Le
sei lettere di Vilfredo Pareto, che qui si pubblicano, sono tratte dal carteggio
di Michele Saponaro (San
Cesario
di Lecce, 1885 – Milano, 1959), che, insieme con altro prezioso materiale
(stesure manoscritte e dattilografate di alcuni romanzi e racconti, recensioni,
articoli), fa parte dell’Archivio Saponaro, conservato attualmente presso il
Dipartimento di Filologia, Linguistica e Letteratura dell’Università del
Salento. Esse risalgono agli anni 1918-1920, durante i quali Pareto entrò in
rapporto epistolare con lo scrittore salentino che allora viveva a Milano, dove
era stato nominato redattore della «Rivista d’Italia».
Fondata
nel 1898 a
Roma da Domenico Gnoli, che la diresse per due anni, questa rivista aveva attraversato varie fasi:
dal gennaio 1900 al gennaio 1902 era stata diretta da Giuseppe Chiarini, e dal febbraio 1902 fino al 1917 da Augusto
Jaccarino, per un anno ancora con Chiarini e poi da solo. Il 1918 la
proprietà passò a Gian Luca Zanetti, un avvocato bresciano che diventa anche il
direttore della rivista insieme ad Adolfo Omodeo e ne trasferisce la redazione
nel capoluogo lombardo[1].
Alla vigilia di Natale del 1917, Zanetti offrì a Saponaro l’incarico di
redattore del periodico che aveva acquistato con l’intenzione di rilanciarlo.
Questi, come racconta in un articolo rievocativo scritto a distanza di
quarant’anni[2],
accettò mettendosi subito al lavoro e il mese successivo, alla fine di gennaio
del 1918, uscì già il primo fascicolo della rinnovata «Rivista d’Italia».
Dopo
l’esordio come novelliere, lo scrittore si era fatto conoscere in campo
nazionale con un romanzo, La vigilia,
pubblicato nel 1914, che era stato accolto molto favorevolmente dalla critica e
dal pubblico. Nel 1911 aveva vinto un concorso nelle biblioteche pubbliche, che
l’aveva portato prima a Catania e poi a Torino e dal 1914 a Milano, dove per un certo periodo aveva
lavorato presso la
Biblioteca di Brera. Qui però aveva rinunziato a
quell’incarico per dedicarsi interamente all’attività letteraria e alle
collaborazioni giornalistiche[3].
La proposta degli studiosi: «Apriamo agli spettacoli i nostri spazi archeologici»
di Renato De Capua
Si ripercorre la prima
conferenza di giovedì 5 maggio 2025 nel ciclo di incontri, coordinati
dall’accademico dei Lincei Francesco D’Andria, per conoscere da vicino
l’anfiteatro di Lecce.
Relatori: Francesca Romana
Paolillo, Gianluca Tagliamonte, Carla Amici
Gianluca Tagliamonte
«Lecce con i suoi quattro edifici da spettacolo di
età romana – dichiara Gianluca Tagliamonte (direttore della Scuola di
specializzazione in Archeologia di UniSalento) – è un osservatorio
privilegiato. Il discorso sulla valorizzazione dell’anfiteatro sta diventando
la chiave di volta per una rilettura complessiva della città e una possibile
rifunzionalizzazione turistica dei suoi spazi». Sono stati due i nodi fondamentali all’interno del
quinto incontro tenutosi giovedì scorso e rientrante nel ciclo di conferenze – coordinato
dall’accademico dei Lincei Francesco D’Andria – per conoscere da vicino
l’anfiteatro romano. La conferenza è stata scandita da due momenti distinti: l’eventuale
rifunzionalizzazione dell’edificio da spettacolo antico con gli interventi
dello stesso Tagliamonte, poi di Francesca Romana Paolillo (soprintendente di
Taranto della Soprintendenza nazionale per il patrimonio culturale subacqueo), Rino
D’Andria (archeologo) e Luca Bandirali (critico cinematografico e docente di
UniSalento); infine, un focus sugli aspetti costruttivi del monumento a cura di
Carla Maria Amici già docente di Rilievo ed Analisi tecnica dei Monumenti
Antichi di UniSalento.
Don Matteo Pacilli era nato a Sannicandro Garganico, diocesi di Lucera,
il 19 gennaio 1874; sacerdote prima scomparso e poi rintracciato a Roma “dove
faceva lo scapolone” (1). Ebbe la nomina a parroco di Montesano Salentino
il 14 novembre 1935. Il 7 luglio 1937 emigrò a Supersano, probabilmente come
aiuto a don Francesco Cazzato (nato a Presicce nel 1882 e morto a Supersano nel
1942).
