Omaggio a Nello Sisinni

di Antonio Lucio Giannone

Nello Sisinni è una figura atipica nel panorama dell’arte salentina contemporanea. Architetto di professione, si è formato sotto la guida del padre, Nino, valente scultore e autore di numerose opere pubbliche sparse in vari centri del Salento. Successivamente ha frequentato il Liceo artistico a Napoli, fino al conseguimento del diploma, e l’Accademia di Belle Arti di Lecce, allora appena istituita, abbandonandola però dopo appena tre mesi per costanti contrasti con un docente di figura. Ritornato nel capoluogo campano, si è laureato in Architettura presso la locale Università nel 1972. Da allora però non ha mai smesso di coltivare la passione artistica e ha completato in maniera autonoma la sua preparazione in questo campo, frequentando assiduamente musei, gallerie, pinacoteche e visitando monumenti e siti archeologici in diverse città italiane ed europee. Ha soggiornato così più volte a Parigi, dove ha conosciuto letterati, artisti e critici, e poi ancora a Firenze, Roma, Bruxelles, Pisa, Venezia, Atene, Amsterdam, ma si è recato anche in vari centri della Lucania (Matera, Pisticci, Melfi, Policoro, Eraclea, Metaponto), della Puglia (Taranto, Canosa), della Campania (Paestum, Santa Maria Capua a Vetere) e della Grecia (Delfi, Micene, Olimpia, Epidauro). In tutte queste località ha disegnato su album e agende, che conserva accuratamente, opere d’arte e monumenti, antichi e moderni, non per appropriarsi dello stile altrui ma per accrescere le sue conoscenze figurative. In qualche occasione ha raccolto in volume i suoi disegni, come quelli eseguiti a Pisa che figurano in una elegante pubblicazione dal titolo  I miei “segni” di Pisa 2004-2005, con introduzione di Mario Marti (Galatina, Edizioni Panico, 2006).

Così pure, per arricchire il suo bagaglio culturale, ha frequentato personalità di primo piano dell’arte e della letteratura, italiane e straniere. Tra queste, un ruolo fondamentale sulla sua formazione ha avuto Oskar Kokoschka, il maestro della pittura espressionista, che Sisinni andò a trovare agli inizi degli anni Settanta nella sua residenza di Villeneuve, sulla Costa Azzurra. Ma un’altra esperienza culturale importante per lui è stata quella vissuta a Roma, dove si recava periodicamente nel 1995 per illustrare con i suoi disegni, un paio dei quali sono esposti in questa mostra, alcuni canti dell’Inferno, in occasione delle letture dantesche che venivano tenute, ogni lunedì, al Teatro Argentina. Qui ebbe la possibilità di conoscere alcuni importanti poeti, come Giovanni Raboni, che organizzava questi incontri denominati “I lunedì dell’Argentina”, Mario Luzi, che ritrasse in uno studio a matita, Dario Bellezza e Nelo Risi. Quest’ultimo, che fu suo ospite per alcune estati a Torre Vado, gli dedicò la lirica In visita un’estate, che riportiamo integralmente perché è una delle più acute interpretazioni della sua pittura: “Si palesa / a chi entra nella casa di Cursi / un mondo impetuoso esaltato violento / di tinte di toni dai colori pesanti / sciabolate senza abbellimenti / sulle crete sui muri / gli ulivi le rocce il gran blu del Salento // Fa caldo nei tuoi quadri / non fosse il vento a piegare le forme / più che dipinte incise / quei corpi di donna intagliati / in trombe di luce / nel rozzo arcaismo / di una ricerca essenziale // Con l’aggressività del segno / materializzi la visione / e tutto si ricompone” (in Dittico, Novazzano, Le carte di Calliope, 1994).

