Cosetta Veronese dimostra che le finalità dell’elaborato recupero del materiale shakespeariano consistono essenzialmente in una feroce satira antiborghese e nella rappresentazione di un soggetto «in continua, ininterrotta trasformazione», p. 59. Se Amleto è un modello etico, «incarnazione e portavoce di un modo di guardare la realtà che Gadda condivide», p. 84, e dunque specchio di una scrittura intesa dall’autore come responsabilità morale, la triade Antonio-Cesare-Cinna del Giulio Cesare appare simmetrica e comunque funzionale all’omologa Fumi-Liliana-Angeloni del Pasticciaccio. Altre suggestioni emergono, invece, a livello strutturale: da Re Lear Gadda mutua il tema della naturalità della discendenza e della trasmissione del patrimonio familiare; dalla Tempesta, quello della salvaguardia della stirpe; dal Mercante,quello della proprietà. La lunga fedeltà al canone del Bardo di Avon, infine, sarebbe confermata da indizi che rinviano a Macbeth, Romeo e Giulietta e Commedia degli errori.
Il saggio di Monica Bianco verte sull’influenza esercitata dal primo racconto poliziesco della storia, il Murders in the rue Morgue di Poe, che Gadda leggeva nella versione francese di Baudelaire e in quella italiana di Decio Cinti. La Bianco fa notare una serie sorprendente di analogie e coincidenze che appaiono evidenti fin dalla significativa scelta del titolo con l’indicazione esatta del luogo del delitto (via Merulana e rue Morgue, nomi peraltro allitteranti): l’attitudine analitica dei due investigatori, Dupin e Ingravallo; l’idea del delitto come intricata matassa da sbrogliare; la macabra descrizione dei cadaveri mutilati; il fermo senza validi motivi di uno dei sospettati; la grossa somma di denaro prelevata dalle vittime poco prima di essere assassinate; l’interrogatorio di un banchiere e di un orefice; e, infine, la plurivocità gaddiana che sembra esasperare le varietà diatopiche dei personaggi di diversa nazionalità che si aggiravano per rue Morgue.
Il ricorrente motivo dell’ombra o di sostantivi di analoga portata semantica come oscurità, notte, morte, ecc., innesca, nel romanzo, dispositivi stilistici decisamente orientati verso il tragico: è in questo modo che, secondo Federico Bertoni, l’assoluta negatività e cioè il pessimismo radicale che caratterizza il pensiero di Gadda ha possibilità di emergere a livello testuale. Attraverso la disamina di isotopie tematiche e formali, Bertoni arriva a considerare l’ombra – intesa junghianamente come malinconia, velo che avvolge personaggi centrali non solo del Pasticciaccio (Liliana), ma anche di altre opere come La cognizione del dolore (Gonzalo), L’Adalgisa (Elsa), e La Madonna dei filosofi (Baronfo) – uno «strumento di condensazione simbolica», p. 113, che l’autore adopera per rappresentare, ricorrendo a un registro carico di tensione emotiva, il male inteso in senso metafisico, il dolore che è insieme individuale e universale. Anche l’altro saggio sul senso del tragico in Gadda, scritto da Lisa Poretti, evidenzia come la parola “malinconia” sia spesso associata al carattere di Liliana, personaggio in cui sembrano convivere follia e saggezza, armonia e caos, e di cui si tenta di ricostruire la genealogia ricorrendo a riferimenti biografici (le figure reali della madre e della sorella dell’autore) e a suggestioni classiche (attraverso velati riferimenti ad alcune eroine greche, in particolare alla Cassandra eschilea).
La curatrice del volume, Maria Antonietta Terzoli, si occupa di un aspetto ritenuto determinante per gli sviluppi della gaddistica, e cioè dell’importanza della cultura figurativa nell’economia del Pasticciaccio, romanzo zeppo di rimandi, ora criptici ora espliciti, a elementi iconografici reali o fittizi. Lo studio di questo procedimento, che «appare plurimo e contaminatorio, secondo la tecnica del pasticcio o del capriccio, solo in parte dichiarato e, forse, solo in parte consapevole», p. 161, consente di comprendere l’opera di Gadda in maniera più approfondita e di suggerire alcune stimolanti ipotesi di lettura, soffermandosi, per esempio, sull’influenza esercitata dalle opere di Caravaggio, il quale, pur non essendo mai menzionato esplicitamente (comparirà, però, per ben due volte nella riduzione del Palazzo degli ori), svolge comunque una funzione decisiva per «la rappresentazione precisa e attenta di ogni oggetto reale», p 191, rivelandosi per lo scrittore, oltre che l’occulto scenografo di alcune scene-chiave, un vero e proprio modello di poetica.
La polarità fra dimensione noumenica e fenomenica, cioè fra «astrazione della conoscenza e concretezza empirica e vitale delle forme che la affabulano», p. 195, costituisce, secondo Giuseppe Bonifacino, la cifra più evidente della scrittura gaddiana. Questa antinomia costitutiva si declina in ulteriori coppie polari – p. e. comico vs. tragico, eros vs. logos, tempo del mito vs. tempo del mondo, essere vs. divenire, ecc. – fino a manifestarsi nel doppio registro delle indagini condotte da Ingravallo, che sono di ordine tanto poliziesco quanto filosofico. È proprio in questo principio duale, dunque, che, secondo Bonifacino, si «“fabbrica” la trama”», p. 204, del Pasticciaccio, ed è perciò che «l’euresi – e, di necessità, la rappresentazione letteraria che su di essa dovrà incardinarsi – si attesterà, allora, quale lavoro interminabile di approssimazione alla – e di rifrazione figurale della – “verità” del noumeno: opposta, a sua volta, alla “provvisoria” (=temporale) realtà fenomenica ma da essa, in radice, indivisa», p. 211. Questo lavoro di approssimazione non può avere termine perché la verità è per sua natura segreta e impronunziabile; vive in questa polarità antinomica e «con essa per sempre si lacera», p. 223. Il motivo ricorrente e quasi ossessivo dell’esperienza e dell’indagine gaddiana, di evidente ascendenza amletica e schopenhaueriana, consiste, allora, nella definitiva presa d’atto dell’immanenza e dell’irredimibilità del male, evocato, nel romanzo, dalla figura enigmatica e premonitrice di Ermes, emblema del richiamo verso «lo spazio informe del caos primigenio», p. 201.
Se la realtà è un groviglio inestricabile, è necessario che lo sia anche la rappresentazione romanzesca in cui si specchia. Da questo presupposto scaturiscono la disintegrazione dell’intreccio in una serie di circostanze particolari e la deformazione del linguaggio nel tipico espressionismo gaddiano che di quel groviglio è la specificazione stilistica. La polifonia gaddiana è al centro dei due interventi successivi: nel primo, Luigi Matt studia il funzionamento del plurilinguismo, che nel romanzo emerge non solo nel discorso diretto, caratterizzato dalla presenza di dialetti diversi e dal fenomeno del code switching, ma soprattutto nell’indiretto libero e nella straniante sovrapposizione di voci narranti diverse, tecnica adoperata da Gadda, con sconcertante estro mimetico, al fine di riprodurre sulla pagina un flusso di coscienza corale. La fluttuazione continua del discorso si realizza attraverso soluzioni diverse: si adegua il discorso all’orizzonte linguistico di un singolo personaggio; si dà il compendio di ciò che pensa una pluralità di persone; si sostituisce al narratore esterno un narratore dialettale, secondo una strategia che sembra applicare il principio bachtiniano del discorso a due voci monodirezionale che non prevede l’innesto della voce di un personaggio nel discorso del narratore, ma la simultanea presenza di voci narranti distinte: «è come se fossero presenti contemporaneamente due narratori che si danno sulla voce a vicenda (focalizzazione mista), cosicché il lettore ascolta un po’ uno un po’ l’altro», p. 239.
