Quando sognavamo di essere tutti come Gigi Riva

di Antonio Errico

Gli eroi hanno un’età immobile, immutabile. Sono leggenda. Statue del pensiero. Fantastiche proiezioni, modelli irraggiungibili. Racconti di racconti. Icone. Immortali. Sono figure fissate in un’immagine, in una scena che ci portiamo dentro gli occhi, nel ricordo. Non hanno rughe del tempo. Forse hanno cicatrici di ferite riportate in epiche battaglie. Qualche volta forse hanno un poco di stanchezza. Qualche volta forse hanno anche un po’ di nostalgia: di quando sono stati uomini soltanto, di quando hanno avuto lacrime e sorrisi, un’infanzia, una giovinezza, di quando hanno avuto stupori, trasalimenti, batticuori. Il loro volto, i loro occhi, sono sempre com’erano nell’istante che li abbiamo conosciuti.

Quando penso a Gigi Riva, lui ha sempre i ventisei anni che aveva nel Mondiale del Messico, io gli undici che avevo in quella stagione. Il tempo si ferma lì, a quel punto. Non è accaduto nulla prima. Non è accaduto nulla dopo.

Gigi Riva era la figurina che non scambiavo mai, che non si doveva sciupare, il portafortuna di pomeriggi passati a battere il palmo della mano sulle soglie ghiacciate, e le palme si facevano rosse, si facevano gonfie, e le soglie e i davanzali si infiammavano. Le sfide più dure avvenivano sull’asfalto, o sopra un piano sterrato, o su una superficie di pietra liscia e viva. La posizione della mano dipendeva dal mazzetto. Più era grosso e più la mano si doveva incoppare. Le figurine scorrevano tra le dita come fossero i dollari ad un tavolo di poker in un western di Sergio Leone. Passavano pomeriggi d’inverno in un baleno. Al modo in cui passa il tempo dell’infanzia: senz’ansia, senza affanno.

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