Per questo suo desiderio continuo di apprendere, Sisinni è stato vicino anche ai maggiori letterati salentini degli ultimi decenni che spesso hanno scritto pagine notevoli su di lui: da Nicola De Donno a Donato Valli, da Mario Marti ad Aldo Vallone a Oreste Macrì. Ma ha avuto rapporti di amicizia e di collaborazione  anche con altri intellettuali pugliesi e lucani, come Vittore Fiore, che gli ha dedicato un’altra poesia, Come trattenere la rivoluzione, dove al terzo verso c’è un fulmineo accenno alle sue esperienze parigine (“La più gran fatica, Nello, / che dipingi e scolpisci a Cursi / e a Parigi anima e corpo…”, in Io non avevo la tua fresca guancia, Bari, Palomar, 1996), e inoltre Leonardo Sacco, Enzo Panareo e Nicola Carducci, nonché con illustri architetti, come Giovanni Michelucci e Bruno Zevi, e con i suoi maestri della facoltà di Architettura di Napoli, Nicola Pagliara, Massimo Rosi e Roberto Pane. Di molti di essi ha eseguito il ritratto, quasi per conservare la memoria di quei rapporti.

Il sodalizio umano e culturale, più intenso e duraturo, per Sisinni, è stato però quello col maggiore poeta dialettale salentino del Novecento, di indubbio rilievo nazionale, il magliese Nicola G. De Donno, del quale ha illustrato, fra l’altro, con disegni dal tratto intenso e drammatico, la raccolta di versi, La guerra guerra, pubblicata dall’editore Schena di Fasano nel 1987. Di De Donno, nell’aprile scorso, in occasione di una Giornata di studi a lui dedicata, ha realizzato anche un busto in terracotta collocato nel Liceo “Capece” di Maglie.

Tutti questi dati, che possono sembrare di carattere puramente biografico, servono invece per spiegare meglio la personalità di Sisinni, le caratteristiche di fondo della sua arte. Questa, infatti, a tutta prima può apparire immediata, istintiva, mentre ha uno spessore profondo che le deriva proprio dal costante studio della tradizione figurativa e plastica, dall’antichità greca e romana all’epoca barocca, fino alle correnti più innovative dell’arte moderna, come l’impressionismo, il postimpressionismo, i fauves, l’espressionismo, nonché, come si è detto, dal fecondo contatto con uomini e ambienti ricchi di cultura. Non a caso, sono stati fatti i nomi di tanti maestri della pittura  per indicare possibili suggestioni sulle sue opere: da Monet a Matisse, da Van Gogh a Cézanne, da Soutine a Bonnard, da Arturo Tosi a Carlo Levi, da Guttuso a Migneco fino a Vincenzo Ciardo. Ma queste suggestioni, che pure a volte sono evidenti, non vanno intese come tentativo di pedisssequa imitazione perché al contrario sono sempre elaborate e assimilate nel profondo da Sisinni e danno vita a un linguaggio pittorico originale e, per certi aspetti, inconfondibile.

I suoi lavori più impegnativi, d’altra parte, sono il risultato finale di un approfondimento costante di temi e soggetti che spesso compongono un ciclo pittorico e sono sempre preceduti da una serie di schizzi e disegni. Per questo, in occasione della presentazione di una mostra dedicata a “La notte di Torrepaduli”, Donato Valli l’ha definito “il pittore dei cicli”. A tal proposito, non si possono non ricordare, accanto a questo,  almeno i cicli dedicati a due attività tipiche del Salento,  “La vendemmia”, del 1982 e “I cavapietre”, del 1988. Il grande dipinto conclusivo del primo ciclo intitolato proprio  La vendemmia,  del 1982, è stato donato da Sisinni all’Università del Salento, dove tuttora è conservato, mentre un buon numero di disegni e dipinti relativi al secondo figurano in un volumetto, a cura di Sandra Giannattasio (I cavapietre, Matera, Basilicata Editrice, 1988).

Un altro punto da chiarire ancora è il rapporto con la sua terra, che è fortissimo, essenziale. Il Salento, con i suoi paesaggi, la sua storia, le sue tradizioni, i suoi monumenti, la sua gente, costituisce da sempre la principale fonte d’ispirazione per l’artista, ma ciò non significa che la sua arte abbia una dimensione limitata, un respiro breve, provinciale. D’altra parte, abbiamo già accennato alle esperienze di Sisinni in varie città europee, che gli sono servite per un’apertura notevole dei suoi orizzonti culturali e artistici, in un fecondo e costante dialogo tra Sud ed Europa, come auspicava Vittorio Bodini, il maggiore poeta salentino del Novecento, di rilievo nazionale e respiro europeo appunto, in due versi di una lirica intitolata Troppo rapidamente: “Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa”.

Un’altra caratteristica, ancora, di Sisinni è la sua assoluta libertà in campo creativo, non condizionata da tendenze alla moda, da considerazioni di natura commerciale. Egli è un artista ‘all’antica’, per così dire: lavora ‘ancora’ con le tele, i colori, i pennelli, spesso dipingendo en plein air; disegna con matite e pastelli su fogli di carta; modella con la terracotta. Completamente al di fuori del ‘mercato dell’arte’, che impone quasi sempre le sue leggi, è stato libero di seguire la sua personale ispirazione. D’altra parte, la vena creativa di Sisinni è irrefrenabile, continua, prorompente. Anche durante la presentazione di un libro, nel corso di un convegno di studi, con la sua agenda sempre a portata di mano, abbozza le fisionomie dei relatori, i gesti, i volti dei presenti, e così fa anche per le strade, nelle piazze delle città visitate, in una sorta di ininterrotto diario ‘visivo’.

Questa mostra antologica, dunque, che si svolge a cinquant’anni esatti dalla sua prima personale, tenuta a Gallipoli nel 1965, intende rendere omaggio a Sisinni e, al tempo stesso, vuole costituire un bilancio di mezzo secolo di attività artistica. Nella mostra sono esposte circa ottanta opere, tra dipinti, disegni e terrecotte, comprese tra il 1964 e il 2015, che offrono un panorama abbastanza ampio della sua produzione, documentando le diverse fasi da lui attraversate, nonché i principali soggetti delle sue opere, che ora passeremo rapidamente in rassegna.

Tra questi, il tema del paesaggio è forse, in assoluto, quello che ricorre più spesso fin dalle sue prime prove, legate ancora a un vedutismo di tipo tradizionale, di scuola napoletana. Esse raffigurano in massima parte scorci e monumenti del paese natio, come il primo dipinto esposto in mostra, Bagnolo, del 1964, nel quale il disegno e l’architettura prevalgono ancora nettamente sul colore. Una fase assai diversa è quella dei primi anni Ottanta, ai quali risale un altro ciclo, dedicato al paesaggio lucano, che costituisce un omaggio a Carlo Levi. Da questo ciclo è tratto il dipinto qui presente, Craco, dove incomincia a delinearsi già un linguaggio più originale, caratterizzato  – come ha scritto De Donno – da “pennellate flessuose, a spirale, policrome, una accosto all’altra […] giustapposizione di bande o fasce variamente curve di colore, ciascuna composta di minuti segmenti obliquati a spiga, per comporre movimentati policromi spartiacque di dorsi di colline o coltivazioni” (in “Contributi”, n. 2, giugno 1982, p. 132). A questo periodo appartengono anche le tre vedute parigine esposte nella mostra, le quali cercano di restituire, con un segno svirgolato, a linee e tasselli, e tonalità più leggere e attenuate, certe atmosfere tipiche delle piazzette di Montmartre e dei ponti sulla Senna.

Ma il paesaggio che Sisinni ha trattato più volte, con straordinaria energia del segno e acceso cromatismo, è stato, indubbiamente, quello salentino, del quale è riuscito a dare una personalissima interpretazione, collocandosi sulla scia di altri illustri paesaggisti di questa terra del secolo scorso, come Vincenzo Ciardo, Luigi Gabrieli e Cosimo Sponziello. Proprio in questi dipinti si rivela più chiaramente la caratteristica principale dell’arte di Sisinni, vale a dire la sua tendenza a cogliere l’essenza di ciò che dipinge, andando oltre l’apparenza, la superficie della realtà   e sfociando “quasi necessariamente – come ben vide De Donno – verso rese simbolistiche” (Nel cuore del Salento, in “Quotidiano di Lecce”. 25 maggio 1985).

Per questo, a nostro avviso, per la pittura di Sisinni, più che di “realismo quotidiano”, come ha scritto qualcuno piuttosto superficialmente, si deve parlare di realismo mitico-simbolico, nell’accezione che a questa espressione dava Pier Paolo Pasolini, il quale sosteneva che “solo è realistico chi è mitico e solo chi è mitico è realistico” e ancora che “il ‘mitico’ non è che l’altra faccia del realismo”. Il suo infatti è un Salento primordiale, atemporale, una sorta di Eden incantato, nel quale sembra affiorare quella dimensione sacrale dell’esistenza che la nostra società occulta e rimuove.  È un Salento visto nella fusione armoniosa degli elementi essenziali che lo compongono: il mare (“il gran blu del Salento”, per citare Nelo Risi), la scogliera, la terra rossa, gli ulivi, le rocce affioranti, i muretti a secco, qualche casa bianca di calce. Non compaiono quasi mai figure umane, e quelle rare volte che questo succede, come nei dipinti Porto di Torre Vado o Fiera di Barbarano intorno alla chiesa di Leuca piccola, più che uomini d’oggi, sembrano essere gli antichi abitatori di questa terra, i messapi, che ritornano sotto forma di pescatori o di contadini e venditori ambulanti.

Il Salento, insomma, diventa per Sisinni una condizione dell’anima, un luogo della mente, del cuore e dell’immaginazione, più che uno spazio geografico ben definito. Esso coincide, in particolare, con una zona precisa, che comprende alcune località della costa ionica, tra le più suggestive e incontaminate, ed esattamente Torre Vado, San Gregorio-Patù e Santa Maria di Leuca, quasi sempre al centro delle sue tele. Di particolare suggestione sono certi tramonti, “da bestia macellata” per citare ancora Bodini, nei quali le scogliere sembrano fiammeggiare per il riflesso della luce del sole che scende gradualmente verso il mare (si veda, ad esempio, Scogliera a Santa Maria di Leuca del 2002), o certe campagne con gli ulivi dalle contorte radici e con i tronchi secolari che compongono un’armoniosa discontinuità volumetrica, come Ulivi a Barbarano, del 1990. La natura dionisiaca di Sisinni è poi particolarmente attratta da quegli spettacoli violenti della natura costituiti da mareggiate, tempeste, burrasche, naufragi che egli riproduce nei suoi quadri arrivando in alcuni casi a esiti astratti a causa del turbinio incessante di linee e colori che portano alla dissoluzione della forma (come nel caso di La musica del mare, del 1990). In tutti c’è poi una visione panteistica che sembra accomunare i principali elementi del paesaggio (mare, cielo, campagna), fusi in una totale armonia tra di loro. Il quadro, a questo punto –  ha scritto Donato Valli – “diventa un ritmo, una tonalità della grande sinfonia del creato” (Arcaici colori del Salento, in “Quotidiano di Lecce”, 6-7 ottobre 1996).

Un tema ampiamente presente nella produzione, pittorica, disegnativa e plastica, di Sisinni, e qui ben rappresentato con alcune opere, è anche quello delle “bagnanti”, che, com’è noto, è uno dei motivi dominanti nella cultura figurativa francese dell’Ottocento e del Novecento. Questo soggetto, anzi, per alcuni di quei maestri, da Courbet a Degas, da Renoir a Cézanne, diventa l’occasione di sperimentare la novità del proprio linguaggio rispetto alla linea della tradizione. Sisinni ritorna su questo tema innumerevoli volte, con infinite ‘variazioni’, non avendo timore quindi di confrontarsi con quegli irraggiungibili modelli. Nei suoi dipinti, le “bagnanti” sono raffigurate sulla spiaggia, sotto gli ombrelloni (Bagnanti, del 2000 ), in precario equilibrio tra gli scogli, immerse tra le onde e le spume del mare, sempre in piena libertà, a diretto contatto con la natura, in un’atmosfera atemporale. Da sole, a due a due, a gruppi, stese sulla sabbia, in piedi, piegate, sedute, quasi sempre nude o, al massimo ricoperte da un panno (Bagnante con panno di seta, del 2000) esse non hanno niente di realistico, di umano, ma sono archetipi della femminilità, simboli dell’eros, nuove “veneri”, scese direttamente dall’Olimpo per popolare le distese assolate del Salento.  E, non a caso, in un dipinto intitolato Il canto delle sirene (dove peraltro c’è anche un’allusione allo stemma della ‘sua’ Bagnolo), le bagnanti si trasformano in queste figure mitologiche, assise sugli scogli, che con la bellezza del corpo e la dolcezza del  canto seducono i marinai fino a farli morire.

Sisinni ha eseguito anche, come s’è detto, numerosi ritratti, alcuni dei quali sono esposti in mostra. A volte i soggetti sono gli stessi familiari, come il padre, raffigurato ormai anziano mentre legge il giornale in un dipinto del 1985, altre volte personalità da lui conosciute e frequentate. In ogni caso, anche stavolta, non sono mai ritratti che tendono a restituire l’aspetto esteriore, la fisionomia precisa dei modelli. L’artista mira piuttosto a rivelarne il carattere intimo, a volte deformandone i tratti ai fini di una intensificazione e caratterizzazione psicologica, anche se non giunge mai alla distruzione della forma, in quanto il soggetto è sempre riconoscibile. I personaggi sono colti da Sisinni in momenti particolari, ora di distensione, come nel caso del ritratto di  Enzo Panareo, il suo primo critico, seduto in poltrona, con l’immancabile pipa, ora di concentrazione, come in quello di Raffaele De Grada intento a osservare qualcosa, forse un album di disegni.  Quest’ultimo è ritratto di tre quarti, come spesso preferisce Sisinni, che in tal modo riesce a scavare meglio nell’intimo dei soggetti raffigurati, dimostrando tutta la sua capacità di frugare nelle pieghe più nascoste. In qualche caso, i modelli sono collocati in contesti che ne completano la fisionomia o accanto a oggetti ad essi familiari: Mstislav Rostropovič col suo violoncello, Aldo Vallone e Nicola De Donno, davanti ai loro libri.

In mostra sono esposte anche alcune nature morte, nelle quali si assiste a un’esplosione del colore finalizzato a dare più forza al segno quasi si volesse restituire agli oggetti dipinti (siano essi frutti, fiori o pesci) la capacità di rivivere in un mondo diverso. Si tratta, a volte, di sontuose, raffinate composizioni ricche di elementi decorativi, come drappi di seta, giornali, tovaglie, vasi di ceramica. Nella Natura morta con saraghi e peperoncini, sono questi ultimi che svolgono una funzione decorativa, quasi una sorta di fondale per dare più rilievo ai due pesci posti nel piatto in primo piano. Questa oltranza decorativa riempie ogni spazio della tela, quasi per una sorta di horror vacui, l’angoscia del vuoto che Bodini intravide alla base del barocco leccese. D’altra parte, i frutti che compaiono frequentemente nelle sue tele (melegrane, uva, fichi, fichidindia, cotogne) hanno, com’è noto, un significato simbolico (di fertilità, d’amore, di fecondità) e non a caso figurano anche nelle cornucopie e sulle colonne tortili delle chiese leccesi.

Un tema particolarmente caro a Sisinni, che dal 2001 lo sollecita sempre a nuove interpretazioni, è quello della “Notte di Torrepaduli”, cioè quel fenomeno identitario della cultura salentina che va sotto il nome di danza della taranta, studiato dal grande etnologo Ernesto De Martino, che la riconduce al “simbolismo della taranta che morde e avvelena, e della musica, della danza e dei colori che liberano da questo morso avvelenato”. Ebbene, ogni estate, nella notte tra il 15 e il 16 agosto, egli si reca a Torrepaduli, attratto da quelle vorticose, sfrenate danze, che sono da lui interpretate come ansia, desiderio di libertà e quindi come strenua “lotta esistenziale”.  Questo anelito viene espresso attraverso i gesti delle danzatrici, il linguaggio delle loro mani rivolte contro il cielo, le quali, proprio per la loro valenza simbolica, risultano volutamente sproporzionate.  “Stilisticamente – ha scritto egli stesso – queste figure avevano una tale grandiosità di ritmo nei loro movimenti che segnarono subito una specie di innovazione nella mia composizione figurativa. Ogni movimento della figura, per me, allude infatti alla rivendicazione della lotta esistenziale che, come la terribile tarantola, preclude ogni libertà; una libertà supplicata attraverso la tensione ritmica dei movimenti delle forme piene di energia e di carica sensuale che perfora gli spazi elemosinando libertà”.

Anche qui insomma, come per le “bagnanti”, si assiste a una trasfigurazione delle immagini in senso mitico. Le danzatrici non sono più giovani donne dei nostri giorni, che partecipano a una festa, ma si trasformano in menadi scatenate, in baccanti invasate, seguaci di Dioniso, che ritornano in preda alla frenesia estatica, anelando alla loro libertà. “Il miracolo che Sisinni è riuscito a compiere in questo ciclo pittorico – ha scritto Valli nel pieghevole di una mostra del 2005 – riguarda proprio la sublime sinestesia di suoni e colori che rivivono nella loro accesa materialità lo spirito libero e creativo di una perenne leggenda. È, per così dire, il gioco polifonico delle figure che genera con gesti densi di remota sacralità, l’armonia d’un passato sempre presente”

Non poteva mancare ovviamente, in questa antologica, una scelta della sterminata produzione di disegni eseguiti da Sisinni nel corso della sua attività. Fino ad oggi ne ha archiviati circa quindicimila circa, ma a questi bisogna aggiungere i numerosissimi schizzi presenti su cinquantaquattro agende. Egli ritrae tutto ciò che vede con una incredibile capacità di osservazione e fulminea rapidità di esecuzione: figure, oggetti, ma anche, come s’è detto, opere d’arte del passato (dipinti, statue, architetture) che cerca di ricreare con le sue “matite capricciose”, quasi per carpirne i segreti. In Sisinni c’è infatti una tendenza insopprimibile ad afferrare coi suoi ‘segni’ qualsiasi aspetto della realtà (umana, naturale, artistica) per cercare di farlo proprio, di assegnargli un senso specifico, quasi alla ricerca di una verità ‘altra’. E anche nei disegni egli tende ad andare oltre la superficie delle cose, degli oggetti rappresentati, nel tentativo di coglierne l’essenza, l’anima più profonda.

Da un paio di decenni Sisinni si è dedicato anche alla scultura in terracotta, riprendendo la lezione del padre che da giovane osservava da vicino durante la sua attività.  In questo campo ha realizzato, tra l’altro, alcuni busti, che ritraggono amici e sodali (Vittore Fiore, Leonardo Sacco e, più di recente, Aldo Vallone e, come s’è detto, Nicola De Donno), nonché pannelli che raffigurano episodi mitologici e tre serie di bozzetti: Le dee contadine (2000), Le Veneri messapiche (2009) e Le ignare bagnanti (2014). Nelle Veneri messapiche, Sisinni si ispira ai modelli della statuaria greca, procedendo, come di consueto, alla trasformazione delle immagini in archetipi della femminilità, col suo “rozzo arcaismo”, come l’ha definito Nelo Risi, di indubbia suggestione. Lo stesso artista ha scritto, a questo proposito, che “lo scopo della ricerca” è stato quello di  “rielaborare modelli plastici antichi, declinandoli con la nuova dimensione della terracotta”.

