Passeggiate nei Balcani 3. Quattro notti a Sofia

di Gianluca Virgilio

Arriviamo a Sofia verso le 16:30, ora locale, cioè tenendo conto che in Bulgaria il fuso orario prevede di spostare in avanti di un’ora le lancette dell’orologio. Pertanto, godremo di un’ora di luce in più.

Sorpresa: l’appartamento prenotato è al quarto piano e non c’è ascensore. Pazienza! Il nostro indirizzo nei prossimi quattro giorni è il seguente: 31 Ivaylo Ulica. Siamo in una zona centrale della città, dalle parti di Piazza Macedonia.

Il viaggio da Skopje è durato a lungo, circa sei ore per meno di 250 km. Sosta di un’ora alla dogana e poi sosta di un’altra ora presso un lago artificiale scoperto per caso poco dopo l’ingresso in Bulgaria. Pranzo davanti allo specchio d’acqua, nei pressi della diga.  Anche in Bulgaria la viabilità non è delle migliori e questo ci ha costretto a una velocità ridotta. Il paesaggio che abbiamo attraversato, sia in Macedonia sia in Bulgaria, ci è sembrato piuttosto trascurato dalla mano dell’uomo, le campagne in gran parte abbandonate.

Dalla finestra della camera da letto, dove scrivo appoggiandomi ad una scrivania, vedo vari palazzi di cinque, sei, sette piani, di varia epoca; e, intorno ad essi, più in basso, alcune catapecchie, che un tempo dovevano essere discrete dimore borghesi, con annessi giardinetti pieni di robaccia d’ogni tipo, macerie, terra di risulta, ferri vecchi, ecc. Qualcuno usa un flessibile; ogni quarto d’ora passa rombando un aereo in fase di atterraggio nel vicino aeroporto Eppure ci era stato assicurato che il quartiere fosse silenzioso.

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Risveglio a Sofia. Ieri sera, dopo esserci risposati per un paio d’ore, siamo andati alla scoperta della città. Abbiamo percorso larghi boulevard notevolmente trafficati, ma d’un traffico abbastanza disciplinato, tale da garantire la sicurezza del pedone. La strada principale riservata ai pedoni, la via commerciale,  è il Vitosha Boulevard, su cui si affacciano edifici di ogni tipo, ma soprattutto palazzi di tre, quattro piani, alcuni dei quali ben figurerebbero nei quartieri popolari delle nostre grandi città. Ogni quarto d’ora, nella striscia di cielo in fondo alla fuga degli ippocastani, si ripete la scena già vista dalla finestra della mia camera da letto: passa un aereo in fase di atterraggio nel vicino aeroporto.

Visitata una villa romana del IV secolo d. C. (qui un tempo c’erano i Traci), la Moschea di Banya Basha, la sinagoga, una chiesa ortodossa, un mercato coperto dalla bella architettura primo novecentesca. Insomma, abbiamo fatto un largo giro panoramico nel centro di Sofia prima di tornare a casa stanchi morti.

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Lo stabile in cui viviamo si presenta piuttosto male: cornicioni sbrecciati, ferro arrugginito in vista, nerume da ogni parte; il portone d’ingresso da molti decenni non riceve una mano di vernice, la scala interna è fatiscente e ha una pavimentazione che un tempo doveva apparire severamente decorosa, ma ora è consumata dall’uso. Probabilmente l’edificio ha più di ottant’anni, ma il nostro appartamento ne dimostra venti, essendo stato ristrutturato di recente. L’acqua è potabile e ve n’è in abbondanza, stando a quanto ci dicono i padroni di casa, perché la valle su cui si estende Sofia è raggiunta dai cento torrenti del Monte Vitosha, che la sovrasta ed è ben visibile da ogni parte della città.

A proposito di acqua, ieri sera eravamo alla ricerca di una fontana per dissetarci, quando ci siamo imbattuti in ben due fontane site nei pressi della Moschea di Banya Basha. Grande è stata la nostra meraviglia quando abbiamo appreso, prima dall’odore di zolfo, poi dalla elevata temperatura dell’acqua, che si trattava di acqua sulfurea. Un giovane con una bottiglia in mano ci ha detto che potevamo berla e che ci avrebbe fatto bene allo stomaco – si è espresso così, in un italiano un po’ stentato -, dandocene la prova col bere lui stesso prima di noi. Così io mi sono dissetato con l’acqua calda e sulfurea, mentre le ragazze e Ornella hanno declinato l’invito, preferendo acquistare una bottiglia d’acqua in una vicina rivendita. Nei pressi della Moschea, i resti di un Bagno turco, che evidentemente si doveva avvalere di quelle sorgenti per le abluzioni dei fedeli.

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I nostri padroni di casa, due spilungoni alti 1,90 cm, hanno voluto essere pagati in contanti al nostro arrivo. Noi non avevamo contanti e abbiamo detto che li avremmo procurati appena possibile; ma loro hanno insistito per averli la sera stessa, con la scusa di doversi trasferire in campagna, dandoci l’impressione di essere due persone un po’ sospettose: hanno avuto paura che ce ne andassimo nottetempo, senza pagare! Poi però, dopo il pagamento, ci hanno portato un succo di frutta in busta, forse per scusarsi della loro insistenza.

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Stamane, io e Ornella, mentre Giulia e Sofia dormivano, abbiamo fatto una lunga passeggiata nel centro cittadino. Lentamente, come sempre accade a chi visita per la prima volta una città, la struttura urbanistica diventa chiara. Abbiamo visitato un’esposizione di libri usati nella piazza antistante il palazzo della Biblioteca. Ho acquistato di Giovanni Testori, La Gilda del Mac Mahon, Feltrinelli, Milano 1960, IV edizione. Sarebbe interessante sapere come sia finito qui questo libro italiano, che ora, se i Balcani non mi inghiottiranno, riporterò con me in Italia.

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Noi e le ragazze conserviamo durante il viaggio le rispettive abitudini. La mattina Giulia e Sofia dormono almeno fino alle dieci, mentre io e Ornella alle otto usciamo nelle strade della città. Poi, verso le undici le ragazze ci raggiungono aiutandosi con google maps e si fa perlopiù vita comune. La sera, dopo cena, io e Ornella ci mettiamo a letto stanchi morti, leggiamo qualcosa, ma alle undici già stiamo dormendo, mentre le ragazze escono per le strade della città e non tornano mai prima di mezzanotte.

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A sera, passeggiamo nelle strade di Sofia, allargando sempre più il nostro orizzonte cittadino. Abbiamo raggiunto un grande parco che si apre alla fine di Vitosha Boulevard. Anche qui non mancano i lavori di ristrutturazione e ammodernamento della città, ma tutto avviene con molta discrezione, senza ostacolare la circolazione di auto e pedoni.

Qualche povero per le strade chiede l’elemosina. Me ne sto seduto su una panchina di Vitosha Boulevard e davanti a me c’è un accattone, il quale, messosi carponi su un cartone, chiede l’elemosina in questa posizione scomoda. Nessuno che gli dia un soldo. Osservo la scena, mentre Ornella e le ragazze comprano qualcosa nel vicino negozio di souvenir. Sul lato opposto della strada, si ferma un giovane travestito da Micheal Jackson e comincia a ballare a scatti, come usava fare qual cantante, al suono della musica prodotta da uno stereo: un modo più convincente per chiedere soldi, stando alle poche monete raccolte dopo il primo balletto. Allora, l’altro postulante abbandona la sua scomoda posizione, si alza, raccoglie il cartone e le sue povere cose e si sposta cento metri più avanti, come ho potuto constatare quando, finiti gli acquisti, abbiamo ripreso la nostra passeggiata.

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Dalla finestra del nostro soggiorno si vede un grande noce e un ancor più alto sambuco, sotto i quali abbiamo parcheggiato l’auto. Entrambi gli alberi sono molto diffusi nei giardini e giardinetti privati di questa città; ed in particolare il sambuco cresce spontaneamente ovunque, come una pianta infestante, negli interstizi dei mattoni e anche sulle facciate trascurate di vecchi palazzi, come a Tirana. In Vitosha Boulevard, invece, l’albero prevalente dell’arredo urbano è l’ippocastano.

Nella Ulica Solunska, visione abominevole: un grande rampicante fiorito, pieno di rose rosse, sopra la facciata di una casa, si ramificava in varie direzioni, finto!

I quattro piani di scale che facciamo per raggiungere il nostro appartamento mi fanno immaginare il passato comunista di questo paese: pavimentazione spartana ma dignitosa, resti visibili di un impianto del riscaldamento delle scale, sgabuzzino comune tra un piano e l’altro, guardiola con retrostante minilocale per un portinaio e la sua famiglia. L’edificio sembra essere assai solido.

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Visita alla Galleria nazionale in Piazza Alexander Nevsky. Sembra incredibile che un’istituzione come questa, contenente molte opere di pregio, sia trascurata dai visitatori di Sofia, in un periodo dell’anno (agosto) in cui i turisti sono numerosi. Ma forse sono altre le mete turistiche. Nelle due ore trascorse nelle sale della Galleria avrò visto sì e no dieci persone. Ritorno a casa in taxi, economicissimo.

La monumentalità di Sofia è quella della capitale di uno stato di vecchia data: i palazzi del potere, il teatro, la grande chiesa ortodossa, la moschea, esprimono questa monumentalità come qualcosa di ovvio, di scontato, di assodato: una monumentalità sedimentata nella storia, che non vuol suscitare meraviglia o stupore, ma solo offrirsi al visitatore per quel che è, l’espressione di un potere che, pur cambiando nel tempo, è incontestabile.

La monumentalità di Skopje, invece, è quella tipica del parvenu, di chi vuole imporsi sulla scena della Storia (la storia come scena) perché pensa di averne tutti i requisiti, e anche di più. Pertanto, Skopje conserva l’aura del provinciale, che, costruendo, imita modelli ineguagliabili.

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A sera, si prepara su Sofia un temporale. Era ora, dal momento che da mesi non sentivamo i rumori della pioggia! Tuoni e fulmini per tutta la notte, e la temperatura si abbassa di quindici gradi. Il giorno dopo, il cielo è nuvolo e piove ancora. Rimaniamo in casa per tutta la mattina, ma non ci dispiace, perché siamo in viaggio già da dodici giorni e la stanchezza comincia a farsi sentire. Ne approfitto per leggere i libri che ho portato con me: il Meridiano di Ivo Andrić e Le Guerre jugoslave di Jože Pirjevec. Verso le 11:00, tra un’ondata di pioggia e un’altra, io e Ornella raggiungiamo l’auto parcheggiata nel cortile del palazzo. Vogliamo assicurarci che il temporale notturno non abbia prodotto danni. Sul marciapiede, ecco un topolone che ci guarda coi suoi occhietti vispi, e poi, senza correre, guadagna l’entrata di un tombino, penetrandovi attraverso una sbrecciatura della pavimentazione: insolito incontro mattutino.

I marciapiedi di Sofia, quelli delle strade secondarie, sono un disastro. Bisogna camminare con gli occhi rivolti a terra, stando sempre attenti a non prendere una storta. Gli alberi sollevano il terreno, rompendo con le loro possenti radici le commessure tra i mattoni e creando dislivelli e fessure nella pavimentazione, che l’uomo non provvede a riparare.

Altra presenza animale, un grosso piccione che viene a posarsi sulla grondaia dell’appartamento vicino al nostro e pare avere un’aria incuriosita. Poi vola verso il noce o verso il sambuco del cortile.

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La sosta forzata in casa induce la riflessione: penso che siamo in viaggio da dodici giorni, durante i quali Ornella non mi ha mai parlato di argomenti scolastici, lei che durante l’anno ha la scuola come argomento preferito. Glielo dico e lei ammette che il viaggio ha “un potere disintossicante”.

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Verso le 17:00 smette di piovere e allora, essendo l’ultimo giorno a Sofia, usciamo di casa. Le ragazze scorrazzano in città per conto proprio, noi due, invece, visitiamo la Chiesa di Santa Domenica, prima di percorrere il lungo boulevard intitolato a Maria Luisa (Maria Luiza Boulevard), fino ai quattro leoni posti sul ponte della Vladajska (Vladajska Reka), un torrentello quasi del tutto in secca: una lunga passeggiata tra palazzi di varia epoca e stile, ma perlopiù di epoca comunista. Solo nelle strade laterali è possibile vedere ancora le architetture discrete e gentili di una media borghesia dei primi del Novecento, a cui si sono sovrapposti, quando non sostituiti, i palazzoni dell’epoca comunista; case ad un piano solo oltre il pian terreno, coi graziosi abbaini e il giardinetto intorno, ora ridotte a stamberghe semicadenti, i giardini trasformati in discariche, le facciate senza i colori e l’intonaco di una volta. A chi appartengono queste case abbandonate? Sembrano come quelle tombe che si vedono nei cimiteri delle città, un tempo orgoglio della famiglia abbiente, ora abbandonate a se stesse, preda del vandalismo del tempo e degli uomini, in attesa vana di altri morti che non verranno più perché la famiglia che le fece costruire si è nel frattempo estinta.

Domattina, appena svegli, partiremo per Belgrado.

(continua)

 

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