro pittore leccese, Antonio Serrano, che fu influenzato dalle idee futuriste già nel primo Novecento ma che è ancora oggi tutto da scoprire. Ne diedi notizia in un articolo apparso nel 1986 sulla rivista  “L’immaginazione” (n. 25-27, gennaio-marzo) dal titolo  Futurismo “sommerso”, pp. 9, 16, dove pubblicai anche alcuni brani tratti dai “Diari” e dai “Quaderni” del pittore (pp. 10, 14). Poi ne parlai in un panorama del  Futurismo in Puglia, pubblicato nel catalogo della mostra Futurismo e Meridione, (Napoli, 18 luglio-31 ottobre 1996) a cura di E. Crispolti, Napoli, Electa Napoli, 1996 e nel mio vol. L’avventura futurista. Pugliesi all’avanguardia (1909-1943),  Fasano, Schena, 2002, pp. 24-30. In occasione di un’altra importante rassegna, Gli anni del futurismo in Puglia 1909-1944, (Bari – Taranto, 20 giugno ‒ 1 novembre 1998), a cura di G. Appella (catalogo, Bari, Adda, 1998) incaricai una giovane studiosa, Mariaterasia Panagrosso, di occuparsi di Serrano, al quale infine dedicai una voce nel Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, (Firenze, Vallecchi, 2001). A questi scritti si rimanda per un approfondimento della sua opera. Ripubblico ora qui di seguito una scheda del pittore leccese scritta per il catalogo della mostra Artisti salentini dell’Otto e Novecento. La collezione del Museo Provinciale di Lecce, a cura di A. Cassiano, (R&R Editrice, 2007), pp. 215-216, con l’auspicio che qualche volenteroso ricercatore voglia ricostruire in maniera completa l’attività di Serrano anche in funzione di una eventuale mostra retrospettiva che costituirebbe un’assoluta novità.

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Inchiostri 143. La poesia del cemento (per Giuseppe Uncini)

di Antonio Devicienti

Spesso è vero che il cemento (il grigio cemento) è “brutto”, oppure “anonimo” o, anche, “alienante” – sfregio nel paesaggio, soffocante materia senz’anima, bruttante presenza nella contemporaneità urbanizzata, escludente e arrogante.

Ma Giuseppe Uncini intuisce che uno dei materiali – che per diverse (e controverse) ragioni esprime la nostra contemporaneità – proprio per questo dev’essere indagato nella sua bellezza e poesia, restituito a un senso profondo e illuminato di spazio, di costruzione, di ritmo della forma.

E l’opera di Uncini andrebbe invero meditata seguendo un duplice passo: il disegno e la sua realizzazione scultorea

………………………… è così che il pensiero-immaginazione dell’artista concepisce forme e aggregati di materiali che trovano una prima visibilità nel disegno-progetto che non esclude l’impiego di colori differenti, né le annotazioni scritte, né le diverse tecniche pittoriche (sarà ora la grafite su carta, ora l’acquerello, ora l’inchiostro, ora il carboncino); poi ecco intervenire il tondino di ferro, il legno, la corda e, ovviamente, il cemento da colare e sagomare in grandi lastre affinché l’idea-progetto diventi forma realizzata nello spazio.

Il cemento manipolato da Uncini trova così una sua inattesa nobiltà, come a inverare l’idea michelangiolesca secondo la quale l’artista dev’essere capace di vedere dentro la materia bruta la forma contenutavi per trarla alla luce.

Uncini realizza in tal modo una scultura che è, contemporaneamente, architettura, spazi in relazione dialettica con lo spazio che li contorna, spazi abitabili con lo sguardo e con l’intelletto, ma anche con le emozioni visto che il “brutto e freddo” cemento si rivela, invece, accogliente e portatore di senso.

È uno sguardo altro e non compromesso con la mentalità predatoria che domina l’economia contemporanea a condurre verso i cementi di Uncini, a svelarne le possibilità combinatorie e immaginifiche, i ritmi tra pesantezza e leggerezza, il dispiegarsi in forme geometriche che spesso sembrano volersi continuare nello spazio

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 10. Case diroccate

Pezzi di pietra leccese, colori acrilici e rete su legno, cm. 50 x 60, anno 2018.
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Carteggio Mario Marti – Gianluca Virgilio 10. Vita nuova e altro

a cura di Gianluca Virgilio


In primo piano. Mario Marti e la moglie Franca, in occasione dei festeggiamenti organizzati dall’Associazione “Galileo” di Trepuzzi per il suo 97° compleanno (17 maggio 2011).