Negli anni 1939, 1940, 1941, 1942,
1943 era padre spirituale della Confraternita di San Giuseppe e Maria SS della
Strada di Taurisano. Nel 1944 gli succedette come padre spirituale Don Leone
Trono, mentre lui rientrò a Sannicandro
Garganico dove morì il 31 gennaio 1947.
Dagli archivi della confraternita taurisanese risulta che Don Pacilli,
anni 1942-1943, voleva sostituire l’attuale altare della chiesa della Madonna
della Strada con uno nuovo, e questo si
evince dal carteggio tra il padre spirituale e la ditta Gabriele Palmieri che
si occupava di lavori in travertino e granito, sculture e decorazione, la qualeche
aveva la sede nella prima traversa di Corso Umberto 1, N.11, a Pozzuoli.
“Che cosa viene di fatto realizzato con l’opus alchemico? Secondo le mie fantasie psicologiche, viene realizzata l’oggettivazione della libido: la nostra vita non è nostra. La meta alchemica è la realizzazione nel senso più completo della “libido oggettuale” di Freud: la libido intesa come dinamismo erotico cosmico che permea il mondo perché ama il mondo della materia, benché sia stata irretita nei personali deliri della soggettività, sicché crediamo di essere noi ad amare il mondo o di poter imparare, migliorandoci, ad amare il mondo. Mentre invece è la libido oggettuale ad amare il mondo attraverso di noi e nostro malgrado. L’anima è incatenata nella materia del “me”, dove la imprigioniamo ogni volta che ci domandiamo, da psicologi: che cosa non va in me? La risposta dell’alchimia è: tu, io, tutti, il mondo, siamo materia, materiale elementare, e indulgiamo alle cose materiali, come l’artifex con i materiali nel laboratorio, convinti tutto il tempo di stare lavorando su di noi, sulla nostra vita, le nostre relazioni, i nostri processi. Finché sorge il giorno, l’aurora. E allora ci svegliamo dentro l’idea della meta, e la meta non è qualcosa da realizzare in un altrove, ma siamo noi dentro l’idea. Ma poiché la mente è tuttora intrappolata nella meità, proclamiamo spudoratamente che l’idea è in me, quando è vero il contrario. Ora, aperti gli occhi, riconosciamo di essere già nel lapis, mineralizzati, la mente come un sasso, dementi.”
James Hillman, Psicologia alchemica, Adelphi, Milano 2013, p. 280.
Durante la Climate Week, a Venezia, assisto alla presentazione di un libro di un famoso fotografo, totalmente d’accordo con gli ambientalisti e anche lui ambientalista, che però rimprovera la scarsa capacità di convincimento di chi ha a cuore l’ambiente. Cita l’esempio degli scienziati che negano le nostre responsabilità per il cambiamento climatico, e ne nomina alcuni. E poi cita predizioni catastrofiche. Concorda che si stiano verificando, ma la “gente” non si può convincere con la paura, vanno usate altre strade, anche se non dice quali. Concordo con lui: la strategia è fallita. Non c’è stata possibilità di commentare le sue affermazioni, anche se mi fremeva la laringe dalla voglia di farlo. Cosa gli avrei detto?
6. Ricapitolando, dunque, l’intreccio e lo
sviluppo delle forze tematiche del Tieste, siamo indotti a considerare la
stretta interdipendenza realizzata da Foscolo tra il rilievo concesso al tema
del terrore ed il suo incapsulamento all’interno di una tensione di natura
politica che utilizzava il mezzo come scopo, scontando l’arbitraria e gratuita
esibizione di mostruosità e di atrocità (derivate da un Seneca riletto alla
maniera di un Trissino o di un Giraldi Cinzio) e puntando piuttosto ad additare
la necessità del terrore per una gestione tirannica ed autoritaria del Potere.
L’odio per la corruzione e per l’ipocrisia di
una società che ormai si avvicinava al suo definitivo tracollo (quale era la
Venezia degli ultimi anni del Settecento) si rovesciava, nel Foscolo tragico di
quegli anni, in una sorta di assunzione emblematica del sangue come simbolo e
metafora di un complessivo modo di essere e porsi della storia, con tutte le
forzature e gli estremismi inevitabili ed evidenti, ma anche con la lucidità di
una convinzione “politica” che non poteva più considerare il pubblico come
semplice e passivo oggetto di una pseudoaristotelica catarsi e già, sotto la
suggestione dell’esempio rivoluzionario francese, iniziava ad intenderlo come
una costante in movimento, da scuotere, adoperando le potenzialità del teatro
come luogo di una “comunicazione di massa, a fini politici, a guisa di
elettrica scintilla”, per adoperare la formula che Melchiorre Gioia avrebbe
usata in un celebre testo del 1798 per definire la funzione
organizzativo-pedagogica dei teatri nazionali.
Per memoria. Luigi (Gigi) Scorrano. Quando si è trovato a dare di sé una definizione, si è definito così: un semplice lettore. Ma lui è stato un lettore del tipo che intendeva Gianfranco Contini, uno che “ausculta” il testo per sentirne il battito interiore, il respiro profondo. Era uno che scavava il testo per disvelarne la radice. Non formulava un giudizio, non avanzava un’ipotesi, non forniva una chiave d’interpretazione se prima non ne aveva confrontato il peso e la sostanza con un’intera biblioteca, senza averlo prima analizzato e confrontato con i pilastri e le pareti di volumi su cui si reggeva la sua casa. Nell’esercizio della sua critica, Scorrano ha sempre adottato il metodo più antico: l’unico metodo che non può fallire, quello che garantisce una riuscita sicura, che protegge dall’avvicendarsi delle teorie, dei modelli, delle mode: leggere e rileggere uno stesso libro, uno stesso passo, una frase, un verso, una parola, fino a quando non si rintraccia il senso che nella trama dei segni aderisce, combacia, si impasta ad altri sensi. Gigi sapeva bene che lo sguardo del critico, se vuole essere acuto, non può abbracciare l’intero schermo del testo. Deve necessariamente mettere a fuoco un punto, scomporre in particolari, studiare la tessera, staccandosene ogni tanto per osservare l’insieme del mosaico e verificare la coerenza del lavoro. Perché, si sa, la tessera ha ragione e funzione in rapporto al co- testo del mosaico e il mosaico esiste in quanto una serie di tessere contribuiscono a comporlo.
Claude Monet a Giverny dipinge le
ninfee sull’acqua facendone scrittura dello svanire e dell’impermanenza: a chi
osservi quei dipinti si dà a vedere il paradosso dell’atto pittorico che ha fermato
in forma d’immagine quello che incessante si muove (l’acqua) e quello che per
breve stagione si schiude (il fiore della ninfea), così che quello che sembra
fissato dal pennello è contemplante memoria del divenire e dello svanire,
dell’impermanente e dell’illusorio.
Da sin.: Paolo Protopapa, Franco Melissano, Antonio Romano e Anna Stomeo.
Si è svolto a Martano,
il 3 giugno 2025, un incontro molto partecipato sulla poesia dialettale
salentina.
A un mio modesto intervento sulle composizioni
di Franco Melissano, autore di una recente silloge, apparsa in Note di Storia e Cultura Salentina XXXIV
2024, 31-50, dal titolo, appunto, Dialettisciandu, gli organizzatori della serata, gli amici
Anna Stomeo e Paolo Protopapa e i loro ospiti (presso Tò kalòn – Ithaca Min fars hus) hanno associato elementi di un
utile dibattito e alcuni momenti più conviviali. L’evento clou della serata è
stato però ovviamente legato a un’azzeccatissima selezione di letture dello
stesso Franco Melissano.
L’incontro è stato impreziosito da una dotta
introduzione di Anna Stomeo (su norma e variazione, Heidegger e il valore dei
dialetti) e si è concluso con una serie d’interventi propositivi tra i quali,
in particolare, quello di Paolo Protopapa, su un patrimonio culturale da
consegnare e far coltivare a nuove generazioni di cittadini (consapevoli del
continuo rinnovamento che viene dall’incontro di popoli diversi), e quello di
Giovanni Leuzzi, incentrato sull’unità di fondo dei dialetti salentini e la
necessità della sua riscoperta a detrimento dei facili campanilismi.
Il 31 maggio u. s. si è celebrata
in tutto il mondo la Giornata Mondiale senza Tabacco, promossa dall’ OMS per
aumentare la consapevolezza sui rischi del fumo di sigaretta, del tabacco e dei
prodotti a base di nicotina (World no tabacco day) e sulle strategie che usa il
marketing dell’industria del tabacco e della nicotina per vendere i loro
prodotti, comunque nocivi, allettanti, in particolare per i giovani. L’utilizzò
di aromi e additivi esaltano il gusto e mascherano l’asprezza del tabacco
aumentando così la probabilità di un uso continuativo e riducendo la
possibilità di smettere.