Nel saggio successivo, Vincenzo Vitale conduce una perspicace ricerca sui regimi di focalizzazione utilizzati da Gadda a partire dal caso specifico del pronome dialettale “isso”, considerandolo la spia di un paradigma indiziario che chiarisce il funzionamento di alcune strutture portanti del romanzo. Se, infatti, la voce narrante è a focalizzazione mista, cioè se all’orizzonte ideologico del narratore – che si esprime sempre in un italiano iperletterario con innesti di toscano cinquecentesco e di dialetto milanese –, si sovrappone un coro popolare romanesco, non è chiaro perché l’autore ricorra, nell’episodio in cui si descrive l’apparizione di una gallina ‘incontinente’ nella bottega di Zamira, all’uso di un termine che invece è tipico dei dialetti meridionali. Escludendo l’ipotesi di un’avaria nel meticoloso congegno linguistico gaddiano, Vitale spiega questo affioramento, in apparenza inappropriato, con la regola del ‘plurilinguismo pertinente’, che consiste nel sovrapporre senza soluzione di continuità la voce narrante con la voce (e quindi con il punto di vista) di uno dei personaggi. Il termine “isso” non può essere attribuito a Fumi, l’unico personaggio a esprimersi in dialetto napoletano, ma che in quell’occasione non è presente sulla scena; è da attribuire, invece, all’abruzzese Cocullo Fara Filiorum, il quale vi partecipa pur tenendosi sempre in disparte. L’intenzione di Gadda era di fare in modo che il lettore «percepisse la coscienza linguistica del napoletano Fumi, prima di avvedersi della presenza sulla scena dell’Abruzzese per antonomasia», p. 278, cioè della presenza parodizzata di Benedetto Croce (che era, appunto, abruzzese di nascita e napoletano d’adozione). L’allusione al filosofo riflette «l’ambivalenza del sentimento nutrito da Gadda nei confronti di Croce, che è al contempo di grande deferenza e di insofferenza per il peso del suo autoritarismo intellettuale», p. 278. Il rinvio a Croce, inoltre, autorizza il confronto con una fonte del Pasticciaccio fino ad oggi trascurata, il Cunto de li cunti di Giambattista Basile, di cui lo stesso Croce fece la prima traduzione in italiano: «nel primo trattenimento della quinta giornata è possibile difatti riconoscere la fonte dell’episodio della “gallina evocata di tenebra”», p. 282. La scatologia gaddiana e l’equazione preziosi-escrementi, fondamentale nell’economia del Pasticciaccio, discenderebbe direttamente da quel modello.
L’articolato sistema di vasi comunicanti che collega le opere di Gadda è esaminato da Federica G. Pedriali, che propone un inedito confronto fra L’Adalgisa e il Pasticciaccio a partire dall’analisi di alcuni motivi ricorrenti. Da tale confronto emerge la coincidenza di una serie di elementi che permettono di illustrare alcune caratteristiche generali della narrativa gaddiana, come ad esempio «l’impulso alla dissoluzione», p. 294, cioè la «capacità d’invenzione sin da subito impegnata a tradurre in massimo segreto di evidenza il proprio degrado, tra sviluppi maggiori e sviluppi rifiutati, degradazione inespungibile e degradazione espunta», p. 308. Tale propensione si riflette, ad esempio, nell’organizzazione dell’intreccio che segue di norma lo schema narratologico proemio-avvio-interruzione dell’avvio.
I saggi raccolti nel volume sono da ritenersi un punto di riferimento imprescindibile per la gaddistica a venire, in particolare per lo studio e l’interpretazione del romanzo che ha rappresentato, meglio di altre opere contemporanee, la trasformazione del tessuto sociale italiano verso la modernità. Un’attenta riflessione sulle tesi avanzate dai relatori permetterà, infatti, di comprendere più in profondità il funzionamento del «meraviglioso ordegno» approntato dal grande pasticheur.
[Recensione a Un meraviglioso ordegno. Paradigmi e modelli nel Pasticciaccio di Gadda, a cura di M.A. Terzoli e C. Veronese, Roma, Carocci, 2013, in «Poetiche», vol. 17, n. 42 (1, 2015), pp. 419-426.]
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