Marti era intervenuto nel Convegno su Michele Saponaro, svoltosi a Lecce-San Cesario nei giorni 25 e 26 marzo 2010, con una relazione su Leopardi, una biografia di Saponaro del 1941. Ad esso accenno nella lettera del 3 aprile 2010 ed inoltre faccio riferimento a due articoli che avevo pubblicato ne “Il Paese nuovo” e che ora si possono leggere in questo sito. Il primo è un’intervista rilasciatami da Antonio Lucio Giannone, Michele Saponaro. Lo scrittore ritrovato, ne “Il Paese nuovo” di giovedì 1 aprile 2010. Il secondo articolo è una recensione a Carlo Albero Augieri, Leggere Raccontare Comprendersi. Narrazione come Ermeneutica, Liguori Editore, Napoli, 2009, dal titolo Per una poetica della lettura, ne “Il Paese nuovo” del 3 aprile 2010. Leggilo in questo sito: L’odissea della funzione autore ovvero per una poetica della lettura. Purtroppo, la risposta di Marti è andata perduta.

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Come nacque il Museo civico archeologico di Lecce, oggi Museo “Sigismondo Castromediano”

di Maurizio Nocera

”Premessa // Sigismondo CASTROMEDIANO di Lymburgh (20 gennaio 1811 – 26 agosto 1895). Il cognome Castromediano si riferisce al comune di Castelmezzano (Potenza). Al tempo della parlata latina era Castrum Medianuum, mentre Lymburgh si riferisce alla famiglia originaria, vissuta all’inizio del II secolo del II millennio nella Franconia (oggi Germania). Queste poche notizie le traggo dagli studi e dalle ricerche del prof. Francesco Sammati, di Castromediano (frazione di Cavallino), che, con me, ha scritto I Lymbutgh Castromediano nel gioco della storia (Grifo Edizioni, Lecce 2023; seconda edizione 2024 con aggiunte e correzioni), il quale ha ripreso l’introvabile libro di Angelo Fusco (Cronologia Nobilissime Familiae de Catromediano de Lymburgh in Regno et Illustrimenae Civitatis Neapoliab anno 1156, Lycii, MDCLX) e da questo libro ne ha tratto un più esaustivo profilo della Casata; alcuni riferimenti li ho tratti anche dalla Lettera al Dr. Daniel Bullinger, Sindaco di Schwabisch Hall (Germania), scritta da Francesco Sammati e Rosemarie Miska. La dr.sa Miska (di origine tedesca ma che da anni vive a Lecce) si è recata personalmente in Germania per consegnare al Sindaco tale lettera.

Il Museo Archeologico Provinciale, oggi Museo Archeologico “Sigismondo Castromediano”, è il più antico della Puglia. Fu fondato nel 1868 da Sigismondo Castromediano di Lymburgh (Cavallino, 20 gennaio 1811 – 26 agosto 1895). Furono in molti ad afferire libri e oggetti all’allora Deputazione Archeologica della Provincia di Terra d’Otranto – presieduta dal Duca Sigismondo Castromediano – per la messa in essere del Museo, fiore all’occhiello nell’allora Meridione d’Italia. Tra questi afferenti si distinse, per apporto di libri e oggetti, Emanuele Barba (Gallipoli, 11 agosto 1819 – 7 dicembre 1887), patriota, medico e letterato gallipolino.

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Conferenza di Rosario Coluccia, La cultura medievale nel Salento – Galatina, 6 febbraio 2025

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Luigi Latino, La linea quasi dorata

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Manco p’a capa 239. Che fare? Dobbiamo copiare i Cinesi

di Ferdinando Boero

Usai una parte dei finanziamenti alla ricerca per acquisire le attrezzature di base per allestire il mio primo laboratorio. Un buon microscopio costava come un’automobile, e un rivenditore mi disse: eh, i microscopi non si vendono quanto le auto; il mercato è ristretto, la domanda è bassa. In altri casi, però: eh, il prezzo è alto perché la domanda per questo prodotto è alta. Che fossero tanti o pochi a comprare, il prezzo era sempre alto. Le leggi dell’economia non erano mai a mio favore.
Paradossi ben più stridenti con la logica, nel corso dei decenni, si sono realizzati a livello globale. L’Italia aveva molte industrie e una classe operaia numerosa. Per limitare l’inquinamento e lo sfruttamento della manodopera furono istituite leggi per la protezione dell’ambiente e fu adottato lo statuto dei lavoratori, riducendo i margini di guadagno delle aziende. Gli imprenditori iniziarono a ridurre i costi: se vendo auto in Brasile, mi conviene costruirle lì, invece che in Italia per poi esportarle. Si azzerano i costi di trasporto. In “certi paesi” le leggi a protezione dell’ambiente e dei lavoratori erano molto permissive: conveniva produrre laggiù, inquinando e sfruttando, e poi portare le merci qui, alla faccia del Made in Italy certificato dal marchio. Il processo fu chiamato delocalizzazione. Le industrie iniziarono a chiudere gli impianti, licenziando i lavoratori, ed aprirono in Cina, India, Vietnam, Corea del sud, nell’Europa dell’est e in nord Africa. Le meganavi portacontainer ci portano i beni prodotti altrove: il mercato diventa globale. Il fenomeno iniziò in USA e Giovanni Arrighi disse che la classe operaia USA era in Cina. Dopo poco, anche la nostra.

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“Mi sono spremuto/fino all’ultima stilla/per crescermi Uomo”

di Adele Errico

“Appena dodicenne, io/e tu andavi via:/ma lasciasti/per me/bianchi e neri cavalli/dal muso bagnato”. Null’altro era rimasto al dodicenne Angelo Lippo del nonno, se non quei bianchi e neri cavalli dal muso bagnato. Così pensava il bambino di allora scoprendo, poi, che in quell’assenza, in quell’andare via, si generava il sentire poetico che lo avrebbe accompagnato negli anni a venire e che del nonno gli sarebbero rimasti non solo i cavalli, ma tutta l’essenza di quella che sarebbe stata la sua opera. Suo nonno era carrettiere, era uomo del Sud che Angelo Lippo ha raccontato ma che ha anche rifiutato, al quale ha rivolto un “odi et amo” che abita i suoi versi, un Sud che è phàrmakon come medicina e come veleno. L’antologia poetica Le radici nel cielo (Bertoni 2021), voluta dalle figlie Antonella e Pamela e dalla moglie Angela, raccoglie testi scritti da 1963 al 2011 esi presenta, già nel titolo, come rovesciamento: in un mondo in cui le radici affondano nel cielo e non nella terra, dove dovrebbero stare, tutto è possibile, ogni narrazione, ogni contraddizione, ogni amore. Angelo Lippo racconta la sua terra, Taranto, e le persone che la vivono, la abitano, la coltivano. Racconta Taranto come luogo da cui fuggire, da respingere. Racconta l’urgenza dell’allontanamento. E poi, l’urgenza del ritorno. Come scrive Dante Maffia: “E’ evidente che il Lippo di un tempo vive soltanto nel fondo e che le strade di Taranto, il golfo, i ponti, i vecchi vicoli, le piazze, i palazzi, gli altiforni del siderurgico sono finalmente riconosciute come le vene che lo attraversano. Taranto è il sangue che lo tiene in vita, è tutto ciò che ha vissuto, forse il futuro”. In Taranto Lippo vive la lacerazione tra il richiamo della modernità della città e il ritorno ai valori ancestrali della campagna, lo scollamento tra la ricerca del passato e la tensione verso il futuro.

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Mario Marti a 10 anni dalla scomparsa. Testimonianze – Lecce, 4 febbraio 2025

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La tomba monumentale di Caterina De Franceschi (?- 1405) nella Basilica del Santo a Padova

di Rocco Orlando

Lastra tombale di Caterina De Franceschi.

     Caterina era figlia di Antonio De Franceschi della Foresta dei Signori di Staggia e di Cina Cinighi di Siena. Intorno al 1369 sposò Bonifacio de’ Lupi, marchese di Soragna, dopo il decesso (1341) della moglie, la cugina Filippina di Ubertino, marchese di Soragna, che aveva sposato nel 1340.

