Il Sud tra mutamento e immobilità: Le parole sono pietre di Carlo Levi (Parte seconda)

di Antonio Lucio Giannone

La Parte seconda del libro non si discosta sostanzialmente da questa impostazione. Qui cambiano soltanto le località della Sicilia visitate e descritte, perché Levi si sposta ora dalla parte occidentale dell’isola (Palermo, Isnello, Lercara) a quella orientale (Catania, Bronte, Aci Trezza). Dapprima quindi parte descrizioni paesaggistiche, annotazioni coloristiche, divagazioni folcloriche (ricordiamo soltanto il brano iniziale, in cui Levi descrive il sorgere dell’alba sulla costa calabrese dal finestrino di un treno in corsa, che è un pezzo di prosa lirica vera e propria) e poi, quasi all’improvviso, riflessioni sulla storia e le condizioni del popolo siciliano. Anche stavolta la diversità del paesaggio sembra quasi preannunciare la scoperta di una realtà diversa, imprevista e imprevedibile. Lasciando la splendida costa di Taormina e spostandosi verso Catania, Levi nota infatti che “a un tratto questo paradiso di verde e d’oro si interrompe in una grande striscia nera, come un immenso nastro di lutto posato sulla terra: è la grande sciara di Mascali, la distesa di lava pietrificata scesa nel 1928 dal lontano cratere fino al mare sommergendo il paese sotto la sua nera onda infocata” (p. 100). Quest’altra faccia, questa faccia nascosta, tragica della Sicilia emerge in occasione della visita al paese di Bronte e al feudo della Ducea, dove egli ha modo di constatare direttamente le condizioni di vita dei braccianti e delle loro famiglie:

“Per terra, nelle strade, nei Cortili in pendio, scorrono, per mancanza di fogne, le acque putride, e il tanfo prende alla gola. Le case, se così si possono chiamare, sono delle tane dove piove dai tetti di canne, affumicate, spoglie, senza finestre, dove in pochi metri quadrati vivono accatastate otto, dieci, dodici persone. I bambini, dagli splendidi visi di angeli, hanno le pance gonfie per la malaria” (p. 109).

Insomma, commenta lo scrittore, “è lo spettacolo della più estrema miseria contadina, inaspettata in questa costiera paradiso” (p. 109), appunto.

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