Un lavoro molto impegnativo in questo campo è stato La Via della Passione, quattordici pannelli in terracotta rappresentanti la Via Crucis collocati sulle pareti delle navate laterali della Chiesa Madre di Maglie, terminato nel 2013. Esso è stato preceduto da una lunga serie di schizzi, contenuti su una grossa agenda (disegni di ‘crocifissioni’, ma anche studi di figure, di volti, di particolari anatomici) accompagnati spesso da brevi annotazioni di varia natura. Il comun denominatore di questi pannelli è costituito dal tratto fortemente espressionista che mira alla deformazione delle immagini per dare ad esse un senso più profondo e una intensità maggiore.

Una novità assoluta di questa mostra è rappresentata invece da tre bassorilievi,  esposti qui per la prima volta, ispirati ad altrettanti episodi narrati nel libro delle Memorie, di Sigismondo Castromediano, Carceri e galere politiche, pubblicato a Lecce nel 1895-96 e opportunamente ristampato per volontà dell’on. Gaetano Gorgoni nel 2011. Con queste opere, che come di consueto sono state affiancate da schizzi preparatori, Sisinni ha voluto rendere un omaggio alla nobile figura del patriota e letterato salentino, dal quale è rimasto affascinato per le idee di libertà da lui coerentemente perseguite, che gli costarono dieci anni di carcere duro nelle galere borboniche.

Il primo pannello, La colonna mobile, si riferisce all’arrivo a Lecce, il 13 settembre del 1848, dei soldati borbonici, descritti nelle Memorie come “insolenti, avidi di saccheggi, i dragoni più degli altri, briachi e protervi”, e alla cattura del duca di Cavallino e degli altri patrioti. La scena è ambientata da Sisinni sullo sfondo del vecchio Carcere centrale della città, la cosiddetta ‘Udienza’, di cui è riconoscibile la sagoma, mentre in primo piano, in basso a sinistra, figura il volto del “Bianco Duca”. Il secondo, La libertà, è ispirato invece a una pagina nella quale Castromediano, dopo essere stato incarcerato, stabilisce un paragone, in base a un “triste presentimento”,  tra la libertà, che vedeva ormai sempre più lontana per lui e i suoi compagni, e la storia di un fanciullo dietro la farfalla, raffigurato da Sisinni in tre momenti immediatamente successivi, quasi tre diversi fotogrammi. “Il poverino – scrive il duca – per quanto l’avvicinasse, non giunse mai a chiapparla”. Il terzo e ultimo bassorilievo, La donna della rosa, rimanda invece a un episodio apparentemente minore ma che ha colpito la fantasia ‘romantica’ dell’artista: il lancio di una rosa gettata da un balcone da una giovane donna dai “capelli biondi e gli occhi cilestri” verso Castromediano, al passaggio dei prigionieri da via del Carmine, a Napoli, verso Castel Nuovo, raffigurato sullo sfondo, prima di essere trasferiti nel Bagno penale di Procida. In primo piano spicca l’immagine delle mani serrate nella terribile catena, che racchiude quasi emblematicamente il senso più profondo di tutta questa vicenda.

[Introduzione a Nello Sisinni, Mostra antologica (Dipinti, disegni e terrecotte), catalogo della mostra (Cavallino di Lecce, Palazzo Ducale, 23 maggio-14 giugno 2015), Galatina, Edizioni Panico, 2015, pp. V-XVI.]

 

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