di Ferdinando Boero
Molto attuale il dibattito sul significato dell’Università innescato da Stefano Cristante e rinvigorito da Paolo Gull e Roberto Cirillo. Ci vorrebbero monografie ponderose per sviscerare l’argomento, proverò solo a dare un modesto contributo. In passato, nelle Università italiane, la mortalità studentesca era molto alta. Se si iscrivevano 100 studenti al primo anno, al secondo ne restavano 70, e al successivo 50 e alla fine si laureavano in 30. Quando i corsi di laurea quadriennali passarono a cinque anni il numero dei laureati diminuì ulteriormente. Il governo disse alle Università: non siete capaci a fare il vostro mestiere! Ne entrano 100 e ne perdete 80-90. Oppure, se si laureano, ci mettono troppo: ci sono troppi fuori corso. Traduco: li dovete promuovere tutti, e in tempo. Se non lo fate vi diminuiamo i finanziamenti. Poi abbiamo fatto la riforma dei curricula con il sistema 3+2. Tre anni di corsi di base, e due di corsi magistrali. E, dopo, il dottorato di ricerca. I nostri dottorati sono di tre anni. E praticamente tutti prendono il dottorato in tre anni. Secondo le logiche governative, i nostri dottorati sono i migliori del mondo! Tutti entrano e, dopo tre anni, ottengono il titolo. Negli USA il dottorato è di cinque anni, ma molti ottengono il titolo in sei o sette anni. In altre parole: i nostri corsi universitari erano molto selettivi, mentre negli altri paesi la selezione avveniva nei dottorati. Ora i nostri corsi universitari sono come quelli di tutti gli altri paesi, ma i nostri dottorati non sono selettivi. Traduco ulteriormente: prima avevamo un’ottima università e un dottorato non molto buono. Ora abbiamo sia l’università sia il dottorato a livelli non adeguati. Le valutazioni delle Università stanno spingendo le Università che non “rispondono” ai requisiti qualitativi verso la marginalità e solo quelle che “hanno capito” avranno la possibilità di prosperare. Avremo Università ridotte ad esamifici, e Università di alto livello, con didattica basata su solidissima ricerca. Esistono soluzioni intermedie. Ogni Università deve identificare i propri punti di forza, basati sulla qualità della ricerca, e deve offrire corsi che siano rivolti non al “territorio” ma a tutto il bacino di utenza del paese. Gli studenti pugliesi vanno a studiare fuori regione, a migliaia. Vanno via perché pensano di trovare una preparazione migliore presso Università prestigiose. Che vadano, è loro diritto chiedere il meglio. E noi? Noi dobbiamo fare in modo che gli studenti di tutta Italia vengano qui a studiare, nelle discipline in cui siamo all’avanguardia. Ce ne sono, e non sono poche. Sessant’anni fa l’Università di Lecce, ora Università del Salento, fu istituita non per i ricchi che mandavano i loro figli al nord, ma per chi non si poteva permettere di mandare i propri figli a studiare “fuori”. Meglio una laurea “casalinga” che nessuna laurea. Le condizioni sono cambiate. E’ inutile spendere tanti fondi pubblici per fare Università locali. Meglio offrire borse di studio per mandare gli studenti pugliesi a studiare in ottime Università, dovunque esse siano. I fondi pubblici per le Università “locali” devono servire per far venire qui gli studenti del nord, del centro e del sud, offrendo loro il meglio che abbiamo da esprimere. Lo abbiamo, non smetterò mai di dirlo.
Lecce è una perfetta città universitaria. La città è bellissima (lasciatelo dire a uno che non è nato qui), il territorio offre opportunità di altissimo livello, a prezzi competitivi. Uno studente di Milano che studia a Lecce trova una qualità della vita impensabile a Milano. E uno studente di Milano viene qui se sa che qui trova un’istruzione che a Milano non può ricevere. I salentini andranno a studiare a Milano quello che qui non è ai livelli di Milano, ma noi abbiamo conoscenze che a Milano non ci sono. Un’Università “locale” deve ambire a diventare una Università nazionale, non per niente Lecce ambisce ad essere una capitale culturale, non in Puglia o nel meridione, ma in Italia e in Europa. Le crisi devono servire per cambiare visione. Prima il nostro vino era di bassa qualità ed era venduto a basso prezzo per rinforzare i vini “deboli” del nord, con scarso guadagno per i produttori. Ora produciamo vini di altissimo livello, e li vendiamo nel mondo. Abbiamo cambiato prospettiva. Lo stesso stiamo facendo con l’olio, e continueremo dopo che il problema Xylella sarà stato risolto. Prima il nostro olio era “lampante” e veniva usato per le lampade. Con l’elettricità quell’uso finì e questo ci mise di fronte a due alternative: fallisce l’olivicoltura, oppure evolve in qualcosa di differente, e si produce olio di alta qualità. Lo stesso vale per la pasta. L’Università è una fabbrica di cultura. Il prodotto sono generazioni con elevati livelli intellettuali. La conoscenza prodotta qui deve essere “venduta” nel paese intero, in Europa, nel bacino del Mediterraneo. Abbiamo tutte le carte in regola per farlo, dobbiamo solo crederci e farlo. Se continueremo a guardare al Salento come bacino di utenza, i giovani continueranno ad andar via. Chi non può permettersi di andar via si dovrà accontentare di una preparazione “locale”. E’ questo che vogliamo? Io credo di no, e lo credono anche i giovani che continuano ad andar via. Resteranno qui non perché apriremo nuovi corsi di laurea, ma perché i nostri corsi saranno migliori di quelli del nord e del centro. Non esprimeremo tutti i campi della cultura, non ce la fa nessuna Università. Quello che avremo da offrire, però, dovrà essere “il meglio”. La verifica sarà l’aumentata attrattività di studenti che vengono qui da altre regioni. Questo momento di crisi offre opportunità enormi e deve essere gestito con una visione che non può limitarsi alla costruzione di nuovi edifici e all’istituzione di nuovi corsi di laurea. Solo l’alta qualità del nostro “prodotto” ci permetterà di avere un’Università come il Salento merita. E il Salento la deve chiedere con forza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 24 marzo 2017]