Il saggio Il pensiero poetante ha origine dall’osservazione di questa grande scena messa in opera nello Zibaldone, una scena sulla quale giungono via via i riflessi e le implicazioni delle altre scritture leopardiane.
Tornare, per me, a quel saggio è ritrovare pensieri e accadimenti di una stagione della vita.
Lungo gli anni Settanta – anni politicamente inquieti e intellettualmente fervidi – Leopardi e Baudelaire divennero nelle mie giornate presenze assidue. Sulla stessa rivista – “Per la critica”– un saggio intorno alla Ginestra e un saggio sul Baudelaire critico e teorico delle arti inaugurarono un colloquio con i due grandi classici che tuttora continua. Quanto a Leopardi, all’altezza di quell’epoca alcuni studi, certo, avevano contribuito a restituire un’immagine del poeta in cui il pensiero dialogava con la poesia: era già lontana la crociana espunzione della filosofia dall’ordine poetico leopardiano, non era più credibile la riduzione del pensare leopardiano a un frammentismo autobiografico e morale. E si era ancora, in quegli anni, nell’onda della cosiddetta “svolta” avvenuta negli studi leopardiani che aveva dato grande dignità di teoresi alla prosa e alla poesia. Ma – si trattava forse di giovanile presunzione – mi pareva che molte delle indagini sui singoli testi leopardiani non dessero rilievo al potere conoscitivo della poesia in dialogo con la tensione poetica del pensiero, continuando così a separare nei fatti il poeta dal filosofo. Mi sembrava insomma che fosse trascurato l’ascolto, per dir così, diretto della pagina leopardiana, nella quale l’orizzonte di pensiero diveniva materia e ritmo del verso da una parte, e l’immaginazione poetica era sorgente e venatura costante del pensare, dall’altra. Se ci si poneva dinanzi ai testi leopardiani davvero in stato d’ascolto, quella forza del pensiero data dall’inventiva propria della poesia e quella tensione interrogativa e introspettiva e contemplativa che animava la lingua poetica si rivelavano nel loro necessario e singolare vincolo, nella loro inseparabile forza conoscitiva. In conclusione, quel che Leopardi stesso aveva detto del “sommo” filosofo che era anche, allo stesso tempo, “sommo” poeta, mi appariva come percepibile, e pulsante, nelle sue stesse pagine.
Quando si trattò di apporre un titolo all’ultima stesura del libro, accanto ad altri progettati titoli, mi parve che l’espressione “pensiero poetante” potesse indicare meglio la venatura ricorrente nel lavoro. Prelevai il sintagma da una pagina dei Sentieri interrotti di Heidegger nella bella traduzione curata da Pietro Chiodi. Ma, a parte i passaggi dedicati, per analogia, all’ interpretazione heideggeriana di Hölderlin – un’analogia imperfetta, perché d’altra natura è in Leopardi il rapporto con il mito, e con il sacro – non c’erano altri rilevanti riferimenti al filosofo tedesco; e tuttavia il libro, all’uscita, fu scambiato da più d’uno come un saggio d’impronta heideggeriana. Potere inatteso di un titolo. Semmai, l’area di riferimenti teorici che in quegli anni mi accadeva di frequentare con una certa assiduità, e dei quali c’è più di un riflesso nel libro, era costituita da Freud, anzitutto, da Benjamin, da Adorno, e più in generale dai teorici della cosiddetta Scuola di Francoforte, ma anche, tra i francesi contemporanei, da Blanchot, Barthes, Foucault. Certo, come accade a ogni libro che abbia, o pretenda di avere, la forma dell’ “essai”, anche quel mio libro risentiva della temperie culturale in cui l’autore si trovava a vivere: nel mio caso quella temperie aveva un suo particolare timbro nella città dove abitavo, Milano, e nella città di frequenti soggiorni, Parigi. E risentiva, in particolare – lo noto con molta evidenza ora, rileggendolo per questa edizione – delle domande che in quell’epoca più potevano coinvolgere un giovane studioso, come quelle relative al cosiddetto “pensiero negativo” o “pensiero della crisi”, alla critica delle “ideologie” predefinite, alla critica del sapere disciplinato in istituzioni separate e astratte.
