Scritti su Giacomo Leopardi 2. Leopardi e una disputa culturale nel settecento tra Rousseau e Voltaire sul terremoto di Lisbona

Il terremoto di Lisbona

Nel 1755 un terremoto distrugge la città di Lisbona. L’evento commuove tutta l’Europa e diventa occasione di un dibattito che investe anche la cultura filosofica del tempo. I protagonisti principali della disputa sono Voltaire che scrive i Poèmes sur le Désastre de Lisbonne et sur la Loi naturelle e Jean-Jacques Rousseau che, dopo aver letto il primo dei due poemi, in data 18 agosto 1756 da Montmorencj, dove vive in solitudine, indirizza a Voltaire una lunga lettera nella quale espone i dubbi che lo tormentano e le sue critiche[2].

Il pensiero di Rousseau si centralizza sul principio della naturale bontà dell’uomo che viene corrotta dal nostro ordine sociale all’interno del quale si sviluppa la conoscenza di pari passo con i vizi. Il problema del male è così trasposto dal piano psicologico e teologico a quello politico e sociologico. La conseguenza di questa trasposizione è la discolpa di Dio dal male del mondo.

Il problema del male è stato posto da Voltaire nel Poema sul disastro di Lisbona. Lo scrittore, che tre anni dopo, nel 1759, in Candido, postulerà una direzione di volontà e di attivismo mediante l’invito al lavoro e all’impegno quotidiani anche nei confini “del proprio giardino”, nel Poema sul disastro di Lisbona ha espresso un pensiero pessimistico affermando di non poter considerare buono un dio che consente il verificarsi di una catastrofe come il terremoto che ha distrutto la capitale portoghese.

Il problema del male

Dio può prevenire tutti i mali, può fare avvenire il terremoto in mezzo a un deserto anziché a Lisbona, ma l’uomo non può sperare che i mali finiscano, altrimenti non si capirebbe che egli esiste per soffrire e morire; e d’altra parte, l’uomo pensante e senziente deve essere caro al suo dio quanto i pianeti che probabilmente non sentono affatto. Nonostante che Voltaire concluda il suo poema in senso ottimistico (Un giorno tutto sarà bene: ecco la nostra speranza; tutto è bene oggi, ecco la nostra illusione) in sintonia con l’elaborazione di nuovi valori propri dell’etica illuministica e consistenti nei diritti e doveri de l’homme éclairé, o intellettuale borghese che sostituisce, nella funzione di élite, l’honnete homme-homme de qualité ossia l’aristocratico dell’ancien régime, Rousseau dà al poema un’interpretazione non rispondente al senso che l’autore ha voluto attribuirgli tanto che un critico, il Besterman, ha parlato della “morte dell’ottimismo”.

Rousseau replica a Voltaire che la maggior parte dei mali fisici è ancora opera nostra. A Lisbona non è stata certamente la natura a raccogliervi ventimila case dai sei ai sette piani, e molti infelici sono morti non per amore della vita, ma degli abiti o del denaro che tentavano di portar via.  Non si può dubitare che terremoti si formino anche nei deserti; inoltre, non sempre una morte prematura è un male reale, perché di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, molti senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto di più rispetto alla lunga angoscia con cui, seguendo il corso naturale delle cose, avrebbe atteso la morte, che invece lo ha colto di sorpresa. E qui Rousseau innesta un brano polemico, in modo particolare contro il culto cattolico:

“Esiste una fine più triste di quella di un moribondo tormentato da attenzioni inutili, che notaio ed eredi non lasciano nemmeno respirare, assassinato nel suo letto dai medici a loro piacimento, ed al quale dei preti barbari fanno con arte assaporare la morte?”[3]

Quanto alla questione se il bene del tutto sia preferibile al bene delle parti, Rousseau sostiene che indubbiamente questo universo materiale non deve essere più caro al suo autore di uno solo degli Esseri che pensano e che sentono, sebbene l’intero sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli Esseri pensanti e senzienti, gli debba essere ben più caro di uno solo di questi Esseri, poiché ogni singolo Essere è contenuto nell’universo, cioè è parte di esso. L’uomo difatti ha diritto alla speranza di valere agli occhi di Dio più della massa di un pianeta, ma, qualora i pianeti fossero abitati, non si vede per quale ragione l’uomo debba valere agli occhi di dio più di tutti gli abitanti, per esempio, di Saturno o di Giove. Facciamo notare, intanto, che l’argomentazione è chiaramente diretta contro l’orgoglio umano.

Il razionalismo critico di Leopardi

Leopardi interpreta il poema di Voltaire in Zib. 4175 diversamente da Rousseau, e cioè in maniera ottimistica e conforme all’intenzione del suo autore. Leopardi assume proprio il pensiero di Voltaire a pretesto per la difesa della sua filosofia: “Tutto è male e non v’è altro bene che il non essere“. Questa metafisica leopardiana si incardina nel principio per cui ciascuna cosa esiste per fin di male, e l’esistenza, che è imperfezione, irregolarità e mostruosità, è un male ed è ordinata al male.

“(…) L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi siano, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono p. conseg. infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, p. dir così, del non esistente, del nulla.” (Zib. 4174).

Da questa tesi deriva che, quand’anche l’universo fosse infinito, l’infinità sarebbe già nell’universo e non sarebbe più esclusivamente propria del creatore.

“E quando poi l’universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell’universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell’essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l’universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinozisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l’universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l’universo è palese e sensibile. 7 apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.) Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?” (Zib. 4274-4275).

Leopardi ha così scardinato la metafisica dell’universo infinito e ha potuto teorizzare il principio dell’esistenza del male per tutte le parti che compongono l’universo medesimo. Dal Poema sul disastro di Lisbona egli riproduce in Zib. 4175 il seguente principio: Des malhereus de chaque etre un bonheur general = Dalle calamità di tutti gli esseri una felicità generale.

Resta un mistero come dal male di tutti gli individui senza eccezione possa risultare il bene dell’universalità e come un bene possa nascere dalla riunione e dal complesso di molti mali. Non gli uomini solamente, ma il genere umano e tutti gli animali e tutti gli altri esseri, gli individui, le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi sono stati e saranno sempre infelici di necessità.

Il giardino di Leopardi

Nasce così la pagina di alta poesia che va per tutte le antologie e meritamente non c’è lettore che la ignori; ed è significativo che essa sia incorporata in Zib. 4175 relativo a Voltaire, quasi che il terremoto di Lisbona abbia evocato nella fantasia di Leopardi soltanto l’aspetto distruttivo e malefico delle forze della natura:

“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volgere lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance“, qual individuo più, qual meno.

E la conclusione è che il giardino è un vasto ospedale:

“Ma in verità questa vita e trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. Bologna. 22 apr. 1826.)” (Zib. 4176-4177).

Il giardino è il simbolo dell’universo e della nostra vita, la quale è sventura indipendentemente da ogni vicenda di storia, giacché per Leopardi la sventura dell’uomo nasce dal sistema della natura. Come Voltaire, difatti, anche Leopardi ha sempre manifestato uno spirito polemico contro il presupposto teologico della rivelazione, e l’uno e l’altro scrittore, oltre a fare una metodica esplorazione del racconto biblico, ne hanno messo in luce inverosimiglianze, assurdi e contraddizioni. Merita di essere segnalata la contraddizione relativa al peccato originale.

Secondo Leopardi, che interpreta e spiega il racconto biblico in contrasto con i teologi, il peccato originale consiste non nell’offuscamento, ma nell’incremento eccessivo della ragione.

“Poi il Signore Iddio soggiunse: “Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi, avendo la conoscenza del bene e del male. Ora facciamo sì che egli non possa più stendere la sua mano, né cogliere ancora del frutto dell’albero della vita, per mangiarne e vivere in eterno”. (Genesi, III, 22).

Secondo i teologi Dio, impedendo agli uomini di mangiare il frutto dell’albero della vita, ha ottenuto due effetti: punirli, togliendo loro la possibilità di vivere in eterno, senza tornare in polvere, e ha usato nel contempo verso di essi un atto di profonda misericordia, che gli uomini però non hanno capito. Per Leopardi, invece, Dio scaccia l’uomo dal Paradiso, dov’è l’albero della vita, non per il peccato, ma perché non ne mangi, dopo aver colto e mangiato dell’albero della scienza e avere realmente acquistato essa scienza. La corruzione dell’uomo, quindi, non consiste nella ribellione della carne allo spirito e nell’assoggettamento della parte ragionevole e intellettiva a quella sensibile e materiale. Anzi, dopo il peccato e grazie al peccato, l’intelletto dell’uomo si rischiara, acquista la scienza del bene e del male, e l’uomo, grazie a essa, diviene effettivamente quasi unus ex nobis, come dice Dio nel passo citato del Genesi. La ragione così induce l’uomo a contraddire le proprie inclinazioni e credenze primitive. I teologi considerano l’incremento della ragione e l’acquisto della scienza come un bene assoluto per l’uomo e come effetto preciso e diretto del peccato. Leopardi, invece, pone la perfezione vera ed essenziale nello stato primitivo dell’uomo, cioè nello stato in cui è stato creato ed è uscito immediatamente dalle mani di Dio, mentre la sua corruzione discende paradossalmente dalla preponderanza della ragione e del sapere.

E’ inutile dire che il sistema leopardiano riesce incontrovertibilmente conforme alla filosofia del Genesi[4], indipendentemente dalla presenza di Rousseau, al cui pensiero l’argomentazione si ispira in ordine al distacco dallo stato di natura come nostalgia per una originaria situazione di purezza. Su questo tema Leopardi insiste con argomentazioni molto originali.

Il mondo non può sussistere se non ha se stesso come fine, e il Cristianesimo appare incompatibile, secondo Leopardi, non solo col progresso della civiltà, ma colla sussistenza del mondo e della vita umana. Nessun vantaggio deriverebbe alla società, che peraltro non potrebbe neppure sussistere, se l’individuo perfetto dovesse fuggire le cose per non peccare e dovesse impiegare la vita nel preservarsi dal mondo. Altrettanto varrebbe il non vivere. La vita allora diventa un male, una colpa; una cosa dannosa di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo la necessità di usarne e desiderando di esserne liberati. Si confronti adesso quanto precede con Zib. 3498 del 23 settembre 1823:

“La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocché esistiamo. Così chiunque vive. E’ chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo”.

Appare chiaro che il pessimismo leopardiano nasce su un piano metafisico esistenziale come male di vivere, in quanto esso affonda le sue radici in una strenua volontà di chiarificazione del processo attraverso il quale s’è compiuta la corruzione dell’uomo. Abbiamo visto che per Leopardi tale corruzione passa attraverso la critica della tradizione, intesa come rifiuto di giustificare credenze e istituzioni presenti per il semplice fatto di essere state tramandate dal passato.

Se ora noi torniamo alla pagina del giardino innanzi citata e da cui abbiamo preso le mosse nell’ultima parte di questo studio, rinveniamo in essa adunati per piccoli membri elementi e osservazioni secondo la tecnica del linguaggio scientifico che tende a eliminare ogni equivoco e a stabilire il massimo rigore, quasi si voglia indicare il costante passaggio dai fatti ai princìpi:

“Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata o strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi: le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi (…)”.(Zib. 4176).

Noi riteniamo che tanta obiettività e precisione risponda a fini pratici di convincimento e di dimostrazione filosofica. Sappiamo però che per Leopardi, in consonanza con la parte più moderna della cultura illuministica del Settecento, risulta fittizia la pretesa di conoscere oltre i limiti dell’esperienza e della ragione, anche se questa consapevolezza deve essere stimolo, in tempo di crisi, a illuminare tratti del pensiero. In questa pagina inoltre sono anche presenti esigenze descrittive e poetiche, come proiezione della fraterna compartecipazione che induce il poeta a vivere un rapporto cosmico con uomini, piante e animali e a esprimerlo in un rapporto sociale:

“(…) Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili con le unghie, col ferro. (Bologna 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piente vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice (…)“.

E’ la pietas che avvia l’umano solidarismo che costituisce una delle voci più intense dell’ultima poesia leopardiana.

[Leopardi ed una disputa culturale nel settecento tra Rousseau e Voltaire sul terremoto di Lisbona, in “Contributi”, anno I, 1, marzo 1982, pp. 31-38]

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