Vienna, porta d’Europa

di Paolo Maria Mariano

È di Eric Hobsbawm l’idea che il Novecento sia un secolo breve, stretto tra l’inizio della Prima Guerra Mondiale e il termine della Guerra Fredda: 1914-1991, questo è il periodo. I due eventi determinarono cambiamenti radicali non solo nei rapporti di forza tra le nazioni, ma soprattutto nelle dinamiche della struttura sociale all’interno delle nazioni stesse, anche a causa della mutata geografia politica. In questa visione, quella porzione del Novecento antecedente la Grande Guerra appartiene ancora all’Ottocento, per visione del mondo e articolazione della società. Quel secolo, l’Ottocento, lungo per contrasto, un’età d’imperi, parafrasando un altro titolo di Hobsbawm, deborda per stile e modi di vivere nel conteggio temporale novecentesco e porta in sé i germi di ciò che caratterizzerà il tempo immediatamente successivo.

È nel contatto tra i due secoli, tra gli imperi e la loro distruzione, che si evidenziano forse più le interconnessioni che le diversità nel tessuto d’Europa. Al principiare del Novecento, Vienna fu espressione proprio di queste interconnessioni. Era un tempo di signore eleganti in mantella e cappellino inclinato, di signori impeccabili, ma anche di prostituzione diffusa e di esseri umani che si ammassavano negli anfratti delle fogne, non trovando altro rifugio alla povertà. Era un tempo di passioni sotterranee, figlie delle ideologie emerse nel secolo precedente, che sarebbero cresciute e che avrebbero attraversato l’Europa anche con violenza.

Samuel Fischer, l’editore, oppresso dall’otite, partiva da Vienna e andava a Venezia a festeggiare il diciannovesimo compleanno del figlio Gerhardt: era il 1913. Arthur Schnitzler lo inseguiva, autore ansioso dell’editore, accompagnato dalla moglie Olga, dopo essere sceso al Grand Hotel. Per le strade di Vienna passeggiavano contemporaneamente Hitler, Stalin, Tito: erano giovani. Il primo faceva il paesaggista men che mediocre; l’altro, il georgiano, stava la maggior parte del tempo nella casa dei Trojanovskij; l’ultimo faceva il collaudatore di auto, ed era mantenuto da Liza Spruner. Non sappiamo se i tre s’incrociarono, senza sapere l’uno dell’altro, nel parco del castello di Schönbrunn, quando erano ancora ignari del loro futuro: portatori di lutti e di distruzione in varia misura.

Vienna era allora e in qualche modo un distillato d’Europa.

Era il tempo delle lettere di Rilke alle signore abbienti, di lui più anziane, che gli permettevano con i loro favori di mantenere uno stile di vita non propriamente parco. E poi c’erano le lettere di Kafka da Praga all’eterna fidanzata, Felice Bauer, lettere che esprimevano la sua decisione d’essere indeciso, una cosa che avrebbe fiaccato la pazienza di chiunque. Ed era anche il tempo in cui Klimt dipingeva donne quasi evanescenti nella ricchezza dell’oro e delle decorazioni, mentre Oskar Kokoschka ritraeva forsennatamente Alma Mahler, prima che lei lo allontanasse per il più rassicurante Walter Gropius. Era un tempo di gente molto povera e di altra straordinariamente ricca, come lo furono i Wittgenstein. Misero al mondo un figlio, Ludwig, che avrebbe lasciato tracce profonde nella storia della filosofia, quasi non scrivendo e lasciando opere postume attraverso l’insegnamento a Cambridge. Ludwig non sfruttò la sua ricchezza – era quasi un mistico anacoreta, per così dire – se non quando, più tardi, nel mezzo del secolo breve, pagò le camicie brune naziste per salvare dalla deportazione le sue sorelle e il fratello pianista, per cui Ravel aveva scritto, tra il 1929 e 1930, un concerto per pianoforte per la mano sinistra, l’unica che il fratello di Ludwig poteva usare dopo la Grande Guerra. Altri compositori seguirono Ravel nell’attenzione per la ferita di Paul Wittgenstein: Britten e Prokofiev tra gli altri. Pagò, Ludwig, per salvare i suoi fratelli (fu costretto a farlo) proprio quelle camicie brune, prive di storia e piene di esaltata protervia, per cui i viennesi avevano esultato, salutandone l’ingresso a Vienna.

Con lo scorrere del Novecento, il tessuto urbano della città si modificava: da qualche tempo l’industria edile aveva raggiunto proporzioni tali da risentire solo marginalmente del crollo della borsa nel 1873. Si ristrutturavano antichi edifici o si sostituivano. Otto Wagner, Josef Hoffmann e Adolf Loos lavoravano anche in contrasto con lo stile imperiale, perfino di fronte all’Hofburgh, come fece Loos nella Michaelerplatz. In quelle strade Freud si sedeva al caffè, tra odori e colori di cibo, tra bevande calde e pasticcini, tra parole che volavano e giornali che frusciavano.

Da 21 al 28 settembre 1913 ci fu a Vienna il congresso di fisica che anticipò quello Solvay di Bruxelles, del 27-30 ottobre, dove Einstein cominciò a giganteggiare, estendendo la sua influenza culturale, talvolta pienamente capito, talaltra interpretato secondo convenienza dai filosofi. Soprattutto quell’anno fu l’ultimo di pace in terra europea prima della macelleria della Grande Guerra, cui seguì altra pace, sia pur breve, e altra macelleria. Lo sappiamo ma sembriamo non accorgercene talvolta, quando la miopia dell’intelletto ci fa dimenticare che la pace è una conquista (Eraclito lo sapeva) meno semplice e meno ovvia di quanto si sia propensi ingenuamente a immaginare.

La conoscenza dell’eredità storica permette di avere consapevolezza, che è il prerequisito di qualsiasi decisione, soprattutto politica, che voglia essere responsabile. Più che mai, consapevolezza e responsabilità sono necessarie oggi che Vienna apre un’altra pagina della sua storia; è un passaggio in cui deve confrontarsi con le pressioni ai confini, che sono anche quelli d’Europa. Ed è su quei confini che lo sguardo si pone, confini il cui ruolo è percepito in maniera tanto più ottusa quanto più friabile è la natura degli esseri umani che li gestiscono.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 11 novembre 2017]

 

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