La libreria di mio padre

Aiutavo mio padre nell’opera di sistemazione dei libri, che dalla scrivania e dalle sedie passavano sui ripiani della libreria in un ordine preciso: sulla scansia più alta, i classici italiani, ovvero i diversi commenti scolastici alla Divina Commedia e le opere minori di Dante, un volume di Petrarca, uno di Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Tasso, Parini, Goldoni e Alfieri, Leopardi, Verga, Carducci, Pascoli; nel mezzo della libreria trovavano posto i classici latini, edizioni antologiche commentate di Terenzio, Cicerone, Virgilio, Orazio, Catullo, ecc.; più in basso, i classici greci, Omero, i lirici, i tragici, la Commedia nuova, anch’essi in edizioni scolastiche commentate. Un’altra sezione della libreria era occupata dai libri di critica letteraria (Fubini, Russo, Flora, Sapegno, Getto, ecc.) e da quelli di storia e di filosofia. Col passare del tempo, progredendo con gli interessi di mio padre, la libreria andò sempre più arricchendosi di altre presenze: una sfilza di libri della UL (Universale Laterza) e poi i libri degli Editori Riuniti, che testimoniavano la forte simpatia di mio padre per il PCI: i Quaderni del carcere di Gramsci, il Carteggio Marx-Engels, ecc.; e poi i libri di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Palmiro Togliatti, ecc. 

Come si comprende, ben presto la scrivania, dapprima liberata dai libri, tornò a esserne ricoperta, e nella libreria, sebbene fosse molto capiente e i libri ormai fossero disposti su due file, il che rendeva difficile il loro reperimento, col passar del tempo non ci entrò più nemmeno un opuscolo. Allora, mio padre di nuovo prese ad impilare i volumi sulle sedie, e ogniqualvolta gli faceva visita un amico, si doveva provvedere a spostarli sul tavolo per far accomodare il nuovo arrivato.  Alla fine questo tavolo somigliava a Manhattan vista dall’alto, dove ogni grattacielo era una torre di libri e tutte insieme le torri formavano la Grande Mela, avente i suoi sobborghi sulle sedie della stanza.

Il criterio in base al quale mio padre decideva se un libro dovesse essere collocato nella libreria oppure sul tavolo consisteva nell’utilizzo più o meno immediato che ne faceva. Per esempio, le antologie scolastiche o i manuali di letteratura o le grammatiche con relativi eserciziari non ebbero mai il posto d’onore della libreria, perché appunto essi erano libri d’uso scolastico e quotidiano. Perciò il Perrotta, il Gentile, il Marti-Varanini, il Pazzaglia, il Tantucci, ecc., giusto per fare qualche esempio, erano sempre sul tavolo in compagnia dei vocabolari di consultazione: il Rocci, il Georges-Calonghi e lo Zingarelli, ecc. ; e, insieme a questi, i libri di versioni, quelli dei classici, le antologie di critica letteraria, qualche Divina Commedia, come si usava una volta; insomma, tutto l’armamentario di un professore di liceo; e infine i libri e i giornali e i periodici e le riviste di prossima lettura, spesso rimandata, che si accumulavano per mancanza di tempo ed avevano una sorta di succursale nella camera da letto, sul cui comodino giacevano in attesa che mio padre dedicasse loro una tarda lettura notturna. Di tutto il tavolo di lavoro, mio padre si riservava una porzione piccolissima, quanto bastava per aprire un libro, correggere i compiti, scrivere, giocare la schedina del Totocalcio una volta la settimana – giusto per tentare la Fortuna, che purtroppo si rivelò sempre sorda ai suoi richiami – e tenere il telefono a portata di mano. Sedeva dietro il tavolo: alle sue spalle, in alto, il grande quadro del diploma di laurea incorniciato d’oro massicciamente,  e il ritratto della madre venerata; sedeva pressoché invisibile dietro le alte torri di Manhattan, a chi guardasse dall’altra parte della stanza, se non fosse che lasciava aperto davanti a sé un angusto corridoio tra le pile pericolanti dei libri, un piccolo pertugio che conduceva in uno stretto spazio dall’altra parte del tavolo dove lo studente di turno poteva trovare un piano minimo su cui poggiare un quaderno. Era quello il tempo delle lezioni private.