L’espressione “pensiero poetante” non era ancora vulgata, e qualcuno annotò quel “poetante” del titolo tra i neologismi recenti della lingua italiana.
In una sua composizione iniziale, cioè prima dell’ultima stesura, il libro si componeva di alcuni studi leopardiani, in parte nati lungo il tempo della cura dedicata alle Operette morali (edizione Feltrinelli del 1976), in parte risultato dei primi corsi universitari che tenevo a Siena e che avevano per oggetto sia le Operette sia alcune aree tematiche che trascorrevano nello Zibaldone, come la meditazione sul piacere e sul desiderio, l’interrogazione sulla natura della “filosofia moderna”, la riflessione sulla lingua della filosofia e delle scienze osservate in rapporto con la lingua della poesia. Ma in un secondo tempo tolsi dal libro gli scritti sulle Operette e sostai ancora per diversi mesi tra le pagine dello Zibaldone, lavorando a quella che divenne la terza parte del libro, e che prese il titolo Corpo, linguaggio, civiltà : il saggio assunse in questo modo un carattere unitario. Il dialogo con Gian Piero Brega, editor della Feltrinelli e studioso di Erasmo, al quale avevo presentato il libro nella sua prima composizione, contribuì a questa unificazione delle ricerche intorno allo Zibaldone.
Il titolo del libro, riferito al pensiero di Leopardi, proprio perché aveva per oggetto precipuo lo Zibaldone, naturalmente sottintendeva il nesso con l’altro polo, la poesia: la poesia che è pensiero, la poesia che assume nel suo movimento, nel suo stesso ritmo, l’azzardo e il limite del pensiero (le pagine dedicate all’idillio L’infinito nel corso delle prima parte – Meditazioni sul piacere – rispondevano a questo assunto).
Il saggio, bene accolto all’inizio dai filosofi e dai poeti, e assai tiepidamente dagli italianisti, cominciò il suo cammino, fino a superare poi nella ricezione queste divisioni tra aeree diverse.
L’intrattenimento con l’opera leopardiana diventò per me, come è accaduto, del resto, a molti amici studiosi, non l’episodio di una stagione, ma un tempo irrinunciabile della vita. Alle cui scansioni appartennero, via via, lungo gli anni, nuovi libri dedicati a Leopardi, fino al recente La poesia del vivente. Leopardi con noi, del 2019. Si tratta di saggi che, rimodulando il “pensiero poetante”, hanno avuto occasione di attraversare, con un nuovo sguardo, altri aspetti e altre prospettive dell’opera leopardiana.
In questi successivi indugi su Leopardi m’è accaduto via via di dissipare alcune astrattezze, e anche un qual certo ardore polemico, che a tratti caratterizzavano quel mio primo libro dedicato allo Zibaldone.
