Parole, parole, parole 22. Il linguaggio della politica

Il che non vuol dire che il politichese sia scomparso e che i cittadini capiscano appieno le espressioni usate in politica: «democrazia negoziale», «giustizia climatica», «sforzo produttivo», «cambio di passo» sono formule adottate trasversalmente da esponenti di diversa collocazione politica, ripetute e amplificate dai media. E tuttavia, pur ricorrenti,  non suonano familiari al parlante comune, fanno parte di un lessico specialistico percepito con difficoltà, appartengono a un circuito quasi iniziatico che stenta a diventare generale.

Considerazioni differenti possiamo fare per i modi di dire e per le frasi fatte, gli uni e le altre di largissimo consumo. Il ricorso a un lessico preconfezionato permette di rilanciare senza sforzi di inventiva dichiarazioni identiche in situazioni diversissime, utilizzando espressioni a tutti note che fingono di mettere il politico allo stesso livello del cittadino comune: parlo come te, siamo uguali, non godo di privilegi particolari. Rispetto  a «metterci la faccia», «mettere a terra», spetta forse a «mettere le mani nelle tasche dei contribuenti» il record delle espressioni fruste e inflazionate, che molti ripetono a cuor leggero, quando si discute di tasse. Senza distinguere tra tributi correttamente versati dai cittadini onesti in misura  proporzionale al proprio reddito (come vuole la Costituzione) e tributi illecitamente non versati dagli evasori, che (con frode) danneggiano chi invece si comporta in maniera corretta con le tasse.  

Un segno lampante dei tempi mutati è la caduta in disuso della denominazione «partito», largamente maggioritaria nella Prima Repubblica: prevalgono invece scelte centrate su parole o espressioni che indicano una qualifica o un atteggiamento degli aderenti, spesso inserendovi il nome «Italia», elemento catalizzatore polifunzionale, valido per ogni stagione. A questo modello di etichette linguistiche si accompagna una spiccata personalizzazione dei simboli, in cui campeggiano i nomi dei leader, perfino di chi è scomparso ma si ritiene che possa continuare a esercitare influenza sull’elettorato. Nei discorsi e nelle dichiarazioni l’uso, ossessivamente autocelebrativo, del pronome io contribuisce a rappresentare il leader come una sorta di capo guerriero salvatore, che si impegna personalmente per il bene degli elettori e, investito di una simile missione, si permette il dileggio degli avversari, visti come nemici personali che non meritano rispetto. I messaggi mirano a creare e mantenere un rapporto fiduciario con chi vota, inneggiano alla condivisione degli stessi ideali e alla comune identità originaria: un medesimo «sentire», esaltato da valori simbolici e condivisi. Potere delle parole prive di contenuti e seduzione incomparabile che esse esercitano.

Nonostante tutto, non sono pessimista. Per Aristotile la politica è arte suprema che risponde ai bisogni naturali dell’individuo. Se tornerà ad essere tale, le forme del linguaggio politico esprimeranno questi valori.

                                                                 [“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 7 giugno 2024]

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