Talvolta mio padre mi chiedeva di aiutarlo ad estrarre un volume, capitato sotto un’alta pila di libri, ch’egli non avrebbe potuto raggiungere facilmente. Allora, mi davo da fare e, col rischio di rompere il fragile equilibrio che col tempo i libri avevano raggiuto, le torri pericolanti appoggiandosi e sostenendosi l’una all’altra, evadevo la richiesta; qualora poi questa avesse riguardato un libro della libreria, cosa che accadeva più di rado, non avevo alcun dubbio su dove mettere le mani perché, da piccolo solerte bibliotecario, sapevo bene dove io stesso lo avevo collocato. Fosse stato per mio padre, di sicuro avrebbe ordinato all’ebanista di fiducia una seconda libreria. Ma egli non si azzardò mai a tanto, perché sapeva che avrebbe incontrato l’aperta opposizione di mia madre.

Donna profondamente dotata del senso del limite, per cui una libreria in casa bastava e avanzava, mia madre concentrava tutti i suoi sforzi economici, riassumibili con la parola “risparmio”, nella costruzione della casa; e, vivendo noi in casa in affitto, già l’acquisto di una libreria rappresentava una deroga significativa al suo fine, che doveva essere anche il nostro. Il piano di lavoro della scrivania era stato ampliato a dismisura, la libreria era stata acquistata, mio padre aveva fatto presto a riempirla, occupando anche la superficie della scrivania e delle sedie in lungo, in largo e in altezza: e sia! Però ora tutto questo doveva bastare! Le riviste a cui mio padre era abbonato (“Belfagor”, “Studi storici”, “Critica marxista”) e i periodici che andava acquistando (“Il Mondo”, “L’Espresso”, infine “Rinascita”), se proprio non se ne poteva fare carta da bruciare o da riciclare con qualche profitto, dovevano accontentarsi di un posto defilato ai lati della libreria, per terra, sopra un cartone che mal difendeva i numeri più antichi dalla polvere, dall’umidità e – si verificò anche questo – da una famigliola di topi, che, poverina, venne un giorno a farci visita, ma poté rodere ben poco perché fu presto sterminata.

Mio padre non osava conservare anche i quotidiani, se non sotto forma di ritagli in occasione di un evento particolare (lo sbarco sulla Luna, la morte di Pasolini, ecc.) o nel caso di qualche articolo d’una certa importanza; ritagli che utilizzava poi come segnalibro. Il giornale, una volta letto, finiva nelle mani di mia madre, che non vedeva l’ora di sbarazzarsi di un po’ di carta, impiegata con grande liberalità per alimentare la fiamma della cucina economica. Quando poi cambiammo casa e mia madre non ebbe più a disposizione la cucina economica, ecco che si presentò a casa un omino che ritirava i giornali per farne un uso particolare. In quel tempo, quando ancora non c’era la mania di buttar tutto in discarica, i pescivendoli usavano ricoprire il cartoccio del pesce acquistato al mercato con la carta dei quotidiani, tenuta confitta con un chiodo al muro della bottega, a portata di mano; e così pure facevano i fruttivendoli e i calzolai e molte altre categorie di venditori e artigiani. Non so se mia madre ottenesse qualcosa da questo piccolo commercio, che mio padre ignorava e che comunque avrebbe disapprovato, nella misura in cui non poteva accettare che un giornale così importante come era quello ch’egli leggeva, “L’Unità”, fondato da Antonio Gramsci, diventasse carta da pesce. Ma è molto probabile che ella, durante le sue compere quotidiane al mercato, si sentisse autorizzata coi commercianti a tirare sul prezzo anche in virtù di questo precedente. Ricordo bene che la spuntava sempre…!

