Il pingue gattopardo e la Patagonia

di Paolo Maria Mariano

I tentativi di miglioramento delle condizioni in cui versano un’istituzione, una città, una regione, uno stato, perfino una comunità di nazioni trovano sempre forte resistenza nel gattopardo che occupa pingue una posizione di potere e in genere si oppone, per principio, a qualsiasi cosa che non sia la cristallizzazione dello status quo, per il timore di perdere la propria posizione di privilegio, di non essere in grado di navigare nel fiume che scorre, soprattutto d’indirizzarlo. Semmai, il pingue gattopardo si apre d’istinto solo a ciò che immagina gli porti personale vantaggio, senza porsi il problema delle condizioni della comunità in cui la sua posizione di potere si esercita. Se miglioramento avviene per essa, è dunque solo per caso.

Per opposizione per principio intendo la volontà di non discutere in maniera comparativa e razionale e con competenza la situazione corrente per cercare forme di crescita, ove ce ne possa essere, limitandosi a lamentarsi e attribuendo alle abitudini altrui l’impossibilità della discussione, o comunque il fallimento di un qualsiasi tentativo la discussione stessa possa indicare. Sospetta, il nostro, la propria sostanziale incapacità e trova invece nell’esercizio del comando una dimostrazione della propria esistenza altrimenti pericolante. Così, se qualcosa inquina le coscienze, l’amministrazione, l’ambiente, la salute degli esseri viventi, si lascia correre, facendo finta di niente, perché ci si dimentichi, per non mettere in pericolo la propria posizione.

Parlando di gattopardo, il lettore lo sa, non intendo riferirmi ai felini Leopardus pardalis o Leptailurus serval, quanto a quel tipo umano che Tomasi di Lampedusa ha descritto nel magnifico romanzo che solo la miopia ideologica di Vittorini (scrittore di livello inferiore al principe siciliano) gli impedì di vedere pubblicato mentre era in vita, ma che noi oggi possiamo gustare per la sensibilità (postuma a Tomasi) di Feltrinelli e di Bassani. E immagino il gattopardo spiritualmente pingue (al fisico non mi riferisco necessariamente) perché la volontà di potenza ha in genere conseguenze psicologiche pantagrueliche, quando si spinge troppo oltre.

Il pingue gattopardo, quello umano intendo, ha un habitat agevole nelle società articolate in maniera complessa. Avrebbe difficoltà all’affermazione dell’istinto gattopardesco ove egli/ella si dovesse confrontare da solo/sola con la natura che sa essere docile e carezzevole ma anche dura e devastante. In quel caso forse cercherebbe di migliorare quanto ha intorno perché avrebbe bisogno d’intelligenza positivamente costruttiva per arrivare alla fine del giorno con la prospettiva di un mattino migliore, dopo il sonno che corrobora dalla stanchezza del lavoro produttivo e non dell’occupare con protervia una posizione.

Così mi veniva da pensare rileggendo dopo anni Patagonia Express di Luis Sepúlveda. Nella mia biblioteca possiedo la prima edizione italiana, proposta da Feltrinelli nel 1995. In libreria ne è disponibile una nuova: TEA, 2011. Il cileno, Sepúlveda intendo, che ora vive in Spagna, nelle Asturie, colleziona in uno scarno ma frizzante libretto gli appunti presi su di un quaderno moleskine, durante un viaggio in Patagonia. È il tipo di quaderno che Bruce Chatwin, compagno di viaggio in spirito (suo è In Patagonia, Adelphi, 2003, tredicesima edizione), ha fatto diventare famoso. Sulle sue pagine appaiono storie di quella regione divisa tra Cile e Argentina, con la costa cilena frastagliata da fiordi e guardata da isolette, terra di steppe e di altipiani ciottolosi che si estendono fino alle Ande, dove la vegetazione riprende vigore e bacini lacustri si adagiano alla cordigliera. La Patagonia ha una superficie pari a circa il triplo di quella dell’Italia ma la densità di popolazione è di soli 2,21 abitanti per kilometro quadrato, poco più di un milione e settecentomila in tutto.

Sepúlveda non si dilunga sulla geografia, né sull’economica della regione. Scrive di storie minime, di persone che ha incontrato, di gente che fa il proprio lavoro con dignità, di gente che si oppone nei fatti e senza urlare alla protervia di chi gestisce con arroganza il potere che ha, di gente che sceglie di essere solidale.  Sepúlveda scrive anche di gente schiva per paura ma che la natura patagonica ha forse cambiato: Carlitos il falegname, in realtà Klaus Kucimanovic, un fisico sloveno, che aveva militato con gli ustascia croati a fianco dei tedeschi nel secondo conflitto mondiale, un collaborazionista, non un criminale di guerra, pare, emigrato prima a Buenos Aires, dove aveva ottenuto una cattedra di fisica, e poi, per paura, in Patagonia, “in questa parte del mondo dove non si fanno domande e il passato è semplicemente una faccenda personale” (pag. 96). Lo descrive in poche pagine avanti negli anni, in logora tuta da meccanico. Aiutava i conoscenti aggiustando i piccoli guasti casalinghi, ma aveva individuato il buco dell’ozono, diagnosticandone la dimensione e prevedendone l’evoluzione, in lettere indirizzate a varie università europee nel 1980, con un’esattezza confermata otto anni dopo dalle osservazioni della NASA. Quando lasciò questo mondo, nel farlo si lamentò con un amico di non avere fatto in tempo ad aggiustargli il frigorifero. Gli assegnarono un premio nel 1988 e fu l’organizzazione dei Nobel Alternativi a indicarlo per la fisica. Non si fece trovare e chiese di dire a “quei cretini” di fermare l’inquinamento atmosferico invece di dare premi inutili. “Premi sono per reginette di bellezza” (pag. 96).

Terra ostile la Patagonia al pingue gattopardo che intende rimanere tale, pre-antartica, terra cantata da Francisco Coloane in tutta la sua opera, terra la cui solitudine impone rispetto per la natura, perché essa è intorno a noi e noi siamo natura. Il guadagno di un momento non ci deve autorizzare alla distruzione futura che ci fingiamo egoisticamente lontana per un inutile tornaconto o per pigrizia. Ci sono tanti motivi per questo. Forse il più semplice è che vale la pena fare in modo che vivere possa sempre essere, per parafrasare Sepúlveda (pag. 104), “un magnifico esercizio.”

 

 

Questa voce è stata pubblicata in Recensione e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *