Nell’album dei ricordi di un Salento fiabesco: Antonio Prete, “Album di un’infanzia nel Salento”

di Adele Errico

“Ma abbiamo tutti una montagna dell’infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero. Là fummo fatti quel che siamo”. Così parla il mendicante, in Dialoghi con Leucò, rivolgendosi a Edipo che vaga accecato fuori dalle mura di Tebe, con l’orrore delle proprie colpe ancora impresso negli occhi insanguinati. Mentre Edipo si scaglia contro il destino, il mendicante gli ricorda di voltarsi indietro, a ripensare – anche solo per un secondo – a quello che ha vissuto prima della tragedia, prima dell’orrore, a risalire sulla montagna dell’infanzia, laddove era, forse, felice. L’ultimo libro di Antonio Prete si intitola Album di un’infanzia nel Salento (Bollati Boringhieri 2023) e assomiglia molto a uno scavare nella lontananza. “Lontano” è la dimensione di cui parla anche il mendicante di Pavese perché lontano è quello che viene in mente a sentir parlare di infanzia: “L’infanzia è, della lontananza, il suo rigore estremo” – scrive Prete -, “difficile infrangere la sua inaccessibilità. La sua stessa rievocazione, nel corso degli anni, si fa labile, perché la tela dei suoi accadimenti si sfrangia e assottiglia. La vita, lungo il passaggio degli anni, è l’implacabile accamparsi di una distanza crescente dal suo mondo”.

Nel volgere gli occhi indietro a un tempo che appartiene al ricordo, Antonio Prete sceglie non casualmente la dicitura di “Album”. La scrittura del ricordo procede per lampi visivi, come fugaci sezioni di una pellicola fotografica, fotogrammi della mente che riposano, silenziosi, come sepolti sotto un sottile strato di neve, come semini dormienti sotto il cotone, in attesa di sbocciare. Leggendo Album di un’infanzia nel Salento non si poteva evitare di risfogliare il saggio La camera chiara di Roland Barthes, nel quale si legge: “Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente. In essa, l’accadimento non trascende mai verso un’altra cosa: essa riconduce sempre il corpus di cui ho bisogno al corpo che sto vedendo; essa è (…) la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale, nella sua espressione infaticabile”. La fotografia, per Barthes, è rappresentanza dell’irripetibile, di quanto è accaduto una sola volta e, nella propria unicità, viene irrimediabilmente congelato. Uno sguardo, un sorriso, un movimento fissato, per sempre – o finché il tempo ne conserverà le tracce – in uno scatto.

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