Sugli scogli 9. Quel trio

di Nello De Pascalis

Michael Ancher, Tre pescatori, 1895.

          Stabilimmo l’ora della partenza e la meta: mezzanotte, marina di Andrano, parcheggio grande. Eravamo un trio solidale, avido, spavaldo, ed era raro che uno si muovesse senza gli altri. Fernando, vecchio compagno di scuola media e mio medico di famiglia, era l’unico a roddhularsi, e quando passavamo a prenderlo non sapeva che dire: “Scendete” e noi si doveva scendere. Preparava con calma la moka e iniziava discorsi che andavano per le lunghe. Roberta, la figlia, (non la vedo da anni ma so di lei: laurea, matrimonio, gemelle; le mando un saluto, un abbraccio) si burlava di noi: “sciati meju a femmane”, diceva e Fernando rideva compiaciuto. Gaetano, al contrario, era puntuale se non in anticipo sugli orari stabiliti.

          Partimmo che era già l’una. All’incrocio per Vaste una macchina ci precedeva e mi balenò  l’idea che fossero pescatori diretti laddove noi ci dirigevamo. Mi accingevo a superarla quando svoltò per Poggiardo. Succedeva sempre così, ossia temevamo che chi ci precedeva potesse fregarci la posta.

          Fummo a Castro (sulla discesa di Acquaviva rividi scorci calabri e dal finestrino aperto entravano i profumi della notte), poi a marina di Marittima, indi a quella di Andrano. Un rombo pauroso saliva dal mare agitato; cercammo mentalmente qualche tratto di costa più al riparo: niente sull’Adriatico che facesse al caso. Puntammo sull’altro mare, verso Porto Selvaggio, zona ficalindie, convinti che lo Ionio fosse meno forte e dove, altre volte, il mare grosso arrivava franto. A quell’ora della notte la gente dormiva e la traversata fu scorrevole. Giunti sul posto, nel riquadro che funge da parcheggio a ciglio strada, non c’erano macchine in sosta e questo era un indizio su cui riflettere; saggio sarebbe stato tornarcene a casa e rimetterci a letto. Cosa che non facemmo.

          Saliva l’alba alle nostre spalle e l’allodola cantò per prima mentre noi si tergiversava in attesa di luce piena. Il mare si mostrò poi in tutto il suo furore: le onde s’infrangevano con violenza e producevano spuma a iosa. Nondimeno decidemmo dove metterci e che canna aprire. Tentammo, vicini l’uno all’altro, ma l’impresa fallì e tornammo a casa senza aver sentito una cannata.

          Ho perso quei compagni ed è triste ripassare dalle coste che ci videro sotto la bruma, col vento, nel pieno delle notti. Sul mare mi pare di vederli; sento l’eco di quelle voci non più voci. I ricordi m’incalzano e la nostalgia si fa sempre più struggente.

Questa voce è stata pubblicata in I mille e un racconto e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *