di Rosario Coluccia
Lo denunciano i maestri delle elementari, si lamentano i professori della scuola secondaria inferiore e superiore, la situazione non migliora all’università. Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Dopo molti anni di scuola le carenze linguistiche degli studenti (grammatica, sintassi, lessico) sono evidenti, con errori che non tollereremmo in terza elementare. Non possiamo chiudere ancora gli occhi. Dobbiamo porci come obbiettivo urgente il raggiungimento di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti.
È un fatto, gli studenti non conoscono l’italiano in maniera soddisfacente. Il parco dei vocaboli da loro posseduti è ridotto; risulta ignoto il significato di parole mediamente colte come contrito, dirimere, emaciato, fandonia, fronzolo, improntitudine, stantio. Perfino nelle tesi di laurea universitarie si fanno errori. E anche oltre, molto spesso. Al proposito mi permetto di raccontare un episodio recente, non inventato. Un’università che non è corretto nominare mi ha chiesto di giudicare una tesi di dottorato di ricerca. In Italia la tesi di dottorato si fa dopo aver conseguito la laurea magistrale e il candidato impiega almeno tre anni (anche quattro, se è necessaria una proroga) per redigere il proprio lavoro. Al termine, gli esaminatori devono decidere se la tesi è valida (e in tal caso il candidato ottiene il titolo di dottore di ricerca) o se è insufficiente. Il lavoro che dovevo giudicare non era perfetto, c’erano errori e imperfezioni. Alla fine ho dato un giudizio positivo, nonostante qualche difetto. Aveva un pregio, che ho voluto sottolineare: «La tesi è scritta in buon italiano». Questa considerazione è banale e l’uso di un buon italiano in una tesi di dottorato dovrebbe essere scontato. Ma tale non è, considerati i tempi.