     Caterina fu dama assai colta e raffinata; i suoi costanti contatti con Firenze e Siena le offrirono l’occasione di frequentare numerosi artisti per cui non è improbabile che proprio a lei debba attribuirsi l’ispirazione per le decorazioni pittoriche della cappella di s. Giacomo voluta da Bonifacio (Cristina. Guarnieri).

     Bonifacio dei Lupi di Soragna (1318-1391), sconfitto dai Visconti che occuparono Parma, insieme a molti suoi congiunti decise di stabilirsi tra Padova e Firenze. Nella città veneta vantava stretti legami familiari che gli permisero di inserirsi facilmente nella ristretta cerchia di famiglie che ruotava intorno a Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova. La madre di Bonifacio, Legarda, era infatti sorella del celebre condottiero Pietro de Rossi che conquistò Padova nel 1337, già caduta sotto il dominio degli Scaligeri, e figlia del miles Guglielmo de Rossi e di Donella di Pietro da Carrara, sorella di Marsilio II, signore di Padova.  Quest’ultimo aveva sposato Bartolomea Scrovegni, figlia di Manfredo, fratello del più celebre Enrico. Quindi un intreccio di parentele con i da Carrara e con gli Scrovegni, che gli permisero di ambientarsi agevolmente nella città di adozione.

     Intrapresa la carriera di condottiero, nel 1356 era al servizio dei Da Carrara di Padova. Nel 1359 Francesco il Vecchio da Carrara lo inviò al servizio di Firenze: in quest’ultima città si radicò per motivi patrimoniali, familiari e affettivi; infatti, nel 1359 ricoprì la carica di Podestà di Firenze.  E alla città toscana rimase legato tanto che il 25 gennaio 1369 gli fu riconosciuta la cittadinanza fiorentina con particolari privilegi fiscali; il legame con Firenze divenne ancora più forte grazie al secondo matrimonio con Caterina De Franceschi.

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Giovanna Romano e la poesia

di Paolo Vincenti

Giovanna Antonietta Romano nasce a Nardò nel 1928. Laureata in Matematica e Fisica all’Università di Bari, insegna per tutta la vita nelle scuole primarie. Madre e nonna, unisce all’impegno professionale la passione per la scrittura che la porta a pubblicare pregevoli raccolte poetiche che ricevono il plauso e l’unanime consenso dei propri cari e soprattutto degli amici letterati come Pantaleo Ingusci che scrive la prefazione della sua prima opera di poesie, Come nebbia, pubblicata nel 1985. Con le sue poesie, la maestra Romano partecipa a numerosi concorsi letterari riportandone premi e riconoscimenti che ella orgogliosamente riporta nelle bandelle di copertina dei suoi libri, nello spazio riservato alla scheda bio-bibliografica dell’autore. In realtà, quella dell’illustre giurista neretino Pantaleo Ingusci non era una prefazione vera e propria bensì una conferenza di presentazione della poetessa tenuta nel lontano 1971 e che poi viene riportata nel libro Come nebbia. Questo per dire che l’ispirazione poetica della Romano inizia molto tempo prima di giungere ad un approdo editoriale, con la sua liminare silloge del 1985; ella cioè pare fin dagli anni giovanili cara alle Muse ed il primo libro, per quanto non scevro da qualche ingenuità, propria di ogni esordio letterario, ne è una parziale conferma. Ad uno stadio più maturo, giunge col secondo libro, Cielo intimo, 1992, recante una dotta prefazione di Benedetto Vetere.

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Carteggio Mario Marti – Gianluca Virgilio 9. Sul Novecento letterario salentino

a cura di Gianluca Virgilio



Mario Marti in piedi, alla sua destra Antonio Lucio Giannone. Particolare di una foto scattata durante la manifestazione dedicata a Marti in occasione dei 95 anni, svoltasi nel Circolo “Galileo” di Trepuzzi il 16 maggio 2009.

Il 18 novembre 2009 recensii sulle pagine de “Il Paese nuovo” il libro di Antonio Lucio Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici e artisti del Novecento e oltre, Congedo Editore, Galatina 2009. L’articolo apparve col titolo Oh Novecento! (allego PDF), ma il lettore potrà leggere l’articolo anche in questo sito cliccando sul titolo La linea novecentesca salentina della letteratura e dell’arte). Naturalmente, pensai bene di inviarlo a Marti per sollecitarne il giudizio e per avviare il dibattito. Ecco come mi rispose:

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L’exilé et le citoyen

di Giorgio Agamben

Il convient de réfléchir à un phénomène qui nous est à la fois familier et étranger, mais qui, comme souvent dans ces circonstances, peut nous fournir des indications utiles pour notre vie avec autrui : l’exil. Les historiens du droit continuent de se demander s’il faut considérer l’exil – tel qu’il se présente à l’origine en Grèce et à Rome – comme un droit ou comme une situation pénale. Dans la mesure où dans le monde classique il apparaît comme la possibilité accordée à un citoyen de se soustraire à une peine (en général la peine capitale) par la fuite, l’exil ne semble pas pouvoir se réduire aux deux grandes catégories qui divisent la sphère du droit du point de vue des situations subjectives : les droits et les peines. Ainsi Cicéron, qui a connu l’exil, peut-il écrire : «  Exilium non supplicium est, sed perfugium portumque supplicii », « l’exil n’est pas une peine, mais un refuge et une porte de sortie vis-à-vis de la peine ». Même quand, le temps passant, l’État s’en saisit et le définit comme une peine (à Rome cela se fait par la loi Tullia de 63 avant J.C.), l’exil reste de fait une porte de sortie pour le citoyen. De même, lorsque les Florentins entament contre Dante une procédure de bannissement, celui-ci ne se rend pas à l’audience, mais devançant ses juges, il commence sa longue vie d’exilé, et refuse de revenir dans sa ville même quand la possibilité lui en est offerte.

Dans cette perspective, il est significatif que l’exil n’implique pas la perte de la citoyenneté : l’exilé s’exclut de fait de la communauté à laquelle il continue pourtant d’appartenir formellement. L’exil n’est pas un droit, ni une peine, mais une échappatoire et un refuge. Si l’on voulait configurer l’exil comme un droit, ce qu’en réalité il n’est pas, il faudrait le définir comme un droit paradoxal de se mettre hors du droit. Dans cette perspective, l’exilé entre dans une zone d’indifférenciation  par rapport au souverain, car ce dernier, qui a le pouvoir de suspendre la loi en décrétant l’état d’exception, se situe comme l’exilé à la fois dans et hors du règlement. Précisément parce qu’il se présente comme la faculté pour le citoyen de se mettre en dehors de sa communauté, et de ce fait se trouve sur une sorte de seuil par rapport au règlement juridique, l’exil aujourd’hui ne peut manquer de nous intéresser de manière particulière.

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 9. Vecchietta seduta in poltrona

Colori e tempera e pastelli ad olio su tela. Tagli in diverse parti, poi bruciate, cm. 70 x 100, 1997.
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Michele Gambino, La vita come un taccuino

di Adele Errico

Un pezzo alla volta (Manni, 2024) di Michele Gambino mi ha fatto pensare a un testo che di solito si legge a scuola, di solito in terza superiore, ed è una lettera che Petrarca scrive ad un suo amico, monaco agostiniano, in cui racconta dell’”ascensione al Monte Ventoso”. In quella lettera, nelle parole di quel giovane Petrarca alla ricerca di qualcosa che è convinto troverà in cima al monte – in quella sofferenza del fisico e dell’animo, in quella eterna sospensione nel dubbio, nella foschia del monte, nel non dare ascolto alle parole del vecchio pastore che, prima della partenza, gli dice che in cima non avrebbe trovato nulla – c’è qualcosa che ho ritrovato nell’ultimo libro di Gambino. Una fame. Quella di chi desidera, vuole. Si tende e si incrina, cade e si rialza e ancora inciampa e risorge. Gambino ripercorre in questo libro una carriera giornalistica intensa scegliendo la forma del “memoir” per dare ordine e struttura alla passione che ha guidato ogni moto della sua esistenza. Reporter militante fin dalla sera in cui dice ai suoi genitori che avrebbe lasciato l’università per fare il giornalista, Gambino fa quel giornalismo che rovina le suole delle scarpe. Perché non è solo giornalismo di scrittura ma di corse, di notti, di aerei, di cose che a vederle non ci si abitua mai. Come i morti ammazzati. Quelli che fa la mafia. Comincia a lavorare con Giuseppe Fava nel 1980 ed è con lui che comincia per Gambino “l’educazione di cronista”: “Nei bagni pubblici di Amsterdam i gabinetti hanno una mosca nera disegnata sul fondo della tazza. Gli uomini in­dirizzano il getto sulla mosca e i gabinetti restano puliti. Ho letto che funziona a meraviglia. Tutti noi avremmo bisogno, al momento giusto, di una mosca in fondo alla tazza, che ci indichi un obiettivo (…) Quel che conta è avere la propria mosca nel water. Per me Giuseppe Fava è stato quella cosa lì”.