La Giornata, istituita nel 1988, si celebra ogni anno il 31 maggio per
sensibilizzare le persone sulla importanza del non fumare e richiamare
l’attenzione sui rischi del tabagismo. Lo slogan di quest’anno è stato “Giù la
maschera! Mettere a nudo le tattiche delle industrie del tabacco e della nicotina
per rendere attraenti i loro rapporti”.
L’OMS in una nota del gennaio 2024 afferma in modo chiaro e netto: “La
sigaretta elettronica non aiuta a smettere di fumare; le sigarette elettroniche
non si sono dimostrate efficaci come strategia per smettere di fumare”.
L’American Cancer Society sottolinea che il fumo di sigaretta è la causa
principale del carcinoma del polmone. E la Fondazione AIRC (Associazione
italiana per la ricerca sul cancro), Ente del Terzo settore (ETS), sottolinea
che circa l’85% dei casi di tumore al polmone è direttamente attribuito al fumo
di sigaretta e se si considera poi anche il fumo passivo questa percentuale
sale al 90%.
Ricostruire la Repubblica sul lavoro. Il referendum dell’8 e 9 giugno ha un grande obiettivo: farsi carico, per migliorarle, delle condizioni di vita di chi per vivere ha bisogno di lavorare. È una straordinaria e democratica operazione di restauro che, puntellando la struttura dei diritti, intende ridare dignità ai lavoratori ed al Lavoro, per rifondare attorno ad esso la nostra comunità nazionale. Il raggiungimento del quorum e la vittoria del Sì, darebbero un orizzonte radicalmente nuovo ai lavoratori, soprattutto i più giovani, i precari, gli stranieri. Una prospettiva che li libererebbe dal ricatto occupazionale, dal saltare da un contratto a termine all’altro, dall’insicurezza nei cantieri, nei campi, nelle fabbriche. Anche rendere meno tortuoso il percorso per ottenere la cittadinanza italiana a chi col proprio lavoro contribuisce al progresso del Paese va nella direzione della integrazione, di una società più giusta ed equa. C’è bisogno di questo referendum.
Si ripercorre la prima conferenza
dell’8 maggio 2025 nel ciclo di incontri, coordinati dall’accademico dei Lincei
Francesco D’Andria, per conoscere da vicino l’anfiteatro di Lecce.
Francesco Gabellone
Relatore: Francesco Gabellone (architetto e Primo tecnologo CNR Nanotec)
Anfiteatro da riportare alla luce. «Realtà aumentata per svelarlo»
Il ciclo di conferenze per conoscere l’anfiteatro romano di piazza Sant’Oronzo, è partito giovedì scorso. L’iniziativa è del Comune di Lecce con il coordinamento di Francesco D’Andria (accademico dei Lincei e archeologo) e con un approccio ricostruttivo che dal passato guarda dritto al futuro. E si avvale del contributo di studiosi, addetti ai lavori, nonché di diverse metodologie. L’iniziativa proseguirà per tutto il mese di maggio e a giugno, sempre ogni giovedì a partire dalle 18.30 presso la biblioteca OgniBene. All’interno dell’appuntamento conclusivo (la data è in via di definizione), si parlerà delle strategie e delle soluzioni pensate per il restauro del monumento.
Ma esaminiamo ora i testi di Ada Negri apparsi sulla
«Rivista d’Italia». La scrittrice è presente su cinque numeri, dal primo
fascicolo del 1918 all’ultimo dell’anno seguente, con cinque composizioni in
versi e una novella. Le prime sono accomunate dal contenuto luttuoso essendo
tutte ispirate ai tragici fatti personali che colpirono l’autrice in quel
periodo o al conflitto bellico.
Nei Giardini
del Silenzio e Notte, ad
esempio, entrambe confluite l’anno seguente nella raccolta Il libro di Mara, rievocano la figura dell’«Amato», scomparso
improvvisamente. Nella prima, composta da quattro sestine di versi di varia
misura, l’autrice immagina di
incontrarlo nuovamente in uno spazio senza spazio e in un tempo senza tempo per
portargli la sua «povera anima fedele / che non può vivere, che non può vivere
/ se non nell’ombra della tua Ombra»: