“Passano i collegianti”, ovvero come viveva uno studente salentino durante il fascismo (Parte prima)

di Giuseppe Virgilio

“Passano i collegianti”

Qualche volta si sente il bisogno di ridestare o di riconoscere i sepolti affetti del proprio passato, di ritrovare attraverso di essi stati d’animo originali e autentici. Accade così che dalla superficie delle cose si scenda al loro fondo vivo e mosso e si rimanga attratti dal muto tesoro di profonde impressioni. Coordinando queste impressioni, si ricrea tutto il tessuto di un’epoca o di una società o di un momento di vita collettiva.

Gli affetti della giovinezza rivivono, se si danno ad essi forme concrete.

Ecco il chiostro del vecchio “Colonna” scandito dalle immagini della gioventù studiosa che ci ha preceduti, ecco il pozzo al centro di esso, e poi di lassù, all’improvviso, per la scala grande si leva un frastuono, si ode un mormorio di voci, simile a ciò che si sente in una platea al calar del sipario dopo un’intensa scena drammatica.

Sono “i collegianti” che si preparano alla passeggiata vespertina. Giubba nera fregiata dall’alto in basso su due linee da borchie color d’oro e bavero di velluto intorno al collo fasciato dal colletto bianco inamidato, berretto con una piccola tesa sulla fronte, pantaloni lunghi, un ampio mantello sulle spalle se la stagione è invernale, incolonnati per due in lunga schiera, escono dal portone del Liceo guidati dal censore Zuccalà e dall’istitutore Ciccarese.

Mèta delle brevi escursioni fuori dal Collegio sono via Diaz e via Roma, negli anni Trenta ancora disselciate, e soprattutto il viottolo che conduce alla masseria di S. Antonio, oggi arteria vitale tra Noha e Galatina, ma allora una stradellina erbosa segnata soltanto dal passaggio di uomini e bestie e serpeggiante fra campi coltivati e terreno roccioso, dove i più piccoli tra i convittori danno prova della loro bravura di serpai. Per dove passa la schiera, accorrono in frotta i ragazzi, si fanno o restano sull’uscio le persone grandi, le giovanette si affacciano al davanzale della finestra od al balcone in cima delle case gridando in coro: “Passano i collegianti!”. Ma perché tanto interesse? Che cos’ha di particolare quella schiera di giovani da destare tanta curiosità?

 

Un’espressione linguistica popolare

Innanzitutto i ragazzi.  Per costoro “i collegianti” rappresentano un mondo da cui si sentono esclusi ed emarginati, un mondo fatto di aspirazioni vaghe, di istintivi ed interiori ragionamenti senza sbocco, prodotto di una tradizione fatta di terrore e di millenaria ignoranza della realtà circostante, che la vita stessa, l’attività storica avrebbe poi vinto e cancellato. La divisa del collegiante, già di per sé blasone di nobiltà agli occhi di questi ragazzi, richiama loro per antitesi la blusa dell’operaio e del contadino ma senza l’orgoglio di classe, bensì con l’angoscia delle fatiche di quelle categorie e delle sofferenze e delle rinunce passate e presenti.

Quindi gli adulti e gli anziani. Costoro vedono in quei giovani un termine di paragone tra la propria sorte e condizione e quella degli altri; ed allora pensano a sé, ai propri figli ed ai propri fratelli, sentono un vuoto, un desiderio di giustificazione al proprio essere ed al proprio operare quasi che la ragione umana sia incapace di scavalcare il limite del conosciuto e del conoscibile. Il collegiante diventa un mito dal quale nasce la coscienza della propria inferiorità, la ragione della propria impietosa mortificazione ed umiliazione.

Infine le giovani. Per costoro, la maggior parte oneste villanelle, sartine, tabacchine, cariche dei depositi istintivi di secolari frustrazioni che rendono la vita umile, modesta e vacua, il collegiante è o può essere il principe azzurro lungamente atteso e sognato per appagare i bisogni vaghi, difficilmente determinabili, quasi metafisici della propria giovinezza.

Bisogna tenere presenti queste considerazioni, ed allora non sfugge il significato di fondo per cui nella parola collegiante grava la realtà ideologica degli anni Trenta a Galatina e nel Salento fino a connettersi intimamente con la verità.

Il lettore consideri che ai nostri giorni ormai la parola collegiante a Galatina è arcaica, fuori moda e desueta perché non si può più fissare in qualcosa di solido e di compiuto.

Dobbiamo difatti osservare che il vocabolario italiano non registra per sua parte questa parola né come sostantivo né come voce e forma nominale verbale, anche se vi si riscontra collegiale dal tardo latino collegialis e collegiato dal latino collegiatus.

Il popolo, i poveri non hanno mai avuto e purtroppo non hanno ancora un modo di esprimersi culturalmente accreditato, perché la loro scuola era ed è soprattutto l’impulso fantastico e l’atto logico con cui rendono a tutti intelligibile il loro pensiero.

Se questo è vero, l’espressione “Passano i collegianti” è un esempio di capacità inventiva e creativa della cultura popolare galatinese, direi meglio che è un esempio di attività storica dell’uomo, di ricchezza espressiva che viene dalla varietà dialettale la quale fa scoppiare gli schemi fissi che i grammatici hanno stabilito per comodità occasionale di insegnamento.

L’esperienza collettiva difatti assume la parola collegio come complesso di persone ordinate in modo da formare un corpo. Andando al di là della grammatica normativa, il popolo di Galatina dà autonomia ed individualità al termine in esame conferendogli la forma e la funzione di un nomen agentis, e compiendo così un atto creativo, e da collegio abbiamo collegiante, colui che dimora nel collegio, termine che non si vede per quale ragione non debba essere registrato nel vocabolario italiano.

E’ accaduto che la lingua si è ribellata alla grammatica, perché la spinta e l’impulso delle forze ambientali, cioè storiche, hanno saputo sprigionare una efficacia maggiore della grammatica stessa. Nell’atto logico della collettività galatinese s’è fissata come azione durativa dei convittori l’idea della permanenza in collegio, centralizzandosi nel termine collegiante, perché nella storia, nella vita sociale non vi può essere niente di fisso, di irrigidito e di definitivo, in quanto nuove verità accrescono il patrimonio della sapienza, nuovi bisogni vengono suscitati dalle condizioni nuove di vita e lo spirito è così obbligato a rinnovarsi ed a migliorarsi e con esso le forme linguistiche. Ciò accade perché soprattutto le spinte linguistiche avvengono solo dal basso in alto ed i libri poco influiscono sui cambiamenti delle parlate.

 

La società salentina negli anni Trenta

Approfondiamo ancora il legame tra la realtà racchiusa come in un bocciolo nell’espressione popolare che stiamo analizzando e la società di questo tempo.

Chi erano i collegianti? Quali i nomi e i luoghi di loro provenienza?

Scorrendoli ad uno ad uno, prende corpo la struttura sociale di un Salento che i giovani di oggi non potrebbero neanche immaginare.

Essa è rappresentata da un blocco storico di forze sociali borghesi non condizionate dall’opposizione e dalla costante presenza dei partiti e dei sindacati della classe operaia e rurale. I Quero ed i Vallarelli di Manduria, i Pizzulli di Francavilla  Fontana, i Venneri ed i Vergari di Alliste, i Basurto di Racale, i Pedaci ed i De Leo di Acquarica del Capo, gli Stea di Casarano, i Dimo di Parabita, i Carallo di Neviano, i Bidetti ed i Giannelli di San Nicola, i Cazzella di Gallipoli, gli Stanca di Soleto ed i Tondi di Zollino sono rampolli di famiglie che egemonizzano nel Salento una società senza altri processi ideologici che non siano quelli che disgregano i ceti popolari ad opera della borghesia. Ora non si nega che la borghesia abbia rappresentato in estensione ed intensità uno stadio notevole del progresso umano, ma non bisogna mai dimenticare che essa è nata nel Mezzogiorno dalla capillare intermediazione della camorra dopo l’abolizione del feudalesimo nel 1741 con Carlo III e nel 1759 con Ferdinando IV, mentre la borghesia del Centro-Nord nasce dalla dissoluzione feudale medievale e passa dalla corporazione al commercio, alla manifattura, all’industria.

Perdendo di vista questi processi storici si capisce poco della questione meridionale.

Nel periodo storico in esame, gli anni Trenta a Galatina e nel Salento, la classe borghese ha consolidato il suo potere obiettivo in maniera tale da contraddire le aspettative delle classi non borghesi, che sono la maggioranza, da sovrastarle e sfuggire al loro controllo.

I collegianti possono essere assunti a mezzo di verifica di questo concetto. Essi ci danno un’immagine che deforma nel tempo la verità della struttura sociale salentina.

 

Emarginati e privilegiati

Accolti con dignità dalle autorità del Collegio, il Rettore, il Censore (il nome evoca un mondo ed un passato fatto di implacabili ferule e di catonismo intollerante, grande malattia dei pruriginosi reazionari del Concilio di Trento), l’Istitutore, i collegianti arrivano a Galatina all’inizio dell’anno scolastico in autunno in macchina, con l’autista qualche volta in livrea, oppure in carrozza col cocchiere a cassetta. Hanno interrotto le dolcezze quotidiane della vita familiare, ma sono dei privilegiati perché all’organismo elementare della famiglia possono sostituire la nuova comunità, intesa come insieme di esseri umani ai quali arride un avvenire di belle speranze.

Li rivedo quasi tutti. Questi è un giovanetto pallido, bruno dagli occhi vivacissimi. Quell’altro si profonde in propositi feroci, in risate scroscianti, in galoppate nel regno dell’impossibile e del sogno. Quest’altro ancora è sempre serio, partecipa alla discussione con interruzioni fatte con voce profonda, e con sorrisi, con incroci di occhiate che fanno intravedere quanto vivo sia in lui l’interesse e l’energia della volontà. Tutti però sono giovani che studiano, che pensano e specialmente che sentono. Si avvezzano presto alla vita collegiale scandita da norme precise nei tempi e nei modi.

Un personaggio desta subito la loro curiosità ed ilarità: è Eligio, il vecchio cuoco del collegio, venuto a Galatina chissà da dove e recante nel volto olivastro le orme di un’atavica origine saracena.

Il sabato sera assistono in un’aula al pian terreno a vecchi film della serie Charlot e Ridolini per comunità su di uno schermo rudimentale dove passano, talora capovolte, rapide immagini proiettate da una macchina approssimativa che spesso si inceppa, manovrata dal tecnico del gabinetto di Fisica, Ugo Giurgola.

La domenica qualcuno è ospite per il pranzo presso qualche famiglia amica del luogo, ma ci deve andare accompagnato da un subalterno del collegio per evitare che ci scapiti il bon ton.

Come si vede, una vita che ripete gli schemi della famiglia d’origine e la sostituisce in pieno come organo di difesa e di tutela sociale, come intima essenza della compagine umana, ma non la sostituisce come organismo morale volto ad infondere ideali di preparazione umana e di educazione civile che mettano al bando, o almeno infievoliscano, ogni apriorismo, ogni pregiudiziale assoluta intorno ai fatti, restaurando solamente il fine del vero e del giusto.

I collegianti difatti appartengono quasi tutti ad un ordine sociale che ha attuato nel Salento condizioni storiche che impediscono una liberazione reale con mezzi reali della società, a cominciare proprio dal mondo dei fanciulli che anticipa così lo stato della società degli adulti.

In ciascun paese di provenienza per un giovinetto che va a studiare in collegio, molti suoi coetanei restano senza tutela nel loro sviluppo fisiologico e morale, esposti ai pericoli ed alle insidie dell’ambiente naturale, e senza i mezzi necessari per educare la propria intelligenza.

Sono giovanetti uguali a quelli che noi ricordiamo di aver veduto nella nostra infanzia a Galatina raccattare nelle strade la profenda di ritorno per alimentare la concimaia dell’ortolano di verdure precoci; ricordiamo i piccoli spaccapietrre inchiodati per ore su un cumulo di massi e di pietra viva ai margini della strada sotto la pioggia od il solleone, martellare sassi ritmando d’estate il canto delle cicale, i piccoli bacchiatori e raccoglitori di olive recantisi in mano, per riscaldarsi nel gelo invernale, una pietra restata a lungo nel fuoco alimentato con rami secchi in un cantuccio, e sono lieti perché hanno da sgranocchiare nella giornata i fichi dolci di cui il proprietario del podere ha fatto loro provvista al momento dell’ingaggio, ed infine tutti gli altri giovanetti che preparano con acqua e rena la calcina spenta per murare.

Non abbiamo fatto questa rassegna per indulgere ad una retorica fuori moda, ma perché ci pare di essere in presenza della discriminazione più vergognosa verificatasi nella società italiana dopo l’Unità, la quale ha assunto aspetti gravissimi specialmente nel Mezzogiorno. Da un lato i ragazzi che, oltre la famiglia e la scuola, hanno avuto il privilegio della comunità collegiale che, se altro vantaggio speciale non ha potuto elargire, ha almeno ad essi insegnato in che modo superare la vita dell’individuo ed ha additato un seguito di vita nuova, di vita diversa.

Dall’altra parte invece abbiamo avuto una sterminata moltitudine di ragazzi, la maggioranza, che non si è potuta accostare al mondo della conoscenza, a cui è stata negata ogni conquista dello spirito, che sono rimasti abbandonati all’insegnamento teologico che ha precluso ad essi ciò che è più efficace ed interessante, cioè la storia della ricerca, la storia di questa enorme epopea dello spirito umano che lentamente, pazientemente, tenacemente prende possesso della verità e la conquista. Per tutto questo, il grido “Passano i collegianti”, pur se ridesta in noi l’eco della nostra prima giovinezza, si confonde con la putrida schiuma di un’ incrostazione medievale.

[Mezzosecolo di storia meridionalistica e d’Italia, Mario Congedo Editore, Galatina 1998, pp. 121-124]

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