Su Giocattoli rotti di Giuseppe Minonne

di Antonio Lucio Giannone

 La prima osservazione che mi viene da fare su questo romanzo (Giocattoli rotti, Roma, Sovera, 2000) riguarda l’argomento che tratta e quindi il tipo di romanzo a cui ci troviamo di fronte, perché questo ci permette di mettere in rilievo già una prima caratteristica di quest’opera. L’argomento, dunque, è una storia di destini individuali, di vicende di singoli individui, che si intrecciano tra di loro. L’attenzione dell’autore cioè non va a problemi di natura sociale, collettiva, storica, ma appunto a problemi di tipo esistenziale, che si riferiscono solo alla coscienza dei personaggi del libro. Ci sono riferimenti, è vero, al tema dell’emigrazione, alle differenze di classe in un paese del Sud, ma questi temi sono sullo sfondo, non vengono mai in primo piano. Quindi possiamo dire che il romanzo di Minonne è di tipo intimistico, introspettivo, esistenziale, se vogliamo, pur trattandosi di un’opera, ripeto, ambientata in un piccolo paese del Sud, in un periodo segnato ancora da gravi problemi sociali. E questa, mi sembra, è già una caratteristica del romanzo, anche se non possiamo dire ovviamente che si tratta di una novità in senso assoluto, dal momento che esiste anche questo filone nella narrativa meridionale, pur non essendo quello predominante.

            Romanzo, dunque, di tipo introspettivo, che analizza i riflessi di fatti e avvenimenti esterni nell’animo, nella coscienza dei personaggi e dal quale ovviamente emerge la visione del mondo, della realtà che ne ha l’autore, come vedremo anche analizzando  brevemente la tecnica narrativa di Minonne. Che cosa si può dire riguardo a questo aspetto? Per quasi tutto il libro c’è un’atmosfera piuttosto cupa, spesso tragica, con una morte violenta, una storia d’amore  che si interrompe bruscamente per questo motivo e dalle quali poi scaturisce la fabula, e ancora malattie che non perdonano, casi di coscienza angosciosi. C’è un lieto fine, ma anche quello è  lieto solo apparentemente, perché c’è un grumo di dolore nel protagonista che non riesce a sciogliersi mai: “E vissero lei felice e contenta, lui soltanto contento”, scrive l’autore. Quindi una visione pessimistica, sconsolata dell’autore, non rischiarata almeno nel libro da nessun tipo di fede, né religiosa, né laica. Alla base delle vicende narrate nel libro c’è come un senso di predestinazione, di fatalismo, come emerge in una frase, un po’ sentenziosa, come spesso capita,  che si trova proprio alla fine, che sembra racchiudere il senso di tutta questa storia: “Spesso i grandi dolori sono il prezzo di una rigenerazione, come le grandi rovine sono il costo di civiltà perfezionate”.

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