di Maurizio Nocera
Il 17 aprile 2009, a Lecce, due eventi che riguardano Claudia Ruggeri. Il primo presso la sala “Teodoro Pellegrino” della Biblioteca provinciale “N. Bernardini”, con una sessantina di ragazzi e ragazze delle scuole medie superiori a parlare della scrittura di Claudia, con la sua mamma, signora Maria Teresa Del Zingaro, e poi la docente Maria Occhinegro, del Liceo “Palmieri”. Il secondo evento (progetto di Alessandro Turco e locandina di Claudia Ingrosso) invece, nella notte tarda, presso il pub “La Movida” di piazzetta S. Chiara, intitolato “Claudia vivendo … tu, poetessa della meraviglia, che continui a stupirci”, con Luca Nicolì, Massimiliano Manieri e Chiara Colapietro, lettori di alcune poesie di “Inferno minore”, e poi gli interventi ancora della mamma di Claudia, Maria Teresa Del Zingaro, Elio Scarciglia, Walter Vergallo e di chi qui scrive.
Nel 2004, sulla prestigiosa rivista «Nuovi Argomenti» (n. 28, quinta serie, ottobre-dicembre), fondata da Alberto Carocci e Alberto Moravia, e che fu pure la culla letteraria di Pier Paolo Pasolini, il segretario redazionale Mario Desiati, con un bel saggio dal titolo “La ragazza dal cappello rosso”, introduceva al grande pubblico dei lettori Claudia Ruggeri, poeta di Lecce, con queste righe: «Una lettera, prima dell’estate, accompagnava la foto della ragazza dal cappello rosso. Quella lettera mi chiedeva di prendere atto della “visione fisica”, di guardare, attraverso la pellicola del tempo e della carta, quel volto e quegli occhi. Era la tenera risposta della madre di Claudia Ruggeri a una mia richiesta di informazioni, testimonianze e materiale» (p. 250).
Il saggio di Desiati continua poi dando rilievo alla poesia di Claudia attraverso l’analisi critica che di quegli stessi versi avevano fatto Michelangelo Zizzi, Antonio Errico e Franco Fortini. Tuttavia il suo saggio è a noi (mi riferisco, oltre al sottoscritto, a Filomena e a Licia Stella, rispettivamente mamma e moglie di Antonio L. Verri) molto caro soprattutto perché egli ha parole umanissime nei confronti del poeta di Caprarica di Lecce, amico sincero e disinteressato nei confronti di Claudia Ruggeri poeta. Desiati scrive ancora: «Claudia Ruggeri a causa della sua poetica appariva isolata, alcuni anni dopo la morte di Antonio Verri e la fine di tutta una stagione di fermento, sembrava che tutto bruciasse attorno a lei: erano morti Verri, il suo caro amico Marcello Primiceri, Dario Bellezza e Franco Fortini, il poeta più importante che riconobbe il valore di Claudia» (p. 255). Ecco, in questo inciso, Desiati, attraverso le considerazioni di Franco Fortini, non dà solo un giusto riconoscimento del valore poetico di Claudia, ma indirettamente lo dà anche al buon Verri del quale, assieme, ne avevamo parlato qualche mese prima che egli incontrasse la signora Maria Teresa Del Zingaro. Quella volta, era la fine della primavera 2004, Mario Desiati voleva sapere tutto di Antonio L. Verri, e tutto di Salvatore Toma, e molto ancora di quei selvaggi del Salento che per anni erano stati dietro al mago dei curli. Per cui era inevitabile che il colloquio non cadesse anche su Claudia Ruggeri, la ragazza dagli occhi di luna e dal cappello rosso, come scherzosamente la chiamavamo noi del «Pensionante de’ Saraceni». Quella volta fu tanto l’interesse di Desiati che si dimenticò di partire all’ora decisa; ma, quando lo fece, partì con una mezza macchina colma di libri e di storie salentine, tra cui non potevano mancare i materiali di Claudia. Avevamo già pubblicato un lenzuolo di fanzina (70 x 100) con la testata «S/Palp» (ottobre 2000), con Rosanna Gesualdo che, per l’occasione, ci strabiliò con i suoi lavori sul viso e sul corpo di Claudia, con “Claudia Mesar-lì” di chi qui scrive, con la versione integrale de “Il matto” di Claudia e con l’editoriale di Stefano Donno, che scrisse: «Dopo quattro anni dalla scomparsa di Claudia Ruggeri […] restano moltissimi inediti, dattiloscritti e manoscritti, con una grafia che era divenuta sempre più simile a simboli, a segni di versi che Claudia continuava a comporre, ispirandosi al vastissimo mondo letterario che le apparteneva, al fluire dell’esistenza vissuta attimo per attimo. Sulla stessa fotocopia un ritratto fotografico della Ruggeri … di un fascino strepitoso, occhi che fanno fuggire a capo chino per la sottigliezza e la passione, un viso la cui bellezza ed espressività non poteva che provocare “vertigini”». Quanta ragione c’è in queste righe di Stefano Donno. Tanta. Quanta verità. Tanta. Perché è proprio così. Chi ha conosciuto Claudia non poteva non rimanere affascinato dal suo splendore di donna, dal suo modo di camminare, dal modo come piegava a mezza luna le labbra. E poi, se Claudia ti parlava, era un fulmine di senso che si abbatteva sul tuo povero corpo con una velocità paragonabile a quella della luce. Poteva capitare che in uno dei tanti incontri salentini di lettura di poesia, la serata volgesse inevitabilmente al triste, alla rassegnazione, al patetico. Poi, come accade spesso nella fiabe, dall’ingresso della sala, vedevi entrare Claudia Ruggeri, con addosso un abitino lungo nero, una sciarpetta attorno al collo profumato e sulla testa il suo cappello rosso. Subito la sala si rianimava. Il buon Verri, occhi sempre ombrosi al suolo, bofonchiava qualcosa, ma chi gli stava abbastanza vicino da ascoltare, sentiva nitidamente queste parole: «finalmente un po’ di luce, finalmente un po’ di vera poesia». Antonio L. Verri amava immensamente quella bambina-prodigio, di un amore che solo un poeta sa dare. Per lui Claudia era la purezza, la bellezza, quando Claudia era presente, diceva di sentire suoni di corde di violino celeste. E poi quando lei prendeva la parola per leggere una sua poesia, il buon vecchio Verri pensava subito ad un fiore, ad una violetta mammola, e diceva di sentire nelle sue narici di orso urbano il profumo. Anche noi, vecchi rimbambiti e un po’ avvinazzati, pendevamo dalle labbra e dai versi letti da Claudia in quel suo modo strabiliante, irripetibile. Ci ammaliava. E noi colavamo a picco come tordi colpiti dalla schioppettata del cacciatore. Poi Verri, era il 9 di maggio 1993, se ne andò via da questo mondo con una salto lungo più di trenta metri e la povera Claudia rimase così male, ma così male che nessuno di noi riuscì a consolarla. Andava sempre chiedendo il perché di quell’assurda perdita. E lo chiedeva a noi che eravamo più inebetiti e sconsolati di lei per quello schianto. E poi, ancora non avevamo assaporato quell’altro schianto, anch’esso doloroso, che si portò via il cuore di una bambina-poeta, il cuore di una ragazza che mai avevamo visto piangere. Ed era il 1996.
Ad un certo punto la tristezza di Claudia era divenuta notte fonda, era divenuta tormento per tutti noi. Quando una sera d’inverno cupo, era il 1995, ce la trovammo davanti in un incontro di poesia un po’ quasi nascosto, dove il vino scorreva per tutti come fiumi. Lì, in quel luogo dove duemila anni prima i messapi avevano sicuramente festeggiato una loro divinità, noi festeggiavamo Orfeo o quel che era rimasto del dio poetico. Con Claudia che era sempre triste. Non riuscivamo a capire perché, quella sera, bevesse in un modo così scriteriato. Ci chiedevamo cosa fosse accaduto a quella bambina-poeta dagli occhi che ti penetravano l’anima. «La tristezza – ci disse – la tristezza sta conquistando tutta la prateria, il tormento della solitudine sta ormai colmando ogni vena. Non c’è più nulla da fare. Si va compiendo ogni cosa. Anche la poesia comincia a stonare. Vi prego, ancora un bicchiere di vino». «Ecco il vino, Claudia». «Ancora un altro». «Ma Claudia cosa fai? Sei ammattita? Smettila, che ti fa male!». «Ti prego ancora un altro. E poi voglio ballare». Nella casa di campagna di Fernando Gigante, a Cavallino, quella notte, c’era Pierpaolo De Giorgi che suonava il tamburello, qualcun altro l’organetto. Anche la musica era quella della sofferenza del ragno salentino. Ora la rassegnazione di Claudia era al colmo. Ai suoni degli occasionali musici nella casa, si aggiunse, proveniente dall’esterno, il lamento delle foglie degli alberi. Sembrava il rumore dei panni del bambino stesi al vento. Non si poteva non rispondere al richiamo, purissimo e pulitissimo di una bambina-poeta che chiedeva aiuto, che attendeva disperatamente una mano di un amico, o di un’amica, o di un umano qualsiasi che l’aiutasse a risollevarsi da quel triste fondo entro cui ruffianacci di ogni risma l’avevano cacciata. Claudia credeva immensamente nell’amore, nella purezza, nella pulizia dei sentimenti. Non altrimenti era altrettanto per chi per lei era l’oggetto del suo innamoramento. La danza della piccola taranta non fu mai così intensa come quella notte, fino allo sfinimento, fino alle lacrime agli occhi, che già guardavano quegli altri occhi ormai colmi di furore e di voglia di eternità abissale. Ad un certo punto della serata, piangemmo come bambini offesi nella nostra incapacità persino di parlare. Piangemmo con Claudia che ci accarezzava una mano e ci faceva sapere che la vita a volte va per questi versi. «Sapete, sempre di versi si tratta». Poi, appena qualche mese dopo, ci fu lo schianto. E nulla più. Ecco perché noi oggi dobbiamo dire grazie a Mario Desiati per quel suo saggio su «Nuovi Argomenti», con le stupende immagini del volto di Claudia e alcune tra le sue poesie più belle, tratte dalle raccolte ancora inedite di “Inferno minore” e di “Pagine del Travaso”. I versi di Claudia raccontano la storia della grande poesia, la storia della grande commedia della vita, che non sempre è tenera con chi tenera lo è fin dalla nascita. E Claudia era tenera e leggera come piuma di usignolo in attesa, come soffio di profumo che si effonde nell’aria. Mi aveva scritto una lettera, una stranissima lettera giuntami proprio quel fatidico 9 maggio 1993, in cui c’è scritto: «Caro Maurizio,/ Antonio non c’è? Dagli questa per favore. Ciao Claudia». Antonio L. Verri non c’era veramente più. Soprattutto non ci sarebbe stato più per nessuno al mondo. Ma allegata alla lettera c’erano i teneri versi della nostra bambina-poeta. Oggi che sappiamo come sono andate le cose, leggendoli, ci sembrano ancora più stranissimi: «Viva// la vita estranea a quella forma/ cresciuta senza gradi o atti o/ noi alla vita – perché l’edera/ sfrenata al tirso errante muta di/ luce violenta di suoni in corsa/ come dio squassava le foreste/ ed era primavera/ non un solo getto di memoria/ così orgogliosamente ebbri da far/ pensare ad una riva e ad un bosco/ perfetti di acque e poi si fanno/ protezione e poi fuga di forze/ probabilmente strappo e comunque/ più in là religiosamente uguali/ le ipotesi all’ombra inanellate/ allora che vi chiedo./ Chiedetemi di sollevare il calice/ e di portarlo complice alle labbra/ e poi di dirvelo piano e con sottile/ ironia che vi amo».
È questa una Claudia struggente, pur in un’ironia forzata. E la Claudia dei nostri sogni, la Claudia della poesia.