Il pensiero poetante aveva, dunque, come oggetto di indagine alcuni campi che lungo il trascorrere della pagine zibaldoniane apparivano come una sorta di luogo intensivo da cui si irradiavano molti altri indugi della scrittura. Anzitutto, la meditazione sul piacere, sull’infinito, e sulla felicità: una meditazione che dalle teorie illuministe si sospingeva verso un orizzonte nuovo, in cui centrale diventava il desiderio, osservato come costitutivo dell’essere umano, suo respiro, suo bios. Poi, l’interrogazione del moderno, della sua “ragione”, del suo impulso a “geometrizzare la vita”, e a trascurare quel che è indefinito, e che confina con l’invisibile. Accanto a questo, la riflessione sulla lingua in generale e sulle lingue, una riflessione in cui la tradizione della filologia era dislocata verso un terreno per dir così antropologico e insieme poetico, aprendo domande che oggi ci appartengono (da quell’area si sarebbero poi mosse le indagini sulla traduzione che mi avrebbero occupato in tempi successivi). Infine, il grande teatro della civiltà, delle sue rappresentazioni e illusioni, dei suoi fantasmi, delle sue forme di potere. E nello svolgersi della civiltà, il processo che il poeta chiama “spiritualizzazione”, cioè l’affermarsi progressivo di una distanza dalla corporeità del singolo, dal suo sentire e patire, dalla sua stessa visibilità e presenza, come accade nelle guerre moderne (allo stesso tempo questa “spiritualizzazione” comporta l’affinamento di una sensibilità che si sporge su ciò che prima appariva nascosto o insondabile). Sul fondo di questa ricerca si collocavano altri momenti, come la rilevanza dell’ “assuefazione” nel definirsi delle attitudini umane e dei rapporti, la formazione del “gusto”, la critica di ogni pretesa oggettività del fatto estetico, il riconoscimento della sopravvenuta distanza dalla natura, dal suo ordine, dal suo enigma, infine, l’attenzione al mondo animale, un mondo che la civiltà tende a rimuovere.
Ripercorrendo quelle pagine, m’accorgo che oggi darei un timbro meno perentorio a certe affermazioni, e attenuerei certe formulazioni definitorie che appaiono nell’impalcatura della seconda e terza parte. Accade, nel corso del tempo, che l’attenzione ravvicinata ai testi poetici, alle loro forme, modifichi le forme di una scrittura. Costante, tuttavia, mi sembra sia rimasta la messa in campo di una prospettiva esegetica, quella che cerca di rapportarsi alla vita di un testo, si presenti questo testo nella forma poetica o nelle forme varie della prosa.
Ogni ritorno a un classico è approfondimento di un dialogo. I periodici ritorni a Leopardi hanno rivelato meglio i modi di una presenza del poeta – delle sue domande – nel cuore del nostro tempo.
Quello che diciamo “pensiero leopardiano” certamente oggi appare come l’esperienza di un severo disincanto dinanzi alla pretesa esaustiva del sapere filosofico e allo stesso tempo come un attraversamento incessante di quel sapere, delle sue domande. Un attraversamento che, in libertà e rischio, si spinge fino a quella soglia dove il pensiero guarda se stesso come pensiero, vede il proprio limite, scorge, per fare un esempio, la propria impotenza a dire l’infinito. Ma in questo caso intravvede – è qui la poesia, nel suo dialogo con il pensiero, a prendere la scena – una zattera che può, nel naufragio della rappresentazione, nell’azzardo di voler comprendere l’infinito, accogliere, ancora, la percezione del proprio corpo: “E il naufragar m’è dolce in questo mare”: una dolcezza che dai poeti provenzali in poi segnala il legame profondo della poesia con il sentire. In questo sentire Leopardi avverte anche il nesso tra il vivente e il ritmo dell’universo.
La prosa e la poesia di Leopardi mi appaiono oggi come due occhi dello stesso sguardo. Uno sguardo che si posa sulla singolarità senziente, e rammemorante, e ferita, dell’individuo, e non indugia su quelle astrazioni come masse, o popolo, privilegiate invece dalla modernità e dal nostro stesso tempo. È a partire da questo sguardo che il poeta avverte la comune appartenenza di tutti i viventi allo sconfinato, inesplorato, ordine cosmico.
