di Paolo Vincenti
Max Hamlet Sauvage, “the new star of pop art surrealism”, come ama autodefinirsi, è un artista dalla forte personalità e dalla cifra stilistica del tutto riconoscibile, ormai quotatissimo e seguito da un folto pubblico di estimatori che non fa mancare il proprio consenso in ogni mostra o personale cui il pittore partecipi. Di origini gallipolitane e tugliese di adozione, si è imposto sulla scena internazionale per il teriomorfismo delle sue opere che rendono omaggio ai grandi dell’arte come Giorgio De Chirico, Roy Lichtenstein, Alberto Savinio, Marx Ernst, ecc.. È pittore, scultore, incisore, fotografo, ma sempre la sua curiositas lo ha portato ad esplorare i terreni dell’immaginale, ad elaborare un proprio universo simbolico che trae ispirazione dall’inconscio che permea la realtà, in un tutto distopico armonico al tempo stesso. La sua iconografia bizzarra e fantastica, la coazione a ripetere mutuata dalla pop art di cui maestro indiscusso è Andy Warhol, il linguaggio fumettistico, lungi dal condurre ad un processo psichico di straniamento, coinvolgono lo spettatore e lo rendono partecipe di quel suo mondo onirico nel quale, quasi come una descensus ad inferos, è spinto ad immergersi per fare i conti con i propri demoni e quelli della collettività al fine di esorcizzarli. Uomini e donne dalla testa di animali, di uccelli, di piante, emblemi di un mondo disumanizzato, invitano il pubblico, attraverso il forte esercizio critico e di satira sociale dell’arte di Max, tributaria delle avanguardie novecentesche, ad un ripensamento circa il moto di progresso che la società ha follemente intrapreso. L’impronta favolistica dei quadri, in un fatale contrappeso rispetto alla brutale materialità dei tempi moderni, rende, attraverso l’inconscio, il potenziale fruitore consapevole della abbrutente e caotica realtà presente che ha sottratto spazio alla creatività, ha annullato il potere della fantasia, ha annichilito sogni e speranze di una generazione che ha perso, per dirla con Giorgio Gaber. Il fantastico delle opere dell’artista pop, che evoca una atmosfera misteriosa, alla Magritte, si esplica in un erotismo che, niente affatto assimilabile alla perversione della pornografia, ha invece una dimensione sacrale, come importanti critici hanno giustamente rilevato. Bisogna dire infatti che di Sauvage hanno scritto illustri studiosi quali: Arturo Schwarz, Giorgio Di Genova, Pierre Restany, Angelo Gaccione, Marina Pizzarelli, Toti Carpentieri, Roberto Senesi, Mario De Micheli, Maurizio Nocera e molti altri. Si sono interessati di lui anche Andrè Verdet e Vittorio Sgarbi. D’impatto, le opere grafiche dei vari cicli dell’universo zoomorfico metropolitano, un “bestiario della contemporaneità”, secondo la definizione di Licio Damiani: in queste opere visionarie, nella loro graffiante carica satirica, si può cogliere una forte denuncia nei confronti dell’ipocrisia borghese, della falsa democrazia, del perbenismo di facciata, con una non trascurabile valenza sociologica. La sua opera si distingue per originalità e profondità, come hanno scritto Gillo Dorfles e Philippe Daverio. La vocazione artistica di Max, insomma, non può essere ingabbiata in schemi paludati, pur collaudati, egli non è aduso a crogiolarsi sugli allori di una raggiunta e riconosciuta maturità artistica, ma il suo impeto innovativo lo spinge a sfondare le porte della percezione di cui parlava Aldous Uxley e a superare i territori liminari dell’allusione, del simbolo, della metafora. Verbigrazia, nel surrealismo, non esistono più limiti prefissati e per questo egli si estrinseca nel concettuale espressionismo, in cui non ha da rispettare dimensioni spaziali o temporali finite.