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I resti di Babele 17. Vittore Fiore l’interprete del Sud e dell’Europa

di Antonio Errico

Il 21 febbraio del Novantanove, a Capurso, moriva Vittore Fiore: pochi giorni dopo il riconoscimento da parte del Consiglio dei Ministri, del vitalizio previsto dalla legge Bacchelli, attribuito a personalità che onorano la patria in diversi settori.  L’ultima volta che lo vidi fu in un albergo di Bari in occasione di un convegno. Parlammo a lungo seduti al divano della hall. Prima di andare via mi disse: salutami il cielo del Salento.  Lo avevo incontrato per la prima volta, una sera che forse era di un agosto che gli anni Ottanta volgevano al finire. Su un terrazzo di Castro, Vittore Fiore guardava l’infinito del mare e raccontava con una voce che era come quella con la quale si raccontano le fiabe.  Invece il suo racconto aveva la concretezza pietrosa della Storia. Anzi, per me lui era la rappresentazione fisica della Storia: vissuta sofferta amata. Anche la sua poesia era storia: dalla storia aveva inizio, con la storia si concludeva. Anche la sua poesia d’amore. Perché per Vittore Fiore non c’era -non ci poteva essere – una storia che non manifestasse o che comunque non custodisse segretamente un bisogno d’amore, una tensione verso l’amore, una speranza. La poesia era il suo modo di osservare, e giudicare, i fatti con la ragione del sentimento. La poesia è stato il metodo che ha connotato la sua vicenda esistenziale, politica, culturale (tre termini che Vittore impastò in passione sola), il pensiero del  meridionalista capace di annodare, con i fili del presente, passato e futuro, Sud ed Europa. Un pensiero svincolato da qualsiasi schema; un’esistenza dedicata interamente al culto della libertà; una capacità straordinaria di cominciare sempre qualcosa di nuovo, di rimettere tutto in discussione, senza risparmiarsi mai, senza mai lasciare spazio alla disillusione.  Su una terrazza di Castro, mentre la sera scivolava afosa e leggera, Vittore Fiore raccontava storie di lotte, di confino, di meridione, di civiltà, di un paese al Sud del Sud, e di una piccola casa sulla ferrovia, e di quel paese bianco, immobile, immutabile, chiuso in se stesso come se fosse vuoto, immerso in un’aria rarefatta, distillata, e di quel senso di solitudine che prende alla gola. Ritrovai quelle storie di confino anni dopo, in un libro intitolato “Nicola a Copertino”, con uno scritto di Rina Durante e una nota di Massimo Melillo. Quando Vittore Fiore morì, molti si dissero: la Puglia oggi è triste, ripetendo quel verso del “Male è dentro di noi”, che aveva dedicato a Tommaso: suo padre. Della Puglia, Vittore Fiore aveva scritto tutto: le radici, i miti, gli affanni, le utopie, i sogni, le prospettive, le forze e le debolezze, le rabbie, i sentimenti, le ragioni. Aveva scritto della Puglia proiettata in Europa, degli uomini che si sentono sicuri all’ombra di sontuosi campanili, degli amori che si accendono e si spengono nell’intrico dei vicoli assediati dall’afa delle sere. Della Puglia aveva scritto anche gli addii, Vittore Fiore. Su una terrazza di Castro, dove si tagliavano a fette le parole contro i seni azzurri delle grotte, Vittore Fiore raccontava della vita che fu. Al largo brulicavano lampare.

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