I periodici e le riviste erano affidate alla mia gestione di bibliotecario, una gestione alquanto scrupolosa e attenta all’ordine cronologico dell’impilamento, secondo la volontà di mio padre. Ma per quanto io mettessi ordine tra libri e riviste, si comprende bene come col passare degli anni lo studio di mio padre sia divenuto impraticabile e invivibile, tanta era la carta che lo aveva invaso. Inoltre, dal momento che nel periodo invernale nella stanza si accendeva una stufa a gas, le lamentele di mia madre che tutta quella carta potesse prendere fuoco, e con essa la casa intera, che neppure era di nostra proprietà, non tardarono ad avere la meglio sulla volontà di mio padre di tenere vicino a sé i suoi “strumenti di lavoro”. Allora, fu deciso che le riviste sarebbero rimaste al loro posto, lontane dalla stufa, mentre i periodici più numerosi sarebbero finiti in soffitta, esattamente tra “le buone cose di pessimo gusto” cantate dal poeta; e così fu fatto, anzi così feci, dal momento che, se lo studioso di casa era mio padre, io, come ho detto, ero il suo bibliotecario, ma con funzione anche di usciere, cui spettava il compito gravoso di trasportare e depositare in soffitta i periodici nell’ordine in cui li avevo disposti.

Questa mia funzione di usciere aveva modo di espletarsi in modo più dignitoso soprattutto in occasione di qualche missione in trasferta che mi veniva di tanto in tanto affidata. Infatti, qualche volta mio padre, previo accordo telefonico, mi inviava presso un amico studioso o un suo collega professore per prelevare o restituire o consegnare un libro, un opuscolo, un estratto o un semplice articolo di giornale. Erano gli “scambi culturali” tra gli intellettuali locali, come li definiva mio padre. Inforcavo la mia bicicletta rossa, e via verso la casa che mi era stata indicata, fiero e baldanzoso per l’incarico d’importanza appena ricevuto, eppure piuttosto intimidito dalla prospettiva che di lì a poco mi sarei trovato davanti a un severo e arcigno professore. Ma poi mi confortavo pensando che anche mio padre era un professore e, almeno con me, non era per nulla arcigno. Perché dunque il suo collega doveva essere così disumano come me lo figuravo nella mia fantasia un po’ infantile?

Qualche volta la meta della missione affidatami era la Biblioteca comunale, lo scopo il prestito d’un libro. In quel tempo la Biblioteca comunale andava organizzandosi nel migliore dei modi sotto la guida di un attento bibliotecario, scrupolosissimo nel farmi compilare le diverse schede necessarie al prestito, nelle quali andava ripetuto più volte il nome e cognome dell’autore, il titolo dell’opera, il luogo e la data di pubblicazione e poi il nome e cognome del lettore-utente, il suo indirizzo e numero telefonico, il tutto da scrivere con bella grafia immediatamente leggibile. Una volta adempiuta questa importante formalità, durante la quale il bibliotecario manteneva un atteggiamento composto e severo, come si confà ad un pubblico ufficiale, un sorriso serafico si disegnava sul suo volto paffuto ed egli sembrava ben felice di esaudire il desiderio di mio padre prestandomi il libro richiesto. Allora, portando con sé la scheda che fungeva da promemoria e da traccia da seguire nei recessi della biblioteca, ch’io potevo solo immaginare ma non visitare, mi lasciava per qualche minuto da solo nella grande sala piena di scaffalature e se ne andava alla ricerca del libro custodito in un’altra stanza, ritornando poi col libro in mano e con lo sguardo contento di chi non delude le attese.