Spesso il punto di osservazione, nel movimento del pensiero leopardiano, è spostato su un’anteriorità, o su un altrove, dalla cui soglia si possono scorgere, del presente, contraddizioni, figure, limiti. L’antico, il fanciullo e l’animale appartengono a questa anteriorità o a questo altrove, dalla cui lontana configurazione il pensiero muove verso la descrizione, e la comprensione, e la critica, del presente. Anche la società, con i suoi miti, con le sue forme di potere, con i suoi fantasmi, è osservata da questo estremo: un prima perduto, certo, fantasticato, ma punto di irradiazione per la conoscenza. Lo sguardo e i pensieri di un pastore errante in un deserto asiatico pongono domande ultime sull’apparire del mondo, sul dolore, sulla finitudine. Dalla considerazione del corpo animale, del suo rapporto armonioso con la natura, muove l’indagine sulle forme della civiltà, sulla loro disarmonia, sulla loro astrazione dal vivente. E lo stesso sguardo sul ”giardino della sofferenza” suppone un punto d’osservazione altro, lontanissimo, quello di un “filosofo antico, indiano, ec.”. Infine, la condizione umana, con la sua angustia per il tempo irreversibile, per il “mai più”, e con l’apertura costante di un desiderio di felicità privo di risposte, sempre incolmato, è osservata da un oltretempo, che ha sul fondo il cammino della luna, il movimento stellare, il vortice della galassie. Questo spostamento del punto d’osservazione che dischiude una particolare vista è possibile se si tiene aperto il campo di percezione proprio del “poetico”, quel campo che, nel processo di incivilimento, un astratto dominio della ragione ha reso opaco o cancellato : l’ “abbandono del poetico” compiuto da una ragione opposta alla passione, da una ragione che per troppo voler vedere vede il nulla, è contrazione dello spazio immaginativo, occlusione dell’ “altra vista”.
Quanto alla meditazione sulla natura, nello Zibaldone essa si dispiega, in dialogo con molti passaggi dei Canti e delle Operette, secondo modulazioni e variazioni e sfumature difficilmente riducibili a schemi o a rotture: come la physis greca, la natura leopardiana, nell’arco del suo mostrarsi, comprende il ritmo delle stagioni, il nascere e il morire, il fiorire e lo sfiorire, coincide con l’esistenza universale, con l’esistenza che per il poeta è vita che ama la vita, che genera la vita: necessità, principio di conservazione, corpo biologico. Allo stesso tempo, la natura è protezione e insidia, cura e corrosione, maternità dolce o perversa, crudeltà di fanciullo che si trastulla con gli esseri, sofferenza del vivente. E ancora, respiro che unisce uomini, animali, corpi celesti, galassie. Ma è anche creaturalità che si riconosce nella condizione di fragilità, nel transitorio, nel limite. Il giovane Leopardi, nel corso della polemica con i romantici milanesi, con la loro idea di rappresentazione della natura – di prossimità mimetica alla natura – ricorda come l’incivilimento abbia reso inconoscibile e inabitabile la natura e si chiede come abitare “nel mondo snaturato la natura” : una domanda che giunge intatta, con tutta la sua urgenza, alla nostra epoca. Come giunge, con forza – e ponendosi davvero nel cuore del tragico del nostro tempo, un tragico di cui la pandemia ha mostrato la violenza distruttiva – l’invito, affidato ai versi della Ginestra, a osservare da una lontananza oltrestellare “questo oscuro /granel di sabbia, il qual di terra ha nome”. In virtù di questo sguardo – che è senso profondo della finitudine – si può tentare, tra le rovine, di perseguire il disegno di un “verace saper” : un nuovo sapere che guidi la comunità umana ad instaurare “l’onesto e il retto / conversar cittadino” e a dare nuove radici a “giustizia e pietade”. Quella luce fuggitiva di un esile fiore sorto tra le rovine è la poesia. Per restare tra le pagine dello Zibaldone, un frammento datato 1 febbraio 1829, sostiene che della poesia si può dire “quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”. La poesia come il sorriso.
Una riedizione del Pensiero poetante non altro ha da augurarsi se non che nuovi lettori possano abituarsi a sostare tra le pagine dello Zibaldone, dei Canti, delle Operette morali e degli altri scritti leopardiani, ascoltando il respiro poetico del pensiero e, allo stesso tempo, la tensione conoscitiva della poesia.
Siena, inverno 2021
[Introduzione alla nuova edizione (dopo molte edizioni Feltrinelli) de Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Mimesis 2021.
Pubblicato per gentile concessione dell’autore.]