Giunse il tempo del definitivo trasloco nella casa di nostra proprietà, che era stata al sommo dei pensieri di mia madre, una casa moderna, dove non c’era una soffitta perché nessuno di noi l’aveva richiesta all’ingegnere incaricato di disegnare la pianta; e dunque non potevano più sopravvivere “le buone cose di pessimo gusto” cantate dal poeta. Che fare dei numerosi periodici stipati nella vecchia soffitta? Quello era il momento di ripagare la gentilezza del bibliotecario comunale, pensò mio padre, che, preso dal demone didattico, che lo accompagnò per tutta la vita, prevedeva l’utilità dei suo periodici per le future generazione di giovani, intente a fare le loro ricerche sfogliando le pagine ingiallite de “Il Mondo”, “L’Espresso” e, soprattutto, “Rinascita”; quello era il momento di disfarsi di quell’inutile montagna di carta, pensò mia madre, che non solo stentava a credere che i periodici potessero costituire degli utili “strumenti di lavoro” o di “ricerca”, ma rimpiangeva la considerevole somma di denaro che era stata spesa per il loro acquisto e che nessuna biblioteca pubblica avrebbe ripagato, neppure in minima parte.

Comunque loro la pensassero, fui io a sobbarcarmi la fatica del trasporto da casa fino alla Biblioteca comunale. Avevo quindici anni, ma sapevo guidare la Cinquecento L di mia madre; e fu con quest’auto che, a più riprese, trasferii presso la Biblioteca comunale pacchi e pacchi di periodici polverosi, consegnandoli al mio caro vecchio amico bibliotecario, che, davanti a tutta quella polvere, non poté esimersi dallo storcere il naso!

Toccò anche a me la fatica di trasportare tutti i libri e le riviste da una casa all’altra, dal vecchio studio al nuovo, che era stato previsto nella stanza adiacente l’ingresso dell’abitazione. La grande libreria fu smontata, trasportata in pezzi e rimontata; del gran tavolo-scrivania fu fatta legna da ardere, poiché risultava troppo logoro e ingombrante, e fu acquistata una scrivania di dimensioni ridotte, che presto fu invasa dagli “strumenti di lavoro” di mio padre. Un giorno intero, su e giù, da una casa all’altra, con l’auto piena di  libri e riviste; e poi un altro giorno, in compagnia di mio padre, che sorvegliava la disposizione cronologica dei libri: guai a mettere Petrarca prima di Dante o Boccaccio prima di Petrarca! Così lo studio di mio padre riprese la sua forma primitiva, col grande quadro dorato della laurea accanto a quello della madre venerata.  Solo poche disusate antologie e alcuni libri di abusate versioni latine presero la via del fuoco. A lungo su quel tavolo rimasero le pesanti antologie del Salinari, il manuale del Lamanna, i volumi rossi del Villari, et cetera.

Sono passati tanti anni da quei giorni, la vecchia libreria di mio padre e lì, nel suo studio, e custodisce ancora i suoi libri, quelli che io stesso, il bibliotecario, ho salvato dal naufragio che interviene sempre dopo la scomparsa di un uomo. Li donerei tutti alla Biblioteca comunale, come ho già fatto di molte centinaia, se una debolezza non mi accompagnasse: il pensiero che in quella libreria v’è quanto rimane di mio padre, i suoi libri prediletti con lunghi brani sottolineati in rosso, tracce della sua dedizione. Lo studio è rimasto immutato, solo v’è un ordine maggiore, non ci sono giornali da leggere né riviste da impilare, poiché gli abbonamenti non sono stati più rinnovati. Alle pareti si è aggiunto il quadro di mia madre da giovane, che mio padre volle con sé negli ultimi anni della sua vita, e null’altro. Le grammatiche, gli eserciziari, le antologie, tutto è scomparso, arso nel camino del Tempo. Sarebbe una stanza morta della casa, se ogni tanto io non ci andassi, preso dal ricordo di un libro che ho sistemato in una scansia tanto tempo fa. Riapro la vetrina, prendo il volume, lo maneggio ben bene, spolverandolo, mi siedo su una poltrona e comincio a leggere… 

